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TITOLO: "Avevo un fratello di nome Fox"
AUTRICE: Helenia
Breve riassunto: Mulder torna da Scully dopo aver scoperto cosa realmente
accadde a sua sorella prima di morire.
RINGRAZIAMENTI: Lalla e Lup davanti a tutti, per l'incoraggiamento e i
suggerimenti.
I miei amici, passati e presenti, continua fonte di ispirazione.
Chris Carter, che ha creato qualcosa di meraviglioso e importante.
David e Gillian, per aver dato corpo a quel qualcosa.
Agli sceneggiatori e registi della serie.
A chi ha letto e leggerà ciò che ho scritto, giudici impariziali e
consiglieri preziosi.
Sono alla vostra mercé
La verità è la fuori.
Ma cè unaltra verità qui dentro.
Una verità che scompare come una goccia di latte sospesa nellacqua
quando
provi a toccarla.
Mi chiamo Mulder. Sono un agente dellFBI, uno strumento della legge
a volte
uno strumento della giustizia.
A volte non so di chi sono lo strumento.
Ma nella fiorente tradizione di molti re e capitani, ho un piano segreto.
Non è politico, finanziario o spirituale
anche se per me è divenuto come una
religione.
Se non altro è completamente personale.
Cerca di catturare lattimo che mi ha reso ciò che sono.
Da A little dream of me
Stefan Petrucha e Charles Adlard
I suoi capelli profumavano di latte di mandorle, come quella sera di secoli prima. Il
guizzo infantile nei suoi occhi si era affievolito, fino a diventare una matura
consapevolezza, come se quella figura, con la sua sola presenza, riuscisse a dare pace al
suo cuore tormentato. Quel corpicino così fragile e delicato fra le sue braccia: ne
avvertiva la stanchezza e il sollievo insieme, il peso del dolore, la crudeltà degli
esperimenti, la serenità della libertà. E quel contatto sciolse qualcosa dentro di lui:
sentì le sue membra farsi stanche e pesanti, la rabbia che covava, che aveva tenuto a
fatica chiusa nel suo animo, il senso di colpa che gravava su di lui per aver lasciato che
la portassero via (eri solo un bambino) scivolarono via, si congedarono in silenzio,
intimoriti dal suo sguardo amorevole.
Le baciò la fronte distesa, le guance rosee, i capelli scuri.
Samantha continuava a guardarlo, serena; sapeva quello che Fox aveva passato.
- I miei pensieri sono sempre stati per te, Fox. E le mie preghiere. Nel tuo cuore non me
ne sono mai andata. Ed è lì che voglio continuare a vivere. E lì che non morirò
mai -.
Fox era tornato. Dana aveva avvertito la sua presenza alla propria porta ancor prima che
lui bussasse.
Alzandosi a fatica da divano e spingendo in avanti la sua mole ormai mastodontica, si era
avvicinata alla porta, diligentemente aveva guardato nello spioncino. Un sorriso aveva
acceso il suo viso come una luce dentro una casa da troppo tempo disabitata. Aveva
spalancato la porta.
Fox era lì, davanti a lei, in piedi, ma dava limpressione di starci per miracolo. I
vestiti erano a brandelli, sporchi e puzzolenti. Sulle braccia e sulle gambe aveva
escoriazioni profonde e infette, i capelli spettinati. Lo sguardo stravolto, allucinato.
- Dana -, sussurrò luomo, faticando a distendere le labbra tumefatte in un sorriso.
- Fox - , aveva detto lei, restando senza parole, di fronte alluomo scomparso quasi
otto mesi prima e che ora, senza squilli di trombe, senza spiegazioni, sena avvisaglie,
era tornato nella sua vita.
- Ora so tutto, Dana, so cosa le è successo -, disse Fox, poco prima di svenire sul
pianerottolo di fronte allappartamento dellagente Scully.
Dana si guardò intorno, sbigottita e imbarazzata: come avrebbe fatto per sollevarlo da
lì? Si chinò a fatica fino a prendergli le mani e quindi aveva trascinato il corpo
dentro luscio, chiudendosi la porta alle spalle.
PRIMA PARTE PRIGIONIA
LA PAURA DELLA MORTE
Aveva un ricordo: una piccola bimba con soffici riccioli scuri , una fresca tuta rosa,
seduta sul prato, il sole che le bagna il viso, i grilli che cantano non molto lontani, la
dolce voce di sua madre che intona una ninna nanna seduta sulla panca sotto la veranda.
Aveva cercato di sforzarsi, di ricordare altro. Ma ogni volta i suoi sforzi si
rivelavano inutili, la testa cominciava a girare e doveva sedersi per non crollare a terra
svenuta.
Da qualche tempo le capitava di svegliarsi continuamente durante la notte, in preda al
terrore, una cieca paura di qualcosa che non riusciva a interpretare, come se ancora non
avesse tutti i mezzi per farlo.
E allora si rifugiava in quel ricordo
doveva essere un ricordo: era troppo reale e
vivo dentro di lei per essere solo un sogno o una fantasia. Jeffrey, con la sua logica e
la sua freddezza avrebbe detto che era una specie di coperta di Linus mentale,
nata dalla sua psiche tormentata e in cui rifugiarsi quando aveva gli incubi. Ma in
realtà non voleva parlare con lui di questo: lavrebbe presa in giro, come faceva
sempre; era già abbastanza umiliante sapere che lui sentiva tutte le sue parole confuse e
deliranti, il suo tormento notturno. Aveva anche provato a farsi dire cosa diceva, cosa
lui riusciva captare dai suoi discorsi slegati, ma Jeffrey aveva fatto spallucce,
laveva guardata negli occhi con quella sua odiosa espressione priva di emozioni,
dicendo che non capiva niente del suo farfugliamento e che, comunque, non aveva alcun
significato.
Quale idea assurda cercare in lui un amico, un rifugio nei momenti di sconforto!
Eppure sentiva chiaramente che accanto a lei, una persona molto vicina, qualcuno di cui
poteva fidarsi, cera.
E, insieme, avvertiva, giorno dopo giorno, il peso di qualcosa, la presenza costante di
entità sconosciute e note allo stesso tempo. Ogni volta che fermava lo sguardo sulle
proprie mani, sulla propria immagine allo specchio, aveva la certezza che qualcosa
cambiava.
Cambiamento.
Consapevolezza che il suo corpo non le apparteneva del tutto.
Alle volte aveva la sensazione che qualcosa di viscido e invisibile le strisciasse sotto
la pelle, divorandola come un cancro. E allora fuggiva sotto la doccia, strofinandosi le
braccia e le gambe fino a farsi uscire il sangue, fino a sentir male, piangendo disperata,
invocando nella sua mente quel nome, unico conforto e compagno di giochi nella sua
infanzia, il suo amichetto immaginario, il sostituto di quel fratello che Jeffrey non era,
non voleva essere.
Fox.
Un mugolio soffocato la distrasse dai suoi pensieri. Guardò nel buio, verso
langolo della stanza dove sapeva essere il letto di Jeffrey. In unaltra notte,
dalla finestra, sarebbero filtrati i raggi della luna, ma quella notte di luna nuova era
nera e profonda quanto i suoi incubi.
Posò lo sguardo sulle lancette verdognole in fianco al suo letto: le cinque e mezza. Fra
poco più di unora sarebbe stato giorno. Lasciò scivolare un piede sul pavimento,
sentendone la superficie dura e fredda. Poi laltro. Non che Jeffrey avesse il
sonno particolarmente leggero, ma la prudenza non era mai troppa: sapeva che sarebbe corso
a spifferare tutto alla mamma se lavesse vista sgattaiolare a quellora fuori
di casa: era da lui.
Ora veniva la parte più difficile: in quelloscurità no ricordava se aveva
dimenticato qualcosa sul pavimento o se Jeffrey si fosse tolto i vestiti gettandoli a
terra alla rinfusa, pericolose trappole per i fuggiaschi. Sam si mise carponi e iniziò a
gattonare verso la porta. La sua memoria fotografica era sempre stata una alleata preziosa
in quei momenti di evasione tanto mentale quanto fisica. La sua prudenza si rivelò
proverbiale: pochi passi e si ritrovò i jeans del fratello sotto i palmi delle mani. Più
avanti la sua maglietta e le sue scarpe. Lasciava che fossero le dita ad esplorare il
territorio oscuro davanti a lei, con pazienza e meticolosità. Quando seppe di essere in
prossimità della porta alzò la mano allaltezza della maniglia, trovandola al
primo colpo. Quindi si era risollevata in piedi e aveva tirato a sé luscio. Con
movimenti rapidi e precisi, era sgattaiolata nel corridoio, laveva attraversato,
usando sempre le dita come bussola, appoggiandole alla parete per verificare la propria
posizione nello spazio. Una volta arrivata al salotto si era lanciata verso la finestra,
laveva aperta ed era scesa sul prato, tenendosi bassa, acquattata sopra lerba
umida. Rimase bassa tutto il tempo che le serviva per coprire la distanza fra la propria
residenza e il lato est del campo militare.
A quellora laria era frizzante, avvertiva la pelle doca sollevarle
i peli delle braccia e delle spalle sotto il pigiama, mentre i piedi le si congelavano
piano, piano. Ma questa sensazione le piaceva, alla ricerca comera
costantemente della conferma che era viva, presente.
Aveva paura di scivolare via, dimenticata, abbandonata.
Una persona è ancora viva se tutte le persone che la amano si dimenticano di lei?
Si portò fino alla rete, stando ben attenta a non toccarla, si raggomitolò
sullerba in quel punto, dove si era sempre seduta, da un paio di settimane a questa
parte, quando i pensieri diventavano pesanti macigni sul cuore e la sua camera era
troppo piccola per contenere tutta la sua ansia.
Lorizzonte cominciava a farsi più nitido, da dietro lombra scura delle
colline si intravedeva lalone più chiaro dei primi raggi del sole.
I campi si estendevano tra la rete e il punto in cui Sam stava guardando la luce che ,
come attesa ospite ad una festa che si sta facendo noiosa, ritornava padrona del mondo.
Girò la testa verso lalbero, chiedendosi se Barbara le avesse lasciato un messaggio
prima di andarsene a letto la sera prima. Si alzò in un lamento mugugnato, quasi a
malincuore; ma la curiosità era troppa.
Si avvicinò al tronco, lo studiò con circospezione, quindi infilò una mano nella
cavità che doveva essere stata la tana di qualche scoiattolo.
Laria allinterno del tronco era fredda e densa, carica di umidità.
Provava un certo disagio ogni volta che doveva esplorarlo a tastoni.
Le ricordava latmosfera buia e cupa che si respirava dentro LOssario che si
vedeva in lontananza, dal lato nord del campo.
Qualche anno prima, quando ancora Jeff era il fratello che era, rompiscatole se vogliamo,
ma protettivo e presente, si ritrovavano spesso a fantasticare su ciò che poteva
contenere. Il padre di Barbara aveva raccontato che quella specie di torre e ciò che
conteneva era quello che rimaneva dopo che la guerra di Secessione era arrivata in
quellangolo del Paese.
Quello che ne rimane.
Sam e Jeff si erano guardati negli occhi: un guizzo di infantile pazzia era passato tra i
loro sguardi, unintesa che ora rimpiangeva. Il Colonnello Paley sapeva cosa
quei due avevano in mente.
- Non cacciatevi nei guai, ragazzi -, li aveva ammoniti. I due ragazzini lo avevano
guardato, lespressione nei loro volti era mutata ad una innocente e pacata
remissività, avevano annuito con i loro occhioni sgranati e le labbra serrate, ma si
erano subito voltati, tornando a guadarsi negli occhi. Il colonnello si era allontanato
scuotendo la testa, sapendo che il suo era solo fiato sprecato.
Durante il pomeriggio Sam e Jeff erano andati al parco giochi che si trovava in fondo alla
strada che conduceva al campo a nascondere le bici tra i cespugli, che sarebbero poi
venuti a riprendere quella notte.
Il piano era di sgattaiolare fuori dal campo passando dallentrata principale,
aspettando il momento che qualcuno entrasse: il punto era parecchio illuminato, ma se
erano svelti e silenziosi, avevano buone probabilità di farcela.
Era estate, non faceva freddo e si erano portati un po di scorte:
patatine, pop-corn e succhi di frutta.
Nascosti tra i cespugli vicino alla sbarra, Sam e Jeff potevano sentire i loro cuori
battere, i loro respiri concitati, leccitazione prendere possesso delle loro menti.
- Perché ci vuoi andare, Sam?-, le aveva chiesto il fratello con un filo di voce.
- Voglio vedere cosa succede ad un essere umano dopo che è morto -.
Laveva guardata: quella creaturina piccola e indifesa, che aveva piagnucolato fin da
quando era entrata nella sua vita, che doveva sempre difendere a scuola, che doveva
confortare dopo che si era svegliata, nel cuore della notte, in preda agli incubi, quella
ragazzina voleva vedere i morti. Non sapeva se fosse prudente chiederle il perché, dato
che apparentemente Sam non avrebbe dovuto provare alcun interesse per certe cose: non era
da donne!
Ma lo sapeva, Sam era diversa, era per quello che li era lì. Sam era come sua madre.
La stava ancora fissando e quando lei si era voltata per dargli il via, lo aveva colto con
il suo sguardo da pesce lesso su di sé e con la bocca spalancata.
- Non ci avrai mica ripensato, vero?-, lo apostrofò lei.
Jeff si risvegliò dallapatia momentanea e scosse la testa in un ampio e convincente
gesto di diniego.
- Andiamo -, disse il ragazzo, prendendola per una mano e attirandola fuori dal
nascondiglio.
Lo spazio tra lauto e i cespugli era minimo, ma con i loro corpi minuti non fu una
grande difficoltà superare la sbarra. Ora dovevano correre più in fretta che potevano
per raggiungere loscurità al di là dellalone del lampione che troneggiava
sopra il casello di controllo.
Non si fermarono una volta fuori dal raggio dazione della guardia, ma continuarono a
correre fino al parco, fino al nascondiglio.
Si tuffarono fra le foglie e cominciarono a rovistare: le biciclette erano ancora lì,
affondate dove le avevano lasciate poche ore prima.
Mentre si trascinavano fuori dal cespuglio, Jeff vide che qualche foglia si era impigliata
fra i capelli di Sam, quei capelli che, dopo che lei li aveva tagliati lanno prima,
erano diventati lisci, lisci, quasi come spaghetti.
Si passò le mani fra i suoi, accorgendosi che anche lui aveva la testa piena di foglie e
rametti secchi. Iniziò a spazzolarseli con foga. Sam notò quello che il fratello stava
facendo, e anche lei cominciò a spettinarsi i capelli per liberarli dalla vegetazione.
- Che dici, ne ho ancora? -, aveva detto quando aveva pensato di aver finito. Jeff le si
avvicinò levando una mano e affondò le dita nella sua folta chioma scura, sopra
lorecchio sinistro.
Prima ancora di accorgersene, quel gesto li aveva messi terribilmente a disagio: non era
così che, come nei film con Cary Grant e Grace Kelly, i due protagonisti si innamoravano?
Sapevano entrambi di non essere realmente fratello e sorella, anche se si comportavano
come se lo fossero.
D'altronde a Sam non rimaneva altro se non quel surrogato di famiglia, dato che di quello
che era stata non si ricordava niente e che, a parte Jeff e sua madre, non aveva nessun
altro.
Jeff aveva in mano un rametto striminzito, se lo era rigirato tra le dita per un paio di
secondi, quindi lo aveva lasciato cadere a terra.
- Grazie aveva sussurrato Sam e, guardandolo, si era accorta che anche lui non
aveva fatto un buon lavoro.
- Hai ancora delle foglie, Jeff -, aveva detto abbassando lo sguardo sulla propria
bici.
Jeff si era dato unaltra energica spazzolata e questa volta si era ripulito per
bene.
Si erano avviati in silenzio, lui davanti e Sam dietro, pedalando con forza e sentendo in
quel momento tutta lillegalità di quello che avevano fatto. Se qualcuno si fosse
accorto che erano spariti, li aspettavano giorni duri! Ma quello che era trapelato nei
loro sguardi quella mattina, quando il Colonnello aveva raccontato loro la storia
dellOssario, era un tacito accordo, una profonda consapevolezza e due erano le cose
che il loro sguardo aveva suggellato: avrebbero visto quello che cera là dentro e
la punizione non li spaventava.
Né le minacce, né i castighi e nemmeno le punizioni corporali li avevano mai fermati.
Quelle erano conseguenze, situazioni a cui non si sarebbero potuti sottrarre, molte volte
anche se non avevano fatto niente.
Non potevano semplicemente ignorare quellinformazione e stare a guardare quella
costruzione da lontano senza tentare di entrarci, di scoprire qualcosa che ancora non
sapevano, che nessuno sapeva, ma che andava scoperta e raccontata assolutamente.
Si sentivano quasi in dovere di farlo, come se il loro scopo nella vita fosse scoprire la
verità dietro ad ogni cosa, ogni apparenza. La loro vocazione di pionieri era il loro
lasciapassare per castighi la cui fantasia, negli anni, aveva cominciato a scarseggiare.
La loro tendenza ad infrangere le regole più elementari era il loro punto debole
o
forte. Ma in mezzo alle difficoltà, chissà come, il loro legame non si spezzava: erano
un team ben affiatato, Jeff e Sam, la premiata ditta Spender&Spender.
Arrivati allOssario si resero conto che non avevano la più pallida idea di come
fare per entrare. La porta era ovviamente chiusa, le finestre erano piccole e
inaccessibili feritoie, il muro invalicabile.
- Ebbene, Jeff, qualche idea? -.
- Perché lo chiedi a me? -, aveva sbottato lui, che fino a quel momento aveva sperato che
Sam non lo mettesse nella solita posizione di uomo della situazione: era così
terribilmente pesante e scomoda la scintillante corazza da Principe Azzurro!
- Perché io, sinceramente, non ne ho! -.
Grazie a Dio Sam conservava quel pizzico di orgoglio tutto femminile che recentemente si
era fatto largo fra le donne e che aveva sollevato gli uomini da obblighi assurdi quali
laprire la porta e farle passare per prime, oppure di aiutarle a sedersi scostando
loro la sedia.
Sam apparteneva a quella specie di donne che ancora rappresentavano una sparuta minoranza
e che volevano fare tutto da sole. Sam non avrebbe mai detto Sei tu
luomo, piuttosto si sarebbe messa a scalare quel muro inaccessibile
scorticandosi le dita! Ladorava per questo, poteva nasconderlo a lei e agli altri,
ma non a se stesso.
E non solo questo: adorava quel suo viso delicato, quei suoi occhi così espressivi e
quella cascata di capelli che avevano un profumo che non aveva mai sentito da
nessunaltra parte, e che poteva sentirsi addosso quando, la notte, si accoccolavano
luna accanto allaltro dopo essere rimasti alzati a guardare un film
dellorrore.
Avrebbe voluto non lavare più i maglioni o le camice per non farlo scivolare via!
Sapeva che nessunaltra ragazza sapeva di buono come Sam.
Preso nei suoi pensieri, gli ci volle un po per rendersi conto che la ragazza stava
armeggiando con la porta come un abile scassinatore.
- Il lucchetto è vecchio e arrugginito. Basterebbe un calcio per sfondarlo! D'altronde,
non penso che qualcuno venga qui di notte. E probabilmente nemmeno i tizi che custodiscono
lOssario la pensano così -.
Iniziò a sferrare forti e precisi calci al lucchetto che sotto il vibrare energico dei
suoi colpi tintinnava come spaventato.
Jeff si mise accanto a lei e, senza essersi messi daccordo prima, iniziarono a
colpire il catenaccio alternandosi.
Dopo un paio di colpi il lucchetto cadde a terra inanimato e inutile.
Jeff non poté trattenere un sorriso compiaciuto: il suo apporto di uomo era stato
determinante. Voleva che fosse chiaro che tra i due era lui il più forte, era lui che
proteggeva Sam, non certo il contrario. Era da lui che Sam doveva andare quando aveva
paura o aveva bisogno di conforto. Da nessun altro.
La ragazza entrò nella porta scura senza fare il minimo commento sulla sua palese
virilità e lui si sentì un po deluso. Anzi, molto.
- Ehi, Sam, ho buttato giù la porta a calci, lhai visto anche tu! -
- Bella forza, Jeff, dopo che io avevo fatto tutta la fatica! Sai quanti calci gli ho
mollato io e quanti tu? -
- Cosè? Li hai contati, Spender? -
- Certo, Spender! Io gliene ho dati nove e tu solo quattro! Per la legge dei grandi
numeri, vinco io! -.
Lespressione di Sam si fece beffarda e compiaciuta. Dio, che voglia che aveva di
metterla tacere con un bel cazzotto! Era lui luomo e lei la donzella in pericolo!
Ma poi pensò che le avrebbe lasciato un livido orribile sul viso, e quindi decise di
lasciar perdere. Cercò di pensare ad altro, si guardava intorno e fingeva di non aver
dato importanza a quello che lei aveva detto.
Presto avvertirono la presenza chiara e netta della morte incombere tra quelle mura. Aveva
il corpo pervaso dai brividi e una fifa blu si stava impadronendo di lui. Ma mai e poi mai
lo avrebbe dato a vedere.
Avvertiva i sospiri di paura di Sam accanto a sé, la sentiva strofinarsi le mani lungo le
braccia per riscaldarsi.
- Cè un freddo che non mi piace qui -
Dillo, Sam, fallo per me!
- Ho paura
-
Si!, esultò Jeff dentro di sé.
Sentì il corpo tremante di Sam schiacciarsi contro il suo, ne avvertiva le
vibrazioni di paura, addirittura lodore!
- Dobbiamo tirare fuori la torcia -, balbettò Jeff, mentre si chinava per rovistare nel
suo zaino.
Anche Sam si chinò, ignara del potere che aveva su di lui. Questa sua ingenuità non
faceva che renderlo ancora più nervoso. Ma capì che non cera niente di innaturale
in tutto questo: era loccasione che aveva sempre cercato per dimostrarle che era
forte e che non era più un bambino.
Ma adesso Jeff stava pensando che loscurità era preferibile al raccapricciante
spettacolo che si parava loro davanti: alle spesse mura di roccia e legno erano
state fissate delle travi come mensole, e queste mensole erano ricoperte, anzi, sommerse
da teschi umani. Si accavallavano, in bilico, pericolanti, ti aspettavi che da un momento
allaltro ne cadesse qualcuno, frantumandosi in mille schegge sul pavimento.
Sam si era di nuovo schiacciata contro di lui, cingendogli il braccio sinistro. Quel
contatto era lunica cosa che gli impediva di fuggire urlando fuori dalla porta
dietro di loro.
La torre era circolare. I teschi ricoprivano le pareti esterna ed interna. Girarono in
circolo, bene attenti a dove mettevano i piedi: la morte che respiravano lì dentro era
talmente vicina e presente che avevi paura di calpestarla.
Il muro interno si interruppe: la sua lunghezza serviva a coprire un semicerchio,
proteggendo il cuore del reliquiario dallaccesso diretto della porta. Anche da
quella parte, il muro era ricoperto di teschi, ma capirono che il pezzo forte
del macabro museo era ben altro di qualche testa bollita: al centro della torre stava una
bara di vetro, ingiallita e opacizzata dagli anni. Al suo interno, sopra un drappo di
velluto rosso rifinito in oro, si accavallavano ossa. Jeff poteva distinguere chiaramente
una mano, quello che rimaneva di un piede, i femori, le costole, le scapole, lo sterno, la
spina dorsale (ma, a quanto poteva vedere, ne mancava un considerevole tratto), il cranio.
Il tutto era stato ordinato e disposto in modo da ricomporre una figura umana, quasi a
riconsegnare la memoria di quello che doveva essere stato sicuramente un ufficiale di alto
grado.
Lì accanto erano visibili la divisa e le armi di quelleroe di guerra.
Unetichetta ingiallita dal tempo e ormai illeggibile spiegava chi era e il suo ruolo
determinante in qualche battaglia del passato.
Sam sussultava ora accanto a lui, ammutolita.
- Stai bene, Sam? -.
Samantha si limitò ad assentire con un impercettibile movimento del capo. I suoi occhi
scintillavano nelloscurità, resi enormi e ancora più chiari dalla paura.
Jeff tornò a contemplare le spoglie mortali dellufficiale, avvicinandosi
maggiormente alla bara.
Sam tentava di trattenerlo accanto a sé, timorosa di restare sola in quel luogo, ben
decisa a non fare un ulteriore passo avanti. Ma Jeff si divincolò dalla sua stretta e si
appoggiò al vetro.
- No, Jeff
-, sussurrò Sam, in un tremito.
- Non temere, Spender, sono qui, mi vedi, faccio solo qualche passo -, la rassicurò,
allungano una mano a sfiorarle la spalla.
E fu allora che la vide, la paura di Sam, la vera natura di tutto il suo terrore. Non
poteva spiegare lorigine della sua certezza, dove e come aveva imparato a decifrare
quel viso e quelle espressioni, ma leggeva nei suoi occhi e nelle pieghe del suo volto
deformato dallorrore che Sam provava una paura diversa dalla sua.
Lui era terrorizzato da ciò che vedeva, ma ne era anche affascinato: come ogni mistero
della vita, anche la morte esercitava sulle persone un certo potere. Ma Sam, no, Sam non
ne era affascinata affatto: guardava quel resti come un condannato a morte guarda la sedia
elettrica su cui dovrà essere giustiziato. Nei suoi occhi leggeva la cieca certezza che
quello era il suo destino, il destino di tutti. Capiva che Sam voleva andarsene.
Scosso da una nuova virilità, Jeff la prese per un polso, la trascinò verso la porta,
sentendola impotente e pesante sotto la stretta delle sue dita. La portò fuori, un metro,
due metri, tre metri. Si fermò quando era sicuro di non avvertire più il gelo che usciva
dalluscio ancora spalancato dellOssario.
E quando furono uno davanti allaltra, Sam si accasciò a terra come inanimata, un
fantoccio di stoffa molle a suoi piedi. Iniziò a singhiozzare.
Jeff si chinò accanto a lei, accarezzandole la testolina tremante, affondando di nuovo le
dita in quella nuvola di capelli scuri, dalla base fino alle punte, sentendone la
leggerezza, la freschezza.
Probabilmente vinta da quel gesto di conforto, Samantha si gettò tra le sua braccia,
appoggiandosi al suo petto di adolescente, con le mani strette davanti alla bocca, tutta
raggomitolata.
E lui non poteva fare altro che accogliere la sua angoscia, cingendola con le braccia,
sfiorandole la fronte con le labbra, sentendo il proprio cuore battere allimpazzata,
insieme al cuore di lei.
Con la mano affondata nelloscurità cava del tronco, Sam era ancora alla ricerca di
una lettera, una busta, anche solo di un bigliettino. Alle volte Barbara le lasciava una
foto di qualche cantante o di qualche scampagnata che aveva fatto con la sua famiglia.
La invidiava talmente, lei che aveva una famiglia così unita e affiatata! Al contrario,
Sam si ritrovava con un fratello che, da quando aveva iniziato ad avere quegli orribili
incubi, non era più stato quello di prima, la trattava con freddezza e distacco,
parlandole a monosillabi, senza nemmeno più giocare con lei; e poi cera sua madre,
che era sempre stata una presenza onirica, assente e distratta. Alle volte spariva per
giorni e non si capiva dove andasse, e nemmeno lei riusciva a dare spiegazioni del dove e
del perché fosse sparita tutto quel tempo.
Alle volte aveva davvero la sensazione che Jeff sapesse qualcosa e non glielo dicesse, non
per proteggerla o per non ferirla, ma come se non fossero affari suoi. Lescludeva di
proposito da tutto quello che lo riguardava, che riguardava la mamma, facendola sentire in
più, una presenza scomoda, una persona indesiderata.
E la sua solitudine aumentava.
Quando sentì di aver afferrato qualcosa che non poteva essere altro che una busta, si
guardò intorno con circospezione. Quindi la estrasse dallalbero, la nascose
velocemente nella manica del pigiama e andò a sedersi di nuovo vicino alla rete.
La busta non era incollata (lo facevano per prudenza: mai lasciare troppe tracce in giro).
Laprì e lesse.
Quello stronzo di Jeff ti tiene ancora il broncio? La prossima volta che lo incrocio
in corridoio a scuola gli faccio lo sgambetto!
Tu come stai? Ancora con quegli incubi?
In classe tutti mi chiedono di te, in particolare Bryan
cosa gli devo dire?
La signorina Hannigan ci dice che non possiamo ancora venirti a trovare. Ma coshai?
Sei contagiosa per caso? Ormai sono due settimane che sei a casa con linfluenza,
sarebbe anche ora che ti facessero uscire!
Qui tutto procede come al solito: quel testa di cavolo di Bedford mi ha di nuovo preso di
mira, questa volta per il compito dellaltra settimana. Proprio non riesce a credere
che io sia riuscita a fare così bene! Praticamente ogni volta mi chiama alla lavagna per
chiedermi la lezione del giorno prima. Che scatole!
E un mortorio senza di te.
Baci
B
Ripiegò la lettera e la ripose nella busta in un sospiro.
Linfluenza: sapeva ormai di non avere niente del genere, ma nemmeno lei sapeva
perché i colleghi di suo padre (come se non lo sapesse che erano loro che dicevano a sua
madre cosa fare!) la stavano costringendo in casa, da un po di tempo a questa parte.
Le loro visite ultimamente si erano fatte più frequenti, molto più frequenti di quelle
di suo padre; erano mesi che non lo vedeva. Non che gliene importasse, probabilmente
sarebbe stata unaltra persona che si comportava come se lei fosse stata un fantasma.
Ma a volte si ritrovava a sentire la mancanza di quelle sue sigarette puzzolenti!
Guardò allorizzonte: mancava poco: il sole stava per fare capolino fra le dolci
curve delle colline con il suo primo spicchio di infinito.
PRIMA PARTE PRIGIONIA
CAPITOLO 2: QUANDO UNA PERSONA SI RISVEGLIA E NON SA DOVÈ
Capiva che erano simili a lui perché anche loro vagavano assenti per la radura, senza
sapere cosa facevano in quel luogo, senza sapere come ci erano arrivati, senza sapere chi
erano e dove erano stati prima.
Erano circa una decina di persone; notò che alcuni stavano col naso rivolto
allinsù, scrutando le stelle.
Qualcuno doveva aver segnalato la loro presenza alle autorità del luogo, perché presto
arrivarono delle volanti. Il loro chiarore bluastro pulsava nel cielo, oltre la collina,
sopra la vegetazione.
Luomo sapeva che scene del genere non erano nuove per lui. Si sentiva il vociare dei
poliziotti tra gli alberi, i loro piedi che calpestavano fango e foglie, il lampeggiare
dei fari delle loro torce, nella rapida discesa del pendio.
Si sentì afferrare per un braccio.
- Andiamocene di qui! - , bisbigliò il ragazzo. Era impossibile capire se il suo viso gli
fosse familiare perché erano in quel luogo insieme o perché era parte di quel sogno che
era stata la sua vita prima di arrivare lì.
Aveva ragione. Non ricordavano chi erano, quindi quei poliziotti potevano essere lì per
aiutarli o per arrestarli e loro non potevano saperlo. E poi listinto di
fuggire fu il primo impulso che si risvegliò nelle sue vene.
Dalla parte opposta della radura, nel buio della notte, si poteva vedere altro bosco.
Non avevano torce con loro.
Ritornò a guardare verso le luci che volteggiavano dallaltra parte, verso la
strada, sempre più pericolosamente vicine.
- Muoviamoci! -, disse infine, con gran sollievo del ragazzo che ancora lo fissava ansioso
in volto.
I raggi della luna filtravano tra i rami degli alberi, illuminando anche se fiocamente il
cammino. Correva buttando le mani avanti, per proteggersi il viso da rami e cespugli,
sentendo lumidità penetrargli nelle ossa. Aveva la sensazione che presto si
sarebbero spezzate, gelate dalla notte, e sarebbe rovinato a terra come un burattino
rotto, il cui legno era marcito perché era rimasto abbandonato e inutilizzato in un
armadio o in una scatola.
Era sempre stato in quella radura? Quando esattamente si era accorto di trovarsi lì?
Aveva la sensazione di risvegliarsi da un torpore eterno, come se facesse tutto parte di
un piano segreto e qualcosa fosse andato storto. Lui non doveva essere lì, lui non doveva
essere sveglio.
Se lo era.
Dietro di lui sentiva le voci e gli ansimi degli agenti che faticavano a stargli dietro.
Almeno questo lo sapeva: le sue gambe erano ancora veloci, nonostante gli sembrasse di non
averle usate per tanto tempo.
Tutto questo non serviva a niente: non potevano continuare a fuggire in quella direzione,
non sapevano cosa li aspettava da quella parte. Probabilmente i poliziotti avevano
avvertito via radio altre unità che li attendevano poco più avanti, come pescatori con
una rete tra le mani.
Ricordava di aver fatto una cosa, anni prima, in un posto lontano da quello; poteva farlo
ancora.
Sentiva il faro di luce su di sé, aspettava di essere protetto nelloscurità per
poter agire. Cercò per quanto gli fu possibile di accelerare la fuga, scartando sulla
destra, dove sentiva che il numero degli agenti era più esiguo. Non osava guardarsi
indietro, non voleva che lo vedessero in faccia, anche se probabilmente già sapevano chi
era. Beh, beati loro!
Dun tratto gli sembrò di volare, ma sapeva che si trattava solo di
unimpressione, di uno scherzo della sua immaginazione, percezione alterata della
realtà che ci circonda. O forse no? Si sentì veramente mancare la terra sotto i
piedi, le suole di gomma scivolavano sul tappeto di foglie secche e rami umidi che
ricoprivano il suolo. Il terreno era in pendenza, abbastanza da farlo incespicare e
ruzzolare, impedendogli di trovare un appiglio a cui aggrapparsi in caso la situazione si
facesse più precipitosa.
Inaspettatamente quellimprevisto aveva reso la sua fuga ancora più incerta, ma se
era incerta per lui, lo era anche per gli uomini dietro di lui. Capiva che dovevano essere
più anziani, lo avvertiva nelle loro voci e nelle loro imprecazioni. Sentiva il rumore
dei tonfi che facevano i corpi mentre piombavano a terra, il rumore della vegetazione che
si spezzava sotto il loro peso.
Gettava le braccia a destra e sinistra, alla ricerca affannata di un ramo che sporgesse,
abbastanza solido e forte da trattenerlo. La corsa terminò rovinosamente fuori dalla
vegetazione, su un terreno diverso. Ciottoli tondi e bianchi spiccavano
nelloscurità come se fossero stati fosforescenti. Si rialzò. Dietro di lui non si
sentivano più rumori, né voci. Davanti a lui gorgogliava un torrentello misero. Ed era
lunico suono che avvertiva. Aveva allungato le orecchie verso la vegetazione in
alto, al di sopra della cima scoscesa che aveva appena percorso, ma non sentiva nemmeno la
corsa concitata degli altri.
Ma lì era allo scoperto. Al di là del torrente ricominciava la macchia scura della
foresta. Attraversò senza troppe difficoltà la piccola distesa dacqua e riparò
nel folto della vegetazione, ancora una volta.
Si acquattò fra le foglie, fino a sdraiarsi supino. Si ricoprì meticolosamente il corpo.
Lodore delle piante morte con cui si era costruito il nascondiglio gli penetrava le
narici fino a dargli la nausea; sentiva il fango scivolargli sotto i vestiti, appiccicarsi
alla pelle.
Un movimento giunse a bloccargli il respiro. Rimase in ascolto ansioso. Luomo
camminava non molto lontano da lui, dove il terreno era asciutto. Vide il raggio di luce
attraverso il giaciglio in cui si era affondato.
Lagente proseguì sulla sua strada.
Ma lui non uscì allo scoperto per un bel pezzo.
Sentì il calore del sole mattutino scaldargli il viso. Istintivamente si portò un mano
verso la guancia, come per sentire a che punto fosse la barba. Ma, invece della folta
peluria che ricordava, si ritrovò fra le mani una foglia secca. Capì allora dove si
trovava.
Iniziò a ripulirsi il viso con entrambe la mani, mentre si trascinava a sedere. Il fango
gli si era coagulato addosso, ne avvertiva il peso fastidioso sulle mani, sul viso, su
tutto il corpo.
Sapeva che quello non era il primo mattino che vedeva, ma non ne ricordava nemmeno uno.
Brevi bagliori della sua vita passata gli erano passati davanti agli occhi durante il
tormentato riposo notturno, come diapositive piazzate alla rinfusa nel caricatore di un
proiettore. Immagini note gli erano state sparate nel cervello da quella parte della sua
memoria che non si voleva risvegliare.
Si ricordò del torrente alle sue spalle. Si alzò stendendo gli arti intorpiditi,
massaggiandosi le membra stanche. La schiena dolorante per la posizione scomoda di quella
notte.
Il fiumiciattolo era basso e limpido. Lacqua gelida gli risvegliò le dita della
mani, inondandogli il corpo con la sua freschezza. La tentazione di rotolarvisi dentro era
forte, ma la temperatura di quella zona gli fece capire che, se lo avesse fatto, sarebbe
morto di polmonite prima di sapere chi fosse e da dove venisse. Si limitò a sciacquarsi
il viso, grattando via il fango e la polvere che gli bruciavano gli occhi.
Lasciò che fosse laria ad asciugarlo.
Quanto era distante dal primo luogo abitato? La posizione era svantaggiosa; da
dovera non capiva cosa ci fosse al di là del bosco. Pensò di risalire,
ripercorrendo la strada che aveva fatto la sera prima, fuggendo.
Ma, probabilmente, là cerano i poliziotti ad attenderlo.
Decise di continuare, proseguendo tra gli alberi, portandosi nella civiltà solo quando si
fosse sentito al sicuro.
Ora si sentiva affamato. Si era già sentito così affamato in passato. Si chiese quando
era stata lultima volta che aveva mangiato. I suoi ricordi arrivavano fino alla sera
prima, mentre vagava nella radura dopo che
ce lo avevano portato? Ci era arrivato da
solo? Ci era nato?!?!?
Per la propria sanità mentale decise che non ci avrebbe più pensato; cercare di
ricordare gli avvenimenti precedenti a quella notte era come tentare di pedalare su una
bicicletta senza catena.
Ed era proprio il quadro della situazione, listantanea della sua vita in quel
momento: camminare per andare da nessuna parte.
Si chiedeva con quale ironia, nei film che ricordava di aver visto, ma dei quali non
ricordava il titolo, chiunque avesse unamnesia si risvegliava sempre in un ospedale,
acciaccato e pallido, ma circondato da persone che lo conoscevano e che erano ansiose di
restituirgli la sua vita.
Era un neonato adulto. Notò con sarcasmo che non sapeva nemmeno quanti anni avesse. Non
sapeva neanche che aspetto avesse, unico indizio quella barba che sentiva pesargli sul
viso.
Voleva canticchiare, ma non conosceva una sola canzone. Cercò allora di immaginare quale
genere di shock avesse subito per dimenticare completamente la sua vita: un terremoto, un
incidente, un esplosione, un rito satanico!
Ma, e questo lo riempiva di angoscia, si chiedeva come avrebbe potuto riacquistare la
memoria.
Proseguendo lungo il torrente, si imbatté presto in una baita. Si era accucciato dietro
alcuni cespugli e la studiava da lontano. Poteva aver camminato per ore fino ad allora. Il
sole aveva disegnato un bellarco nel suo cammino in cielo e quindi poteva essere
distante miglia e miglia dal luogo in cui erano stati inseguiti. Usava ancora il plurale
nonostante, ormai, fosse rimasto solo. Capiva anche una cosa da quel plurale, più che
capirla, la sapeva: lui e quelle persone avevano intrecciato i loro destini per più di
qualche minuto di passeggiata notturna fra i boschi.
Rimase nascosto per un po, assicurandosi se fosse abitata e, in caso, da chi.
Ma non vide nessuno entrare o uscire, non un movimento era percepibile dalle finestre. Il
camino era spento. Acquattandosi quanto poteva, si avvicinò, spostando lo sguardo teso
dalle finestre alla porta, pronto a scattare se avesse percepito anche il minimo movimento
ostile. Lorecchio era proteso nellascolto di qualsiasi rumore civilizzato: un
motore, una voce. Ma la prudenza si rivelò superflua: guardando dentro labitazione,
luomo capì che era vuota. Ma non disabitata. Vide un orologio ancora funzionante
appeso alla parete sopra il camino: erano le undici e mezza. Della legna tagliata da poche
settimane giaceva nello scanso sotto il focolare. Tutto era in ordine e pulito.
Non cerano pentole sulla stufa, non cerano piatti sul tavolo. Chi viveva lì
si era allontanato da poco, e probabilmente stava per tornare.
Fece il giro della casa e si portò davanti alla porta. Si diede unultima occhiata
intorno, quindi fece forza sulla maniglia, che, contro ogni previsione, si abbassò
docilmente sotto la pressione della sua mano.
Entrò furtivo.
Doveva essere il casotto di un cacciatore: lo si poteva dedurre dai fucili e dalle teste
dalce appesi alle pareti.
Sentendosi braccato come selvaggina in quel momento, immaginò di vedere anche la sua di
testa fra quelle.
Proseguì verso la cucina.
Decise che avrebbe preso tutto quello che avrebbe potuto, cibo, da bere, qualsiasi cosa
gli fosse sembrata utile, e sarebbe fuggito di nuovo.
Aprì in rapida successione tutti gli scansi della credenza, ma trovava solo barattoli di
fagioli, piselli e altri legumi. Prese un barattolo di piselli e se lo infilò nella
tasca della giacca.
Trovò del pane vecchio rovistando in un armadietto. Quindi dei succhi di frutta.
Possibile? Probabilmente cerano anche dei bambini da quelle parti.
Infilò tutto in una vecchia, ma robusta borsa di cuoio trovata appesa in fianco al
camino. Se la mise a tracolla.
Mentre rovistava tra i cassetti di un vecchio comò si accorse di trovarsi di fronte ad
uno sconosciuto. Vide la sua pelle pallida, la sua folta barba scura, i capelli, di poco
più chiari della barba, sporchi di terra. Vide il fango rappreso intorno alle orecchie e
al collo. E, infine, vide i suoi occhi. E rimase pietrificato. Era davanti ad uno
specchio. Non si può descrivere la sensazione di guardarsi negli occhi e rendersi conto
che non si riconosce nulla di sé, che non cè niente di familiare in
quellimmagine. Iniziò ad accarezzarsi il viso, passandosi le dita sulla fronte,
sulle sopracciglia, sul naso, sugli zigomi. Cercava qualcosa che gli facesse dire
Si, sono io. Ma non serviva a niente. Era estraneo a sé stesso. Si arrese e
si allontanò, proseguendo la sua ricerca.
Trovò una torcia elettrica e, nello stesso scanso, le rispettive batterie. Amò la
meticolosità del padrone di casa.
Aveva bisogno di soldi. Non gli andava proprio a genio lidea di derubare qualcuno,
ma tra linfrangere la legge e lasciarci la pelle, beh, la scelta non era poi così
difficile. Poteva vedersela con le implicazioni morali più tardi. Aveva la quasi totale
certezza, inoltre, di aver già infranto la legge in passato. Questa consapevolezza lo
fece rabbrividire. Anche se, probabilmente, i brividi erano stati causati
dallimprovvisa brezza che si era alzata.
Si fermò: era al piano superiore, stava rovistando in una credenza, tra magliette e
biancheria maschile. Sentì uno scatto al piano inferiore: lo scatto della porta
dentrata che si chiudeva. Si guardò intorno, mentre i suoi occhi annegavano nel
panico. Sentì i passi di qualcuno andare dal salotto alla cucina. Poggiava qualcosa sul
tavolo, quindi apriva uno scanso cigolante (quello dei fagioli, pensò). Lo sentì
armeggiare con pentole e mestoli. Guardò il piccolo orologio da tavolo che stava di
fronte a lui, sulla credenza: era quasi mezzogiorno.
Se avesse mosso un solo muscolo le assi del pavimento avrebbero scricchiolato e chiunque
fosse stato di sotto avrebbe preso uno dei fucili disposti con ordine sopra il camino e
avrebbe debellato lintruso. La stessa cosa sarebbe successa se quella persona fosse
salita e lo avesse trovato con le mani affondate nei suoi cassetti.
Ma non avrebbe avuto il fucile.
Cercò di concentrarsi sul rumore dei passi, per capire se si trattasse di un uomo o di
una donna. Ma non si muoveva più, semplicemente preparava il pranzo.
Diede unaltra occhiata alla stanza: in camera da letto cè sempre una foto del
padrone di casa. Sul comodino di fianco al letto vicino alla finestra stava in effetti una
foto: una coppia, probabilmente marito e moglie, una foto vecchissima.
Il rumore di un pick-up attirò i suoi occhi allesterno. A bordo un uomo sui
sessanta, settantanni, vestito come un meccanico o un fabbro.
La moglie, di sotto cè la moglie. E adesso?
Sentì luomo entrare.
- Elsa, sei in camera da letto? -.
- No, sono in cucina! -, urlò la donna, in risposta.
Lo sentì borbottare qualcosa. Che lo avesse visto?
Ora il loro dialogo era diventato incomprensibile, il tono di voce si era abbassato.
Probabilmente si scambiavano impressioni e pensieri sulla mattinata. Udì lo schiocco di
un bacio, un rumore soffocato, come quello di un tappeto percosso.
- Piantala Henry, non fare il ragazzino! -.
Luomo sorrise sommessamente: immaginò Henry importunare la moglie che si affannava
davanti alle pentole, mentre gli dava una sonora pacca sul sedere. Si odiava in quel
momento: era entrato nella loro casa, li stava derubando, e loro ignari si facevano le
fusa come due innamorati! Sperò di cavarsela, non solo per sé, ma anche per loro: non
voleva turbare quel perfetto quadretto.
Era impaziente. Non poteva rimanere in quella posizione in eterno. Era probabile che Henry
sarebbe venuto di sopra prima di pranzo. E così facendo lo avrebbe visto e tutto sarebbe
precipitato.
Iniziò a immaginare mirabolanti acrobazie e contorsioni del suo corpo nello sforzo di
allungarsi fino allarmadio dietro di sé.
Diventava tutto così difficile quando si cercava di salvare capra e cavoli!
Limmagine di un ponte gli attraversò il cervello come una scarica elettrica. Un
ponte e due donne. Presenze costanti, vicine. Una mano. Unaltra mano.
Sincontrano. Quel tocco che da sollievo.
Aveva chiuso gli occhi, sforzandosi di rievocare quel contatto, tralasciando quel tappeto
di angoscia che quel ricordo portava con sé.
- Elsa, portami il fucile! -.
La situazione precipitava velocemente.
- Guardalo bene, Henry. E spaventato a morte! -.
Gli occhi delluomo erano due lepri braccate dai cani che corrono a destra e
sinistra, cercando una via di fuga che non cera.
Henry era in piedi davanti a lui, Elsa seduta sulla sedia al suo fianco.
Lo aveva legato e aveva rimesso al loro posto tutte le cose che si trovavano nella
bisaccia, compresa la bisaccia.
Non parlava: sapeva che se lo avesse fatto senza che fosse stato Henry a chiederglielo,
sulla sua lapide ci sarebbe stato scritto Sconosciuto.
- Per lennesima volta: chi sei?! - , chiese il cacciatore.
Tralasciando le volanti della polizia, linseguimento e la fuga
- Non lo so. La prima cosa che ricordo è di essermi risvegliato in una radura a qualche
miglio da qui laltra notte e poi mi sono incamminato attraverso il bosco. Ho
visto
-
Henry sospirò con disappunto: gli ricordò un professore deluso di fronte ad uno studente
svogliato. E forse anche qualcun altro. Delusione suscitata da lui in altre persone.
Tacque.
- E un maniaco, Elsa, ecco che cosè! Lho pescato con le mani immerse
nella biancheria intima e unespressione estatica sul volto. Non ho dubbi! -.
Ammise tra sé e sé che la situazione non era certo delle più favorevoli e non dava
torto ad Henry per la sua prudenza.
Ciò che non rendeva la situazione disperata era il fatto che non avessero ancora chiamato
lo sceriffo di zona.
E poi si rese conto anche di unaltra cosa: non sapevano chi era, non lo avevano
riconosciuto. Probabilmente era solo una flebile speranza la sua, ma almeno questo lo
rincuorava, lo rassicurava: non era un criminale e non era ricercato. Se così fosse
stato, la sua foto segnaletica sarebbe stata distribuita a tutte le abitazioni circostanti
il luogo in cui per poco non lo avevano arrestato. Per quanto avesse camminato quella
mattina, non poteva essersi allontanato così tanto.
- Oh, avanti Henry, smettila. Questo ragazzo è solo e spaventato. Guarda
comè ridotto: ha bisogno di un bel bagno e di mangiare! -.
- È un evaso. Se gli diamo una mano diventiamo suoi complici!!! -, si oppose il marito,
ormai impotente.
Elsa slegò luomo, lo fece alzare e lo accompagnò verso le scale.
- Per la miseria, Elsa, non mi stai nemmeno ad ascoltare! Tu e la tua mania di raccattare
ogni patetica forma di vita ti capiti davanti alla porta! -.
La donna si rivolse al giovane: - È un uomo buono, ma è talmente sospettoso! Non si fida
di nessuno -.
- Lo capisco! -
- Anche lei non si fida di nessuno? -
- Non mi fiderei di uno sconosciuto che pescassi nella mia camera da letto! -
Lo accompagnò fin sulla porta della camera.
- Qui al secondo piano non abbiamo acqua corrente. Cè una vasca dentro. Io vado a
prendere dellacqua e la scaldo -
- Signora Elsa, io
-
- Parleremo più tardi. Arrivo subito. Debole comè non avrà certo la forza
di scappare! -
Dopo il bagno ristoratore, e dopo essersi fatto la barba, si sentiva rinascere.
Lironia del suo pensiero lo trafisse; ma ormai era formulato.
Devo smetterla di sprecare così le mie sette vite, potrei averne bisogno in un
momento realmente cruciale! -
- Cosa ha detto? -
- Niente. Borbottavo tra me e me -
Elsa gli aveva dato dei vecchi abiti del marito. Facevano un po cowboy delle
montagne, ma erano puliti e comodi.
Davanti ad un piatto di minestra, venne invogliato ad iniziare il racconto della sua
storia, e come mai era finito nella loro casa. Henry era sulla porta della cucina, il
fucile sempre in braccio. Lo guardava con unespressione mista fra il sospettoso e il
rassegnato. Lo guardò cercando di dimostrarsi il più grato e accondiscendente possibile.
- Allora, cosa le è successo? -.
- Non ricordo niente, a parte il risveglio nella radura e il bosco. Ho camminato
fino a quando non sono arrivato qui -.
- E probabile che abbia subito uno shock, che ne so, una violenta botta in testa o
Può darsi che sia stato rapito! -.
- E da chi?!?!? -, commentò Henry dal fondo della stanza.
- Lipotesi è azzardata, ma non da scartare. Non ricordando assolutamente niente
della mia vita passata, potrei essere chiunque!
-
Rivolse gli occhi ad Henry, che si limitò a bofonchiare cinico.
Locchiataccia che la moglie gli diede, però, spense ogni ombra di sarcasmo dal suo
viso.
- Proprio niente? -, sembrò supplicarlo la donna.
- Ogni tanto ho ricordi, frammenti più che altro, sensazioni, come in sogno. Ma non
riesco a connetterli fra loro, non riesco nemmeno a decifrarli la maggior parte delle
volte! -.
Si sentiva terribilmente impotente.
Elsa lo guardò con rammarico. Qualcosa in quegli occhi gli fecero capire che si, credeva
alla sua storia, ma come chiunque trovandosi in una situazione del genere, non sapendo che
tipo duomo stesse ospitando in casa propria, pensava soprattutto alla propria
incolumità e a quella dei suoi cari.
- Finisca di mangiare. Possiamo darle una mano, ma capirà anche lei che non sappiamo chi
è e cosa lha ridotta in questo stato -.
Annuì silenzioso, comprendendo che la tregua stava per finire.
La seconda notte è sempre la più difficile, soprattutto se sei legato ad una sedia come
un salame. Alla fine Henry laveva spuntata e lui era tornato nella parte del
prigioniero. Ma non avevano ancora chiamato lo sceriffo. Probabilmente credevano alla sua
storia.
Voleva scoprire chi era senza che gli venisse urlato in faccia da un agente di provincia
che non vedeva lora di sbatterlo dentro con chissà quale pretesto. Beh, per
esempio, per violazione di domicilio.
Era da più di unora che rifletteva su questa e molte altre cose simili, mentre si
guardava intorno. Lo avevano messo nel locale dietro la cucina, una specie di piccolo
magazzino dove tenevano altra legna tagliata, scorte di viveri. Non cerano finestre,
non ci sarebbero state. Il piccolo stanzino si trovava nascosto dietro la finta parete di
un armadietto a muro, lo stesso in cui aveva trovato la torcia elettrica. Henry aveva
chiuso quellarmadietto a chiave.
Aveva limpressione che tutte queste precauzioni fossero servite non tanto per
impedirgli di fuggire, quanto, piuttosto, per proteggerlo, nel caso lo sceriffo fosse
passato per una visita inaspettata.
Aveva le braccia legate allo schienale; le caviglie erano strettamente allacciate alle
gambe della sedia. Intuiva che quella era la sistemazione notturna, un modo per tenerlo
sotto controllo quando nessuno di loro due era presente. Non si sentiva prigioniero, tutto
sommato. Sapeva che essere prigioniero era ben diverso da quella situazione. È lo stato
danimo che ti suscita dentro, non quello che si vede da fuori.
Prigioniero delle regole, prigioniero della gerarchia, sottomesso a persone più in alto
che manovrano in silenzio, armeggiando alle tue spalle. Tu li senti, ma non puoi voltarti,
non puoi vederli in faccia.
La sensazione di impotenza di fronte a questa certezza era come unancora che
impediva al suo cuore di risalire in superficie, e respirare.
Era tutto così confuso nella sua mente, nel suo animo!
Aveva lasciato qualcosa in sospeso, qualcosa a metà. Qualcosa di importante lo aspettava
là, indietro, dove il suo cervello si rifiutava di arrivare, spinto lontano da invisibili
mani scure. Guantate.
Cercava di rievocare limmagine che, qualche ora prima, era riuscito a catturare
nella camera da letto di Henry ed Elsa. Quel senso di sollievo al tocco di quella mano.
Protese in avanti la mente per affondare in quella sensazione, calda e confortevole come
un piumone in inverno. Si lasciò scivolare e avvolgere, desiderando che gli venisse
sonno.
Lo schianto fu talmente violento che qualche ceppo disposto ordinatamente sulle mensole
cadde a terra e rotolò verso di lui.
Il giovane si svegliò improvvisamente, in un sussulto.
- Ma chi siete? Cosa volete da me e mia moglie? -.
Avvertì chiaramente il panico nella voce di Henry.
- Per lamor del cielo, lasciate in pace mio marito! -.
- Ci siete solo voi qui? -.
La voce gli era totalmente sconosciuta.
- Siamo vecchi. I nostri figli non vivono più con noi
-
- Ospiti? -.
Quella voce cercava lui.
Ci fu silenzio. Sentì una goccia di sudore scendergli sulla tempia.
Passi che si allontanavano, andavano al piano superiore. Non ci sarebbe voluto molto prima
che entrassero a perlustrare anche quella stanza, sebbene fosse nascosta. Lo sapeva,
perché se lo aveva sentito lui, lo avevano sentito anche loro: il rumore che avevano
fatto i ceppi cadendo.
Sedie che si scostano e scricchiolano: qualcuno si era seduto.
Nessuno parlava.
Potendo solo ascoltare per capire ciò che accadeva, luomo si sentiva invadere
dallimpazienza. Certo, non avrebbe fatto niente per accelerare le cose.
I passi che erano saliti al piano superiore erano tornati in cucina.
- Non abbiamo trovato nessuno -.
Voce giovane e inesperta.
- È plausibile che dicano la verità -.
Voce calma e razionale.
Breve attimo di silenzio.
- Non avete notato movimenti sospetti? -.
Avvertiva nella voce dello sconosciuto una certa soddisfazione, come se non avesse bisogno
di sapere altro.
Fu Henry a rispondere.
- No, nessuno -.
I conti non tornavano: come potevano aver già finito? Nella sua esperienza (era sicuro di
averne per quelle cose) sapeva di aver conosciuto persone che agivano così senza
convincersi tanto facilmente. Persone che non si fidavano di nessuno, e di cui era meglio
non fidarsi. Persone che lasciavano terra bruciata ovunque passassero.
Bruciata.
Fu tentato di fare un gran baccano per farsi notare da quegli uomini, ma capì che,
trovato o meno qualcosa, avrebbero dato fuoco alla casa comunque.
- Probabilmente è fuggito -, fece la voce calma e razionale.
- O sono fuggiti -, precisò il capo.
No, non erano gli uomini che lo avevano inseguito nei boschi la notte precedente: quegli
erano uomini di campagna, più anziani di quello che stavano ora interrogando Elsa ed
Henry.
Sentì il rumore sordo di un paio di colpi, quindi quello di qualcosa di molto pesante che
piomba a terra. Qualcosaltro cadde invece sul tavolo. Intuì senza troppi sforzi che
avevano dato una botta in testa ai padroni di casa.
Sentì armeggiare dietro al camino. Stanno cercando la latta della benzina, pensò.
Sentiva che la spargevano sui corpi, sul pavimento, fino al salotto. I passi andavano
sulle scale e nelle stanze di sopra. Un tonfo confermò che il lavoro era finito e il
barattolo vuoto era stato abbandonato.
Sentì il frigolare della fiamma sopra la sua testa.
Gli uomini corsero fuori.
Le ruote sgommarono sul selciato e lauto si allontanò.
Istantaneamente laria divenne irrespirabile.
PRIMA PARTE PRIGIONIA
CAPITOLO 3 - Esplorazioni sul nascere di un progetto di fuga
C'erano parecchie cose che Samantha sapeva di quelle tre. La prima era che erano sorelle,
era evidente, persino un cieco se ne sarebbe accorto: il modo atroce in cui vestivano, la
scomposta maldestrezza dei loro movimenti, gli stessi lineamenti sgraziati.
La seconda, che i loro quozienti di intelligenza, approssimativamente vicini, erano molto
bassi, rasentando il ridicolo.
La terza, che solo loro potevano ridere in quel modo atroce, sembrava il verso che emette
una gallina quando le viene tirato il collo.
Non avevano nemmeno la decenza di soffocare i loro rantoli disgustosi, schiamazzavano
sonoramente come tutte le ragazzine un po' troppo esibizioniste, che poi si guardano
intorno per vedere se qualcuno si è voltato dalla loro parte.
Fino a poco tempo prima, lei e Jeff passavano parte dei pomeriggi raccontando loro storie
fantasiose su mostri e assassini di ogni tipo, divertendosi a spaventarle a morte, e
ridendo poi, ore dopo, nella loro stanza, richiamando alla memoria le loro facce, le loro
esclamazioni. Il più delle volte finivano col correre dalla loro mamma urlando e
piagnucolando. La donna sbuffava alzando gli occhi al cielo, avvezza a quelle scene,
probabilmente chiedendosi come poteva aver generato delle figlie tanto diverse da lei.
Era successo un paio di volte che il padre, nero di rabbia in volto, ma Sam vi aveva
scorto anche dell'imbarazzo in più di una occasione, bussasse alla loro porta,
minacciando di chiarire la questione con gli ufficiali se i ragazzi Spender non avessero
smesso di "torturare e perseguitare le sue bambine!".
Il signor Spender, sempre calmo e impassibile, rispondeva soffiando fumo dalle labbra
socchiuse, strizzando gli occhi e tenendo la sigaretta come se volesse gettargliela in
faccia, tra medio e pollice. In genere borbottava un poco soddisfacente "Non si
preoccupi, non le daranno più fastidio", e quindi se ne ritornava ad affondare sulla
poltrona davanti al televisore, chiudendosi la porta alle spalle.
Da qualche settimana, però, quelle megere avevano potuto tirare il fiato. Sam buttò lo
sguardo sul selciato, alla ricerca di una bella pietra bianca e tonda da lanciare loro
contro, qualsiasi cosa pur di farle smettere di ridere.
Non le vedeva da sotto la veranda dove era seduta, ma capiva che si trovavano fuori dal
campo. Di giorno la sorveglianza non era così stretta come di notte. Di giorno vedono
dove sei e cosa stai facendo.
"
A volte mi dico che Jeff non mi parla più a causa dei miei incubi notturni,
a causa di quello che dico mentre parlo nel sonno
"
- Sam, sei sulla veranda? -
- Si, mamma! -
"
Chissà, magari parlo male di lui!
"
Sorrise. Si rigirò la penna tra le dita un paio di volte, lasciando che le labbra le si
rilassassero piano, piano.
- Scrive alla sua amichetta del cuore! -
Sam alzò lo sguardo. Le tre sorelle erano davanti al vialetto di casa sua, e la
guardavano con aria beffarda. Il sorriso le si accentuò: solo dei microcefali come loro
potevano trovare un espediente tanto debole per deriderla. Almeno, si disse, io un'amica
ce l'ho: voi, in quanto sorelle, siete obbligate a sopportarvi a vicenda.
Dolorosamente i pensieri andarono a Jeff, che chissà dove e quando era sparito quel
pomeriggio, subito dopo pranzo. Aveva anche pensato fosse per la vergogna di mostrare a
lei e a sua madre quel livido che aveva sotto lo zigomo, se non altro per risparmiarsi il
dovere di raccontare come se lo era procurato. Sapeva da fonte sicura che era stata
Barbara, che aveva messo in pratica i suoi propositi.
- Dov'è tuo fratello? -, chiese la più grande delle tre, Agatha, sua compagna di classe.
- Non so dove sia. Aveva una faccenda urgente -, rispose Sam, riabbassando lo sguardo sul
suo blocco.
Non sopportava dover spiegare a loro dove fosse Jeff e perché non fosse lì con lei. Non
poteva reggere all'umiliazione di essere interrogata su quell'argomento proprio da loro. E
sperò ardentemente che non le facessero altre domande.
- Non siete insieme? I fratelli indivisibili? Non ci posso credere!!! -.
Ecco, lo aveva fatto. Ora era autorizzata dalla legge dell'onore a fiondarsi su di lei e
strapparle quei ridicoli capelli dalla testa.
- Meno indivisibili di voi, a quanto vedo
-, si limitò invece a rispondere, senza
alzare gli occhi dalla lettera.
- Si, hai proprio ragione. Noi ci vogliamo un mondo di bene! -.
Brave! Imparate l'ipocrisia da piccole. Di tutte le cose buone che si possono imparare
dagli adulti per crescere, proprio questa lezione vi è già entrata in quelle teste!?!
Come se lei e Jeff non si volessero bene!
Eppure
Ah, molte volte aveva detto e pensato cose orribili sul suo conto, in preda
ad una rabbia e ad un risentimento tali che le pareva fosse impossibile provare sentimenti
tanto laceranti per la stessa persona.
Data l'ora sperava che sua madre arrivasse con il tè caldo e i biscotti.
E puntuale sua madre arrivò a salvarla.
- Ecco qua, Samantha, penso tu abbia un certo appetito -.
Cassandra non si accorse subito delle tre ragazzine. Si sedette sulla panca in fianco alla
figlia e fece finta di sbirciare nel suo blocco.
- A chi scrivi? A qualche spasimante che brucia per te? -
Samantha guardò beffarda le tre sorelle, sapendo che a loro non arrivavano mai lettere di
spasimanti infiammati dalla passione.
- Mamma, sto scrivendo a Barbara! -
Piccolo momento di rivalsa, condita con estasi. In un certo senso non odiava quelle tre
mocciose: accanto a loro si sentiva sempre più fortunata, riusciva a catturare quei brevi
attimi di felicità che, ultimamente, si facevano sempre più rari.
Cassandra, vedendo dove Sam stava guardando, si accorse delle tre. Sembrò per un attimo
disorientata, ma si ricompose subito. Sapeva che a Sam non piacevano affatto quelle
ragazze. Non le invitò quindi sotto la veranda a fare merenda con loro, ma, con tono
deciso da medico, disse:
- Scusate, ragazze, ma Sam non sta bene e ha bisogno di riposare. Quindi, per favore,
venite a trovarla domani, quando starà meglio -.
Le sorelle sorrisero imbarazzate, inciampando nei loro piedi mentre si allontanavano
spedite.
- Sei sveglia? -.
La voce di Jeff dietro di lei risuonava metallica, attutita dalla musica che usciva dagli
auricolari. Il volume era abbassato quel tanto che bastava per sentirlo entrare, quando
sarebbe entrato.
Avvertiva quella domanda come una semplice e fredda domanda di cortesia. Jeff si stava
accertando che Sam dormisse per non essere costretto ad ignorarla. Dio, come faceva male!
- Sì -.
- Che fai al buio? -.
Sam si tirò su appoggiandosi ai gomiti e si girò verso di lui. Jeff notò i cavi degli
auricolari.
- Ah
-.
Si guardarono nella penombra. L'unica fonte di luce era il lampadario nel corridoio. Ma
Sam sapeva che suo fratello la stava guardando. Non fosse altro che per il rettangolo
luminoso della porta che cadeva proprio su di lei.
Piagnucolare non era mai servito a niente, questo Samantha lo sapeva, ma voleva sapere.
- Jeff, perché sei arrabbiato con me? -
- Io non sono arrabbiato con te. Non siamo più bambini, non possiamo continuare a giocare
insieme. Il tempo passa e io sono un uomo
-
Sam sorrise e Jeff la vide sorridere.
- So che non è questo il vero motivo e mi stupisco che tu abbia avuto il coraggio da fare
un'affermazione tanto azzardata! -
-
e nemmeno tu sei più una bambina
-
Questo era vero. Almeno biologicamente.
Qualche settimana prima Sam si era svegliata nel cuore della notte, urlando e blaterando
che aveva un'emorragia e che sarebbe morta. Jeff si era alzato sconvolto, agitato da tutto
quel fracasso.
Aveva acceso la lampada sul suo comodino e si era avvicinato tremante al letto della
sorella. Sam lo guardava supplichevole, spostando lo sguardo da lui alle proprie lenzuola
intrise di sangue.
Jeff capì subito cosa aveva messo in agitazione la piccola e ingenua Samantha. Aveva
scosso la testa per rassicurarla. Quando si fu calmata l'aveva accompagnata in bagno, dove
Sam si era fatta una doccia, mentre lui andava a rovistare nei cassetti della madre, dove
sapeva di trovare degli assorbenti. Quindi era tornato da Sam, bussando alla porta li
aveva allungato la scatola ed era tornato in camera, per sistemare le lenzuola.
Alla fine aveva capito che non c'era altra soluzione se non buttarle via.
- Ma proprio oggi che la mamma non c'è! -, aveva esclamato, cercando di non farsi udire
dalla sorella.
Il resto della notte era stato consumato su un vecchio libro di biologia, in cui Sam aveva
trovato tutte le risposte alle sue domande, assistita dal fratello con infinita pazienza.
Infine, tranquillizzata, si era addormentata fra le sue braccia, il respiro regolare, i
capelli profumati.
Ancora questo profumo, aveva pensato Jeff. Si lavavano i capelli con lo stesso shampoo, ma
i suoi non profumavano così!
Qualsiasi cosa, su Sam, era diversa: più buona, più dolce.
L'aveva abbracciata disperatamente, quasi fosse l'ultima volta che ne avesse la
possibilità, e, dopo tanto tempo, aveva pianto, silenziosamente, bagnandole il viso con
le sue lacrime.
L'avevano portata lì, l'avevano fatta giocare con lui. Questa è la tua nuova sorellina,
gli avevano detto.
E ora gliela stavano portando via. Aveva quasi sperato che se ne dimenticassero, che la
lasciassero in pace, che lei rimanesse per sempre lì, con lui.
Lui aveva solo Sam, e Sam aveva solo lui.
Ma loro non dimenticano, non sbagliano, non tralasciano niente.
Non sapeva chi era stata prima di venire lì. Non sapeva se aveva fratelli o sorelle, se
era orfana o se l'avevano portata via dalla sua famiglia.
Ma sapeva che niente, ora, avrebbe impedito a quegli uomini di farle del male.
Sam rise sonoramente.
- Piantala di atteggiarti da adulto: non hai ancora la patente! -.
- Ci risentiamo fra un mese, quando mi supplicherai per portarti a fare un giro in auto,
la MIA auto! -.
Sam lo guardò incredula.
- Ma tu non hai la macchina, Jeff. Cavoli, nemmeno la mamma guida la macchina! Solo papà
la guidava, ma ormai
-, si morse le labbra.
-
non tornerà più -, Jeff finì la frase per lei.
Si guardarono, gli occhi sofferenti.
- Mamma mi ha detto della telefonata. Mi ha detto che papà starà lontano per parecchio
tempo a causa del suo nuovo incarico alla NASA
ha detto che dovrà viaggiare
molto
-
- L'ho sentita piangere. Ha tentato di darmi spiegazioni, ma mi sono rinchiusa in camera.
Non volevo ascoltarla. So che ho fatto male, ma
-. Ebbe un tremito e non fu più in
grado di proseguire.
Si sforzò di non piangere.
Jeff iniziò a giocherellare con il copriletto di Sam, attorcigliandoselo attorno alle
dita.
Ruppe il silenzio quasi per sbaglio.
- Ho trovato un lavoretto part-time, alla paninoteca che c'è dall'altra parte del parco.
E' là che sono andato oggi -.
- E' così che pensi di pagarti la macchina? -; la sua voce era un soffio adesso.
- Devo pensare io a te e alla mamma adesso che papà non c'è -.
Sam guardò Jeff e un nuovo sentimento le invase il cuore. No, aveva ragione, non era più
un bambino. Non era neanche un uomo, ma gli eventi gli imponevano di crescere in fretta.
- Ehi, Jeff, che ne dici? Ti va di unirti a noi? -.
Jeff continuava a dare energiche passate con lo straccio sul bancone. Non sentiva quello
che Brad e gli altri dicevano. Nella sua testa risuonavano le parole di Sam. "L'ho
sentita piangere, ha tentato di darmi spiegazioni
" . Si sentiva perso, adesso,
non ancora pronto per quel compito. E il solo pensiero che Sam se ne stava andando
Lavorare lo aiutava a non pensare, a non soffrire.
Sarebbe restato solo.
Sapeva che suo padre avrebbe continuato a prendersi cura di lui, economicamente, ma non
era questo che voleva.
Sentiva il suo cuore trasformarsi a poco a poco in un pezzo di ghiaccio.
Il bancone fu scosso da un pugno. Jeff allora alzò lo sguardo su Brad.
- Noi si va nella prateria. Sembra che i mocciosi abbiano trovato qualcosa -.
Jeff sapeva dov'era la prateria: era un campo di proprietà della contea, abbandonato, in
cui sterpaglie e piante selvatiche avevano proliferato, interrompendo il regolare e
rassicurante paesaggio di campi coltivati che circondava la base.
E sapeva anche chi erano i "mocciosi": erano i ragazzini delle medie, i compagni
di classe di Sam.
- Cosa? -, chiese, fingendosi interessato.
- Bah, niente di eclatante. Sono mocciosi. Ma per sicurezza andiamo a dare un'occhiata.
Dobbiamo tenerli sotto controllo -.
Jeff guardava Brad e si rendeva conto che lo disgustava: erano amici da anni, andavano a
scuola insieme dalle elementari e avevano sempre fatto comitiva, trascinando i più
piccoli. Quando era arrivata Sam, però, aveva iniziato ad uscire meno con lui e con gli
altri ragazzi, preferendo stare con la sorella. Si era reso conto che non voleva diventare
come loro, non voleva far scappare terrorizzati i ragazzini più piccoli, non voleva
terrorizzare Samantha.
Sempre con la cicca in bocca, come se bastasse qualche grammo di tabacco a renderti uomo!
Si toccò istintivamente la guancia. La sera prima, baciandolo per augurargli la buona
notte (sapeva che si sentiva sollevata dopo che si erano parlati), Sam aveva mugugnato e
si era massaggiata le labbra.
- Fatti la barba! -, gli aveva detto, ma era quasi certo che lo avesse fatto solo per
prenderlo in giro.
Ma si rese conto che, in effetti, qualche peletto solitario c'era, al lato della bocca.
- Ehi, bell'addormentato! Pensi alla fidanzata?!?!? -, esclamò Brad ad alta voce e
scoppiando subito a ridere.
Jeff lo guardò con odio: non ammetteva che si facessero illazioni su lui e Sam. Brad era
sempre stato geloso di lei, ritenendola responsabile del suo cambiamento. Non che fosse
falso, in effetti era proprio così, ma Jeff non la riteneva una colpa; piuttosto un
merito.
Brad aveva cominciato a chiamarli "i due fidanzatini", perché tanto tutti
sapevano che Sam non era realmente sua sorella. Poco male, la cosa non lo infastidiva
affatto. E poi, col tempo, Brad sembrava aver accettato la cosa, sembrava disposto a
dividere l'amico con Sam.
Uscirono dal locale.
Jeff non aveva dato più di tanto peso a quello che avevano detto. Cosa vuoi che possano
aver trovato in un campo abbandonato? Un porcospino o un altro animale selvatico morente o
addirittura già morto. Ci avrebbero giocherellato per qualche ora, con tutta la
cattiveria di cui i bambini (e, dicendo così, incluse anche Brad e la banda) sono capaci.
- Ehi, Jeff, non devi andare a casa a studiare adesso? -.
Il signor Sweeney era disponibile e gentile, come pochi datori di lavoro lo erano. Non che
Jeff ne sapesse qualcosa di datori di lavoro, essendo quello il suo primo, vero impiego.
- Dai, vai, ormai non c'è più nessuno. So che stai anche studiando per la patente
-.
- Già, sto cercando di crescere bene, per quanto mi è possibile! -.
Prima ancora di impedirselo aveva buttato lì una semi-confessione a quell'uomo che, per
quanto fosse comprensivo e amabile, era pur sempre un semplice conoscente.
Il signor Sweeney fu un po' sorpreso, ma per nulla disturbato dalla rivelazione. Sfoderò
un ampio e sincero sorriso sotto i suoi baffoni da vecchio cowboy e gli diede una rumorosa
pacca sulla schiena.
- Vai, vai. Sei un bravo ragazzo! -.
- Grazie, ci vediamo domani pomeriggio -.
Jeff sorrise un po' imbarazzato, si tolse velocemente il grembiule, lo appese al gancio
dietro il frigo e si lanciò fuori, inforcando velocemente la bicicletta e pedalando con
foga in direzione della base.
Buttò uno sguardo alla prateria: c'era la decappottabile scassata di Josh che stava in
bilico fra il ciglio della strada e il campo. Ma non vedeva nessuno.
Si fermò e si guardò intorno. Non c'era traccia di nessuno lì intorno, né la banda,
né i mocciosi.
Non voleva immischiarsi in quella faccenda, anche perché sicuramente Brad avrebbe
cominciato a fare il cretino con i bambini e li avrebbe terrorizzati, com'era suo solito e
lui non voleva assistere ad uno spettacolo simile.
Sicuramente se fosse rimasto lì, Brad ci sarebbe andato giù pesante, per farsi vedere
grosso e forte davanti a lui, quasi a dire: sono più uomo di te. Perché era di questo
che si trattava, no? Era sempre stata una gara fra loro due, per chi era più uomo.
Sam gli aveva risparmiato tutte le figuracce che invece erano toccate a Brad.
Vide delle sterpaglie muoversi, dove il terreno si increspava e cominciava una specie di
collinetta.
Delle voci che conosceva bene venivano da là.
- E' troppo stretto, non ci passiamo. Dovremmo trovare
-.
Josh si accorse di Jeff e sorrise inebetito. Jeff si chiese se non ci fosse
dell'artificiale in quel sorriso.
- Ehi, Brad, guarda chi ci ha raggiunto? -.
Brad si stava spazzolando i pantaloni sporchi di terra.
- Chi si rivede, il buon vecchio Jeff. L'uomo maturo! -, disse ghignando soddisfatto.
- Alla fine ci sei venuto, eh? -.
- Ho visto la macchina, e non vedendo nessuno vicino, pensavo fosse successo
qualcosa
-.
- Beh, l'importante è che adesso l'uomo è qui -, tagliò corto Brad, cingendogli le
spalle con un braccio e portandolo verso la collinetta.
E, una volta là, e una volta che vide quello che avevano scoperto (un cunicolo fognario,
forse per svuotare qualche bacino idrografico lì vicino o per convogliare l'acqua piovana
che si raccoglieva spesso troppo abbondante nella zona), Brad disse qualcosa che lo
lasciò esterrefatto. Mai lo aveva sentito dire una cosa del genere.
- Ci serve tua sorella, uomo. Lei è piccola e magra, ci passerà -.
Nella casa c'era un silenzio irreale. La porta di entrata era spalancata e questo gli mise
addosso una certa ansia.
- Samantha? Mamma? -, urlò, cercando di non sembrare troppo nervoso, ma senza riuscire ad
evitare che la voce gli uscisse tremolante dalle labbra.
Nessuna risposta.
No, no, fa che non l'abbiano già portata via!
Entrò in cucina. La tavola era apparecchiata, le pentole sul fuoco sbuffavano e
schiumavano spazientite. Si avvicinò ai fornelli e spense il gas.
Fece il giro della tavola. Nel tornare in sala inciampò in una sedia rovesciata sul
pavimento.
Bastò quel particolare per farlo precipitare nel panico più buio. Corse in corridoio,
spalancando e sbattendo le porte, chiamando a gran voce la madre e la sorella, cercando
febbrilmente ogni segno del passaggio di estranei.
Corse fuori. Bussò alle porte delle residenze vicine, prima i McNamara, quindi i Kelly,
vicini di casa di cui non si era mai curato, chiedendo se avevano visto o sentito qualcosa
di strano. Nessuno poteva dire cosa fosse successo; nessuno aveva visto uomini girare
attorno alla casa, nessuno aveva visto entrare o uscire qualcuno da casa sua.
I bambini lì intorno continuavano a giocare come facevano tutti i pomeriggi, prima che le
madri li chiamassero per la cena.
Si avvicinò ad alcuni di loro.
- Ehi, Greg, hai per caso visto se mia madre o Sam sono uscite di casa mentre io non
c'ero? -. Cercava di sembrare il più tranquillo possibile, ma, a quanto pare, non c'era
riuscito granché bene, dato che il piccolo Greg lo guardava stranito, facendo segno di no
col capo. Anche gli altri bambini negarono di aver visto qualcosa.
Jeff, come ultima risorsa, decise di andare all sbarra, chiedendo se nelle ultime ore,
erano entrati degli uomini incravattati e taciturni. Ma il giovane sergente al casello si
limitò a rispondere con un confuso "No, non mi pare. Ci sono problemi?", per
non ricevere alcuna risposta da Jeffrey, che già si era mosso in altra direzione.
Alla fine esausto, era tornato in casa e si era gettato sul proprio letto, affondando il
viso nel cuscino, premendoselo sugli occhi, quasi a fermare le lacrime.
L'avevano portata via, mentre lui non c'era. Le aveva promesso che si sarebbe preso cura
di lei, che l'avrebbe protetta, ma non era lì con lei quando c'era stato veramente
bisogno di lui.
Aveva fallito.
Si sentiva il corpo scosso da brividi incontrollabili. E forse, se per un attimo non si
fosse distratto dal suo dolore, non avrebbe sentito che, poco distante da lui, qualcuno
stava singhiozzando.
Si issò sulle braccia, guardandosi intorno con gli occhi rossi e gonfi.
Vide il cesto della biancheria attraverso la porta aperta, nel bagno. Era un cesto di
vimini, scuro, a forma di anfora, uno dei pochi regali che risalivano al periodo in cui il
matrimonio dei suoi genitori era un limbo felice e ovattato, che sua madre ogni tanto
ricordava con rimpianto e nostalgia. Alle volte, da bambini, lui e Sam si erano nascosti
lì dentro per fare uno scherzo alla mamma, per farla ridere.
Si alzò dal letto e andò in bagno. Tolse il coperchio. Ci fu un urlo lacerante, quindi
un pianto disperato e pieno di paura. Sua sorella se ne stava rannicchiata sul fondo,
coprendosi il capo con le braccia, mugugnando fra un singhiozzo e l'altro.
- Vi prego, non fatemi del male! Vi prego!
-.
Jeff si sentì svenire. Si lasciò scivolare sul pavimento, avvinghiando le dita intorno
al bordo del cesto, tenendo nell'altra mano il coperchio, e si lasciò andare ad un pianto
dirotto.
Dopo un paio di minuti, tra mille sforzi, riuscì a recuperare il controllo.
- Sam, stai bene? -, le chiese, con un filo di voce.
Sam si calmò all'istante al suono della voce del fratello, tirò su rumorosamente col
naso, sospirando esausta.
- Si
Hanno preso la mamma -.
Sentì le sue piccole dita accarezzare le sue, intrecciarsi e aggrapparsi, quasi avesse
paura di cadere.
Appoggiò la fronte al cesto, ben sapendo che Sam stava facendo la stessa cosa.
Avvertiva il calore del suo viso sconvolto dal pianto vicino al suo, attraverso le trecce
di vimini. Strinse forte la presa sulle dita di Samantha, in una comune preghiera.
- Mi dispiace
-.
Erano uno di fronte all'altro. Samantha aveva in mano una tazza fumante di camomilla, ma
non dava segno di volerne neanche assaggiare un sorso. Seduta come una bambola inanimata
sul divano, il corpo rigido, le mascelle serrate, lo sguardo fisso all'infinito, riusciva
a metterlo in agitazione più che se avesse ricominciato a piangere disperata.
Jeff, seduto sulla poltrona, aveva abbandonato i gomiti sulle ginocchia, le mani
saldamente cinte intorno alla tazza, cercando di ricavarne un certo sollievo. Guardava il
suo viso riflettersi e ondeggiare nel liquido giallastro, lasciando che il vapore caldo
gli si condensasse sulla pelle. C'era un freddo insolito, a quell'ora della sera, un
freddo che gli fermava il respiro, che gli bloccava lo stomaco, e si rendeva conto che
nemmeno lui aveva tanta voglia di bere la camomilla.
Alzò lo sguardo sulla sorella. Sapeva che presto avrebbe cominciato a ricordare. E allora
cosa le avrebbe raccontato? Avrebbe avuto il coraggio di dirle "Si, Sam, io so cosa
ti fanno, l'ho sempre saputo"?
Aveva sempre avuto un certo sesto senso per le azioni di suo padre e dei suoi strani
colleghi. Non più strani di lui, comunque.
Li vedeva, quando portavano via sua madre, quando le dicevano cosa fare, quando la
costringevano a dimenticare. Sua madre era diventata un'ameba nelle loro mani che si
lasciava manipolare e plasmare, piegata al loro volere.
Era cresciuto con la convinzione che non c'era altro tipo di rapporto che si potesse
instaurare con un altro essere umano.
La sua indifferenza e apatia nei confronti delle sofferenze umane lo avevano convinto di
essere superiore agli altri, avvertiva l'ammirazione e l'orgoglio di suo padre per lui.
Anzi, aveva quasi la sensazione che suo padre volesse che lui sapesse, che vedesse cosa
succedeva a quelli che erano "diversi". Era convinto che avrebbe preso il suo
posto, un giorno.
O, per lo meno, che suo padre lo volesse.
E poi era arrivata Sam.
Era sempre stato odioso con lei: avevano giocato, avevano scherzato e perseguitato i loro
amichetti più stupidi, avevano visto insieme i film a tarda notte e si erano abbuffati di
dolci di nascosto. Ma questi momenti di complicità si alternavano a certi altri, i cui
lui si era rivelato insensibile e indifferente, distaccato quasi. Il loro rapporto era
sempre stato caratterizzato da un'ambivalenza strana. In fondo, non era molto diverso dal
possedere un cane o un criceto, per lui.
Un bambolotto con cui giocare.
Ma Sam non era un giocattolo, e nemmeno un criceto. Sam era un essere umano, la creatura
più indifesa che conoscesse. Senza che lui se ne rendesse conto, negli anni, si era
insinuata nelle pieghe del suo inconscio e aveva preso un posto importante nel suo cuore.
E questa consapevolezza, l'orrore di fronte alla sua meschinità, lo avevano a tal punto
spaventato che aveva tentato con tutto se stesso di allontanarla da lui, di farsi odiare,
di "svezzarla", quando avevano iniziato gli esperimenti anche su di lei.
Ma Sam avvertiva questo suo sentimento per lei, sapeva che lui le voleva bene e non voleva
lasciarlo andare.
Alla fine si era arreso, vinto dalla sua determinazione, l'aveva accolta nel suo cuore, e
questa volta non voleva lasciare che la prendessero.
Appoggiò la tazza sul tavolino, si allungò verso Sam, inginocchiandosi ai suoi piedi e
posando entrambe le mani sulle sue ginocchia serrate.
- Sam, adesso
-, cominciò, sforzandosi di avere il tono più dolce e
accondiscendente possibile. Ma Sam lo interruppe bruscamente.
- Tu lo sapevi, vero Jeff? -, disse pacamente, con un tono più di sconforto e delusione
che di vera e propria accusa. I suoi occhi erano giudici implacabili.
Non poté fare altro che abbassare lo sguardo sulle proprie mani, stringendole dolenti
intorno alle ginocchia della sorella, attento a non farle male. Iniziò ad accarezzarle
con i pollici, disegnando dei cerchi sulla sua pelle candida.
- E sapevi che volevano anche me -. Questa volta non glielo chiese, lo disse e basta. Jeff
serrò gli occhi, portandosi le mani al viso.
- Era questo che non volevi dirmi? Erano loro che la portavano via! E ora volevano portare
via anche me! Cosa le fanno, Jeff? Cosa volevano fare anche a me? -.
Jeff si sentì sfondare da un masso precipitato da cinquanta metri su di lui.
- Sam, tu non ricordi nulla, ma presto lo farai
-.
La guardò. L'orrore si dipingeva sul suo volto delicato, trasformandolo in una maschera
di terrore. Il labbro inferiore iniziò a tremarle, le guance si fecero rosse di rabbia,
gli occhi di nuovo lucidi.
La ragazza si alzò di scatto e corse in camera, chiudendolo fuori. Sentì che
ricominciava singhiozzare.
Erano ore che se ne stava raggomitolato sul divano, in preda a tanti a tali sensi di colpa
che si chiese chi gli aveva insegnato la colpa. Non certo suo padre, un uomo senza morale
e senza anima non aveva un posto dove lasciare che il senso di colpa lo divorasse come un
tarlo. E non certo da sua madre, una presenza a metà, trattata alla stregua di un
topolino da laboratorio.
L'umanità che era in lui la doveva a Samantha, e ora la sua "maestra" lo aveva
chiuso fuori dal suo cuore, al di là della trincea delle persone di cui avrebbe potuto
fidarsi.
La casa era sprofondata silenziosamente nel buio della notte.
Di solito era di notte che venivano a prendere la madre. Come mai questa volta erano
venuti di giorno?
Era cambiato qualcosa.
La porta della camera si aprì. Vide la sagoma della sorella attraversare affannata il
corridoio e correre in bagno. La sentì armeggiare con la tazza del wc e iniziare a
vomitare. Corse anche lui in bagno, pronto a soccorrerla. Prese un asciugamano, lo bagnò
sotto il lavandino e lo usò per tamponarle la fronte. Sam stava sudando. Anzi, era madida
di sudore. La maglietta le era rimasta schiacciata contro la pelle, i capelli erano umidi
e appesantiti, tremava dalla testa a i piedi.
Un riso amaro le salì dalla gola, una volta che i conati furono cessati e lei si fu
accasciata sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro sotto la finestra, gli occhi
chiusi.
Jeff continuava a passarle l'asciugamano sul viso, sui capelli, sul collo. Aveva profondi
e spaventosi solchi neri sotto gli occhi, la pelle pallida, le labbra violacee.
- Come mai non ricordo nulla di quello che mi hanno fatto? -
- Non lo so. Credo che facciano qualcosa al tuo cervello perché tu dimentichi -.
Ci fu un attimo di silenzio. Sam aveva aperto gli occhi e aveva posato su di lui uno
sguardo inespressivo. Lei che era sempre stata un vortice di emozioni e sentimenti.
- Io sento che qualcosa sta cambiando. Sento che il mio corpo sta diventando qualcosa di
diverso. E non si tratta del diventare donna, Jeff; quella è un'evoluzione -.
Jeff era pietrificato. La guardava, cercando di capire il significato di ciò che lei
cercava di dirgli.
Deglutì a fatica, sentendosi la gola arida.
- Ascoltami. Loro non ti lasceranno in pace, non possono. Devi lasciar loro credere che tu
non sai niente -.
Una luce si era accesa nel fondo dei suoi occhi. Jeff ne fu sollevato.
- Troveremo il modo di farti fuggire di qui -.
Brad gironzolava intorno a Sam come fosse l'ultimo modello della moto più splendente e
potente sul mercato. E questo infastidiva parecchio Jeff.
- Allora, Brad, ti vuoi dare una mossa? Dille quello che deve fare e falla finita! -,
aveva esclamato, spazientito.
- Certo, uomo, certo, non preoccuparti -. Poi si rivolse a Sam, tendendole una mano,
volendo imitare qualche gesto cavalleresco, ma risultando solo ampliamente ridicolo.
- Prego, signorina Spender, le illustro la situazione -.
Si avvicinarono all'imboccatura del tunnel. Ne usciva un freddo fastidioso. Jeff vide i
peli sulle braccia della sorella rizzarsi e la pelle increspata da un brivido. Aveva solo
freddo o anche paura? Allungò una mano a catturarle il polso. Lei lo guardò e lui le
offrì il suo sguardo di conforto.
"Non preoccuparti, piccola" , voleva dire quello sguardo, "qui tengo tutto
sotto controllo".
Brad spiegò a Sam quello che avrebbe dovuto fare.
- I mocciosi hanno troppa paura per entrarci. Ma tu no, tu sei coraggiosa. E poi, con il
tuo corpicino agile e snello
- e dicendo così la guardava nello stesso modo di
prima, solo che, questa volta, Jeff notò un lampo sconosciuto, l'occhiata che Brad
scoccò a Sam era del tutto nuova. Capì che non era buon segno.
-
non avrai alcuna difficoltà a calarti nel tunnel -.
Sam si accucciò davanti al buco scuro di fronte a lei. Lo scrutò strizzando gli occhi.
Quindi si girò verso il fratello, alla ricerca di altro conforto. Lui sorrise, fingendo
una tranquillità che non aveva.
- Sarò dietro di te -.
Lei si sentì meglio, appoggiò entrambe le mani sopra il bordo superiore; allungò una
mano a Brad, per prendere la torcia a batterie, quindi si spinse con forza nell'oscurità.
Jeff si accucciò dietro di lei, si mise anche lui carponi e penetrò nel tunnel. Di
seguito entrarono Brad, Josh e Greg. Ognuno di loro aveva una torcia in mano.
- Sam, cosa vedi? -, urlò Brad.
- Per il momento solo il tunnel. Non sembra restringersi. Però potrebbe farlo. Attenti ai
ragni! -, dicendo così emise un suono rauco, quasi sforzato. Capirono che stava
schiacciando qualcosa. Josh rabbrividì.
- Sei un cagasotto, Kelly -, disse Brad, sogghignando a bassa voce.
Ad un tratto Sam si fermò.
- E adesso? -, urlò rivolta indietro.
- Cosa succede? -, chiese Jeff, allarmato.
- Il tunnel si biforca -, e dicendo così si scostò quanto poté, per dar modo al
fratello di vedere con i suoi occhi.
- Che c'è?!?!?! -, sbraitò Brad dietro di lui. Jeff notò con soddisfazione che Sam
faceva roteare gli occhi, chiaro messaggio della bassa opinione che aveva dell'amico del
fratello.
Jeff si guardò alle spalle.
- C'è un bivio -, disse, laconico.
- Andate a sinistra: a destra c'è la strada; di là il tunnel si potrebbe restringere -.
Proseguivano.
Sam si rivolse al fratello bisbigliando, cercando di non farsi sentire dagli altri.
- Che ore sono, Jeff? -.
- Le sette -. Erano partiti da circa dieci minuti.
- Siamo in troppi qui, comincia a mancare l'aria -.
- Vuoi che torniamo indietro? Non ce la fai più? -.
- Lo sai, vero, che per tornare indietro dovremmo gattonare al contrario? -.
- Si, lo so. Sarà divertente! -, e così dicendo aveva ghignato in modo malefico, lo
stesso ghigno che aveva conservato, da bambino, per le tre sorelle nefande.
Sam sorrise, nostalgica. E quel sorriso fece venir voglia a Jeff di essere fuori di lì.
- Ehi, che confabulate voi due? Perché vi siete fermati?!?!? -.
- Ehilà, gentleman, che ne dici di uscire di qui? -, urlò Jeff, senza togliere gli occhi
da quelli di Sam.
- Cosa c'è? Cosa avete visto? -, chiese Brad, preoccupato.
- Un bel niente! Ecco perché vogliamo uscire! -, rispose seccato Jeff.
- Ok, ok, è più che sufficiente per oggi -.
"Più che sufficiente!", pensò Jeff sbuffando e scuotendo la testa.
"Cos'è? Un compito in classe? Deve darci i voti alla fine del semestre?".
La manovra risultò molto più complicata del previsto. Jeff si rese conto che, per simili
spedizioni, sarebbe stato meglio in futuro, essere nel numero minimo di persone.
Per uscire ci impiegarono il doppio del tempo. Quando furono fuori era buio pesto.
- Ok -, disse Brad, quando tutti si furono aggiustati e ripuliti, ancora convinto di dover
essere il capo della spedizione. - Domani è sabato. Ci troviamo qui domattina alle otto.
Entreremo due per volta, per non incappare di nuovo in simili problemi -, concluse.
- Allora -, cominciò Jeff, una volta che furono soli, lontano da orecchie indiscrete, -
dove credi porti quel tunnel? -.
- Non c'è un bacino idrografico da queste parti? -, domandò Sam, cercando di guardarsi
intorno, scrutando l'oscurità che li circondava.
- Ce ne sono abbastanza -, sottolineò il fratello.
- Non ti sopporto quando fai il saccente! -, aveva esclamato la ragazza, colpendolo con un
docile pugno sulla spalla.
- Ugh! -, fece lui, stringendosi il punto dolente con la mano e fingendo una smorfia
straziata.
Camminavano fianco a fianco, in direzione del campo. Si sarebbero presi una lavata di capo
dal soldato di guardia, ma non era più importante. Entrambi i genitori erano lontani e
niente avrebbe reso la situazione peggiore di quello che già non era. Quella scappatella
notturna non avrebbe pesato affatto sulle loro teste.
Improvvisamente un pensiero attraversò la mente di Jeff, non invitato, non richiamato.
Anzi, tutto pensava, in quel momento, in una tale circostanza, tranne che a quello. Si
bloccò, la mano ancora stretta attorno alla spalla, lo sguardo perso all'orizzonte.
Sam si girò un paio di passi più avanti, rendendosi conto tardi che il fratello aveva
rallentato.
- Cosa ti è venuto in mente? -, gli chiese, sinceramente allarmata.
Jeff scosse la testa, senza però riuscire a togliersi quell'espressione dal volto. Ma Sam
decise che non voleva saperlo: dalla faccia del fratello, non sembrava così importante.
Quando Sam ritornò a guardare avanti, Jeff sorrise, a metà fra l'eccitato e
l'imbarazzato. Pensò ancora al sorriso che Sam aveva fatto quando erano ancora nel
tunnel.
Quel sorriso gli aveva messo addosso una fretta del diavolo, una voglia matta di
tornarsene a casa. E adesso capiva il perché. Non era la prima volta, era già successo
molte volte in passato: sua madre veniva portata via, magari il padre era fuori città per
lavoro e loro avevano passato notti intere da soli, in casa.
Ma quella notte era diversa. Tra loro era cambiato qualcosa. I suoi sentimenti per
Samantha gli apparivano sempre più nitidi.
PRIMA PARTE PRIGIONIA
CAPITOLO 4 - Un faro nell'oscurità
"Ho bisogno di te, Scully.
La mia mente è un groviglio di parole e immagini.
Senza di te che rimetti ordine nei miei pensieri sono un naufrago.
Un naufrago alla deriva che naviga su una zattera alla ricerca della terraferma.
La tua voce mi dice dove andare.
Sei tu a guidarmi nella confusione, attraverso la pazzia, riconducendomi alla superficie.
Vedo la luce di un faro nell'oscurità: non so dove mi sta conducendo, ma sento che è la
direzione giusta".
La fiamma crepitava nervosa.
"Il fuoco mi mangerà", aveva pensato. Scosse la testa per togliersi dalla testa
quel pensiero assurdo. Doveva agire, e in fretta.
Con le braccia legate lungo i fianchi dello schienale, sapeva che la posizione era
favorevole per una sola manovra. Portando in avanti il capo più che poteva, fino a
toccarsi il petto con il mento, si fece un virtuale segno della croce e si buttò
indietro, perdendo l'equilibrio e cadendo a pancia all'aria. Lo schianto fu rumoroso, ma
fortunatamente quasi indolore. Il pavimento di legno aveva attutito la caduta, come aveva
sperato, e ora aveva soltanto un gran dolore alla schiena.
Senza perdere tempo, aveva cominciato a far scivolare avanti e indietro le caviglie nella
stretta fasciatura fatta da Henry qualche ora prima. Se solo avesse potuto immaginare che
la sua meticolosità stava ora diventando il suo più grande errore, che stava per
portarlo verso una fine inesorabile!
- Avanti, avanti! -, supplicava a denti stretti.
I nodi erano veramente stretti, aveva poco gioco con i piedi. Continuava comunque con la
sua manovra. Intanto cercava di allentare anche la morsa agli avambracci, eseguendo lo
stesso movimento.
Gli sembrò di impiegarci delle ore. Deglutiva a fatica, quasi dolorosamente, come se
avesse le pareti della gola fatte in velluto.
Ora le fasce intorno alle caviglie si erano allentate notevolmente. Fece un tentativo. Il
piede destro scivolò via dalla gamba della sedia. Una piccola vittoria.
Dopo un paio di strattoni, anche quello sinistro fu libero.
Aveva spostato gli avambracci all'interno dello schienale, in modo da non schiacciarsi il
braccio sinistro nella manovra successiva.
Spinse con tutto il peso del proprio corpo da un lato, buttando le gambe a terra. Da
quella posizione, appoggiò i piedi sul sedile in paglia della sedia, spingendo quanto
poteva verso il basso. Non andò come sperava, ma non faceva differenza. La sedia, sotto
la pressione delle sue spinte, si spezzò alla base dello schienale.
- Ah, le vecchie sedie di una volta! -, borbottò, mentre si trascinava faticosamente a
sedere.
Si alzò in piedi. Aveva ancora le braccia legate dietro la schiena, ma, per il momento,
andava bene così.
Sapeva dove si trovava la finta parete dell'armadietto di Henry. Cominciò a dare delle
energiche spallate proprio in quel punto, sentendo fitte terribili dove i muscoli si
schiacciavano al pezzo di sedia che ancora rimaneva saldamente ancorato al suo corpo.
La parete si spezzò sotto i suoi colpi, e lui si ritrovò con la parte superiore del
busto nella cucina di Henry. Si rimise in posizione, questa volta dando colpi con i piedi.
Ora il varco era abbastanza largo da permettergli di passare. Si buttò subito su Henry,
che era rovinato a terra.
Sentiva il fuoco sempre più vicino. Lo chiamò a gran voce. Ma l'uomo non si alzava.
Allora fece l'unica cosa che gli venne il mente.
Tese le braccia il più possibile, allontanando il pezzo di sedia dal proprio corpo.
Quindi, con uno scatto, richiuse la braccia intorno ai fianchi, lasciando che ciò che
rimaneva della sedia si schiantasse contro la propria schiena. Il dolore fu lancinante, ma
sentì il legno spezzarsi e, a quel punto, liberarsi della fastidiosa imbracatura non fu
difficile. Intanto Elsa si era svegliata. Un po' intontita, non capì subito cosa stava
accadendo.
- Elsa, presto, dobbiamo uscire di qui. La casa sta andando a fuoco! -.
L'espressione del viso della donna cambiò da incredulità a terrore, quindi ad una più
rassicurante determinazione.
- Mi aiuti a sollevare Henry -, urlò l'uomo, tossendo e respirando a fatica. Il panico si
stava impadronendo di lui sempre di più.
Elsa si avvicinò a lui ed Henry.
Lo presero, lui a destra, lei a sinistra, e lo trascinarono in sala. Lì il fuoco aveva
già cominciato ad attizzare.
Il giovane si sentì mancare il fiato nei polmoni, li sentiva piccoli e leggeri come
palloncini sgonfi.
Tutto quel fuoco, un muro insormontabile, una minaccia visibile. Fu tentato di
rannicchiarsi a terra, come un preda ferita a morte che aspetta solo il colpo finale del
suo predatore. Portarsi le mani davanti agli occhi, per non vedere quello spettacolo
raccapricciante, e poi coprirsi le orecchie per non sentire il rumore che faceva il fuoco
mentre divorava ogni cosa con denti aguzzi.
Cercò di ritornare padrone della propria mente, pensando al presente, pensando a ciò che
sapeva.
- Elsa, lei ed Henry siete stati cosparsi di benzina. Non possiamo passare di qui -.
- La finestra delle cucina! -, gridò la donna.
Si gettarono attraverso il vetro, procurandosi parecchie ferite. Rovinarono tutti e tre a
terra, sul pavimento della veranda. Ormai il fuoco stava inghiottendo ogni cosa.
- Andiamo al furgone -, disse infine Elsa, tra i colpi di tosse, dopo aver dato un ultimo
sguardo malinconico alla propria casa in fiamme.
Una volta dentro la cabina, Elsa si lasciò andare senza potersi impedire di piagnucolare
come un bambina.
- Sono felice che Henry non sia sveglio per vedere questo spettacolo terribile -.
- Siete vivi, questo è l'importante -.
Seguirono attimi di silenzio, in cui contemplarono silenziosi gli ultimi istanti di vita
della casa che Henry aveva iniziato a costruire, aiutato da amici, quaranta anni prima,
quando si erano appena sposati e il loro primogenito non era altro che una creaturina
irriconoscibile nel ventre di Elsa.
La donna, sospirando rammaricata, tornò alle faccende pratiche.
- Dobbiamo andare in ospedale
-, non fece nemmeno in tempo a finire che già
ricominciava a tossire.
Ci fu uno schianto terribile. Il tetto era crollato, schiacciando ciò che rimaneva della
scala e trascinando il piano superiore nel piano inferiore.
- La mia camera da letto, le mie foto! -; si girò verso il giovane, con gli occhi pieni
di lacrime.
- Il corredo lo avevo fatto io. Ci avevo impiegato un anno, il periodo di tempo in cui io
ed Henry siamo stati fidanzati. Per un periodo avevamo vissuto a casa dei miei suoceri, ma
poi, appena io rimasi incinta, Henry aveva deciso che era ora di mettere su casa per conto
nostro. Era falegname, da ragazzo, si fece dare una mano dai suoi colleghi alla segheria
-.
Poi il suo sguardo vagò per la piccola radura formata dal fiume.
- Avevo deciso io il luogo. Mi ero innamorata di questo posto: era qui che io ed Henry ci
incontravamo da ragazzi, di nascosto dai nostri genitori! -, rise sommessamente, un riso
amaro, pieno di nostalgia.
L'uomo le strinse le mano, sperando di frenare la piena dei sentimenti che sembrava
incombere sulla fragile diga che stava tra il rimpianto e la disperazione.
- Andiamo. Abbiamo bisogno di cure. Almeno le ferite fisiche possono guarire -.
Sorrise. Ed Elsa, guardandolo in viso, rispose al sorriso.
Rincuorato, mise in moto e partì.
Una bollicina si staccò dal bordo del bicchiere e risalì tremolante verso la superficie.
E poi un'altra e un'altra ancora.
Era ancora legato su una sedia. Ma questa volta non era prigioniero, perlomeno non per le
persone che lo avevano curato e bendato.
Le fasciature erano strette da impedirgli quasi di respirare. Il braccio sinistro ben
assicurato al busto, tanto che gli sembrava di avere addosso una camicia di forza. Fu
scosso da un tremito e si dovette alzare per impedire alle sue gambe di ricominciare a
tremare nervosamente.
Trasalì alla voce dell'infermiera dietro alle sua spalle.
- Sig. McKennah, sua madre sta bene. Se vuole vederla
-.
Si girò verso la ragazza e fece cenno con il capo.
- Mi segua -.
La prima cosa che gli infermieri avevano chiesto appena arrivati al pronto soccorso, erano
state le loro generalità. Elsa, senza esitare, aveva detto che lui era suo figlio Ted e
che era arrivato appena in tempo: se fosse giunto anche cinque minuti più tardi, lei ed
Henry sarebbero morti.
Questo lo rendeva ancora più nervoso: e quando il vero Ted fosse venuto a sapere che i
suoi genitori erano in ospedale? Elsa lo aveva guardato con sguardo amorevole, non c'era
finzione in quegli occhi; gli stava dicendo di non preoccuparsi, che avrebbe pensato lei a
sistemare le cose con i suoi figli.
- Els
Mamma, come stai? -, disse, esitante, guardandosi intorno per vedere se
qualcuno aveva notato la sua incertezza. Nessuno sembrò accorgersi del suo errore.
- Ora sono più tranquilla. Tuo padre? -.
- Sta meglio. Si era risvegliato. Ora sta riposando -.
- Voglio vederlo -.
Fece per alzarsi dal lettino.
Un'infermiera accorse per trattenerla.
- Signora McKennah, non è il caso di alzarsi
-.
Elsa divincolò il braccio dalla stretta della donna, per poi guardarla dritta negli
occhi.
- Voglio vedere come sta mio marito, se non le spiace -.
L'infermiera guardò il giovane, imbarazzata. Lui ricambiò il suo sguardo, facendole
capire che non aveva alcuna intenzione di fermare Elsa o di mettersi in mezzo.
A quel punto la ragazza sbuffò impotente, arrendendosi, e le porse il braccio.
- Si appoggi a me -.
- No, grazie, mi faccio accompagnare da mio figlio -, disse, guardandolo sorridente.
Gli infilò la mano sopra il gomito destro e lo condusse fuori dalla stanza.
- Henry sta dormendo qui dentro -, disse l'uomo, indicando la stanza in fianco.
Appena dentro, si fece loro incontro un'altra infermiera, più anziana di quella che si
era presa cura di Elsa, che subito si parò davanti, risoluta.
- Solo i parenti -.
- Sono la moglie. Lui è mio figlio -.
Una fitta lo colpì al fianco. Gli sembrava di sprofondare sempre di più in un baratro
scuro e senza fondo ogni volta che insistevano nel perpetuare quella presa in giro.
Il donnone si spostò, non togliendosi però il piacere di fare loro un ammonimento.
- Sta riposando. Non lo svegliate -.
Elsa si girò, uno sguardo carico d'odio galleggiava nei suoi occhi scuri e fiammeggianti.
"È mio marito, so meglio di lei come prendermi cura di lui!", sembrava voler
dire quello sguardo.
L'infermiera, rossa in volto, abbassò il capo e uscì dalla stanza.
L'uomo sorrise, compiaciuto. Questa mania che hanno le infermiere di dirti sempre quello
che puoi o non puoi fare!
Aveva la netta convinzione che, per certe, non fosse il desiderio di prendersi cura del
prossimo a spingerle ad intraprendere quella professione, ma un più subdolo intento, la
brama di poter dare ordini a destra e a manca, come dei dittatori, avvalendosi del loro
ruolo di lenitrici di dolori come alibi.
"Se potessi scegliere che madre avere", pensò, "sceglierei una donna come
Elsa".
Se potessi scegliere... Ma qualcun altro aveva scelto al posto suo.
Henry era stato sistemato tra lenzuola candide. Stava composto, con le grandi e rugose
mani giunte sopra l'addome, che si alzava e si abbassava con regolarità.
Come a loro due poco tempo prima, gli stavano somministrando una flebo di soluzione
salina, per reintegrare i liquidi persi.
Elsa si sedette in fianco a lui, e cominciò ad accarezzargli la fronte, sistemando un
brizzolato e ribelle ciuffo di capelli che gli era ricaduto sul volto.
Ora si sentiva in più. Si guardò intorno, alla ricerca di un'altra sedia. La trovò
vicino alla finestra. Si avvicinò e si sedette, nell'ombra, lontano dal capezzale di
Henry.
E guardandoli, sapeva che Henry sentiva che la moglie era lì vicino. Rimase a
contemplarli, scivolando piano, piano nel sonno, mentre immagini presenti e passate si
mescolavano davanti ai suoi occhi. Gli sembrò, poco prima di sprofondare nell'oscurità,
di vedere il volto di Elsa sorridere teneramente.
Ma non era Elsa.
"Sei riuscito a trovare quello che cercavi?"
"No
no. Ma ho capito qual è la cosa più importante da fare: continuare a
cercare".
Un'altra alba, un altro giorno che cominciava. E altre ombre che si staccavano dal fondo
nebuloso della sua memoria, arrivando a galla confuse e opache.
Si ritrovò a contemplare la leggera condensa sul vetro della finestra, mentre le prime
luci del nuovo sole facevano capolino per le strade della cittadina e i lampioni si
spegnevano uno a uno.
Erano a Kellogg, nell'Idaho, informazione più o meno inutile per lui, dato che non sapeva
nemmeno da dove veniva.
Durante la notte qualcuno doveva averlo visto arrampicato su quella sedia vicino alla
finestra, doveva aver pensato che si sarebbe preso sicuramente un accidente, perché
adesso era avvolto in una calda coperta che sapeva di disinfettante.
Elsa si era addormentata con la testa posata sulla spalla di Henry. Anche lei era semi
nascosta da una coperta simile alla sua.
"Continuare a cercare".
Preso da un senso di ansia, quasi un impellente bisogno di movimento, si alzò, lasciando
che la coperta scivolasse sul pavimento, e letteralmente corse nel corridoio.
Si ritrovò davanti al distributore di vivande e bevande automatico.
- Scusi, ha mezzo dollaro? -, chiese alla ragazza alla reception.
La ragazza, senza alzare lo sguardo dal giornale che stava leggendo, allungò una moneta
oltre il bancone, che lui prese diligentemente.
- Grazie -, disse, cercando di guardarla in faccia, chinandosi e sorridendo. Lei scrollò
la mano, "Non c'è di che", rimanendo sempre china sul giornale.
Una rapida occhiata al "menù", tanto alla fine sapeva che avrebbe preso un
caffè.
Si sedette, con il bicchierino fumante in mano, sui sedili in plastica che arredavano la
sala d'aspetto. Quel caffè non prometteva niente di buono. Lo annusò diffidente, quindi
ne trangugiò metà. Beh, era un po' annacquato, ma in qualche modo doveva darsi la carica
quella mattina.
"Due cucchiai di panna, niente zucchero".
- Cosa? -, fece l'uomo voltandosi verso la reception.
- Sta parlando con me? -, chiese la ragazza, alzando finalmente la testa dalla lettura.
- E' stata lei a parlare, poco fa? -, chiese, disorientato.
- Io non ho emesso un fiato! -, rispose la ragazza. - Si sente bene? -, chiese poi,
preoccupata.
- Si, si, probabilmente mi sono sbagliato -, rispose sorridendo.
Si guardò furtivamente intorno, smettendo istantaneamente di sorridere.
Eppure gli era sembrato di sentire una voce, una voce di donna, che gli parlava, come
fosse lì vicino.
- Probabilmente sono pazzo sul serio! -, borbottò tra sé, tentando di sorridere ancora.
Una battuta per sdrammatizzare, ma già si stava chiedendo se fosse vero.
Non stava scappando, ne era sicuro, anzi, probabilmente voleva proprio farsi raggiungere.
O voleva essere seguito fino... fino a dove?
E una volta che lo avesse raggiunto?
Beh, voleva sapere cosa faceva in ospedale. E' un luogo pubblico, c'è sempre un gran via
vai di gente, ma quell'uomo non lo convinceva. Gli era sembrato sospetto. Subito si era
dato del paranoico, aveva i nervi tesi come corde di violino, vedeva possibili assassini e
incendiari ovunque, ma poi, appena i loro sguardi si erano incrociati, quello aveva
iniziato a tentennare e quasi subito era uscito, cercando di non dare troppo nell'occhio.
Ora che ci pensava non stava cercando di non farsi notare, anzi, voleva che lui lo vedesse
bene mentre si allontanava. Ma solo lui.
Cercava di studiarlo, di scorgere qualche particolare familiare.
I capelli a spazzola erano neri e sembrava che non se li lavasse da mesi.
Qualcosa nel suo modo di camminare non era del tutto convincente. Sembrava avere qualche
impedimento fisico.
Ogni tanto si girava, ma per pochi attimi, non aveva il tempo di catturare il suo viso, di
metterlo a fuoco, capire se gli era familiare.
Sembrava si accertasse che lui gli fosse ancora dietro.
Si infilò in un vicolo. Quando anche lui vi fu arrivato vide una porta di ferro chiudersi
lentamente in fondo alla strada chiusa.
Si avvicinò e si mise in ascolto. Non sentiva niente. Appoggiò la mano sulla maniglia,
che si abbassò pesantemente. Aveva tutta l'aria di portare in qualche magazzino
abbandonato pieno di topi.
Istintivamente trattenne il respiro nell'aprire la porta.
- Mi hai seguito, ma ancora non ricordi chi sono, vero? -.
Il fiato gli si fermò in gola.
La voce dell'uomo era alle sue spalle. Sentì la porta chiudersi cigolando, con un tonfo
reso ancora più spaventoso dall'eco del magazzino vuoto.
Le mani si alzarono sopra alle sue spalle, ben aperte e in vista, comandate da un impulso
che non riuscì a frenare. Lo aveva fatto senza rendersene conto.
- Ti conosco? , chiese, senza impedirsi di lasciar trapelare speranza tra le parole.
- Si, certo. Abbiamo lavorato insieme. Siamo grandi amici -.
Fece una pausa che lo riempì di ansia. Lo immaginava con una pistola in mano, puntata
verso la sua schiena. Una mossa falsa e sarebbe morto. Ma, nel silenzio ovattato, si rese
conto che quell'uomo ansimava. Era forse stanco? O semplicemente nervoso.
- Ti porterò da lei, Mulder, avrai tutte le risposte. Te lo devo -.
La voce si spense: sembrò soprappensiero.
- Mulder! Sono io? E' il mio nome?!?-.
Non serviva che gli rispondesse. Era lui, ora lo sapeva.
- Girati. E abbassa quelle mani: non sono armato! -.
Lentamente eseguì. Nella penombra del magazzino non riuscì a vederlo in viso. Strizzò
gli occhi e cercò di mettere a fuoco.
L'uomo si portò sotto la luce.
Non era armato, questo era vero. E gli era familiare, molto più di quanto si era
immaginato
o aveva osato sperare. Ma il suo istinto gli diceva che non si era fidato
di lui in passato.
- Ho sentito che vi hanno ritrovato, in una radura, vicino a Spokane. Quando sono
arrivato, i poliziotti non hanno voluto dirmi niente, ma ho capito subito che non ti
avevano preso. Chi ci riesce, capisce che genere di uomo ha tra le mani! -.
Ora che aveva modo di guardarlo meglio, capiva cosa non andava nei suoi movimenti. Era il
braccio, il braccio sinistro. O meglio, la protesi che aveva al posto del braccio
sinistro.
- Ah, quell'incidente! Per poco non ce lo rimettevi anche tu, sai? -, sogghignava, uno
sguardo complice si dipingeva sul suo viso.
Intuì dalla sua espressione che si sentiva colpevole
o che lo era.
Cercava di leggere fra le labbra e gli occhi di quel volto, ma non riusciva a dire perché
gli fosse così difficile credere alle sue parole. Parlava un linguaggio che non riusciva
a comprendere fino in fondo.
Ma capiva che ciò che diceva non era nemmeno una parte di ciò che non gli diceva.
- Devo darti retta, contro ogni buon senso. Ti riconosco, ma dubito che fossimo amici -.
Lo sguardo del ragazzo si indurì. Si chiese se avesse fato bene ad essere così franco.
L'uomo senza nome (perché lui ora un nome ce lo aveva) lo scrutò per circa trenta
secondi, poi sorrise compiaciuto, un sorriso appena accennato.
- Krycek -, disse, allungando la destra.
Gli sembrava insolito, inadeguato. Pensava di non avere bisogno di lui.
Ma questo era, ovviamente, stupido: era chiaro che aveva bisogno di lui, sapeva che lo
avrebbe condotto alla verità.
Si lasciava alle spalle Elsa ed Henry. E si lasciava alle spalle Kellogg, Idaho.
A bordo di un maltenuta Rolls Royce decappottabile del '56, di colore verde, gli sembrava
tanto di essere dentro un film, un road movie con gli interpreti sbagliati.
Il tettuccio sbatteva precario, e Mulder immaginava che, da un momento all'altro, si
sarebbe rilassato proprio sopra le loro teste, Krycek avrebbe perso il controllo dell'auto
e sarebbero finiti fuori strada.
I sedili erano scomodi e puzzolenti, il riscaldamento probabilmente guasto.
Si sentiva meno al sicuro in quell'auto che fuori in una foresta, di notte.
- Dobbiamo raggiungere Salt Lake City. Lì prenderemo un aereo per Washington -.
- Chi c'è a Washington? -.
- La tua vita, Mulder -, rispose Krycek, accennando un sorriso.
Gli era difficile guardare in quel sorriso e vedervi sincerità.
Gli era più facile immaginare che stesse ridendo di lui, piuttosto che credere che
volesse davvero aiutarlo. Krycek non faceva niente per niente.
La sicurezza con cui formulò quel pensiero lo lasciò per un attimo interdetto. Si chiese
se fosse stato prudente, dopotutto, accettare il suo aiuto.
- Sai, Mulder, ti conosco da un po' di anni, e so che quando fai quella faccia c'è
qualcosa che non va. Ancora non ti fidi di me? -.
Ancora quel ghigno irritante. Probabilmente era vero, era paranoico.
Ma avvertiva i suoi sguardi, le sue parole, come qualcosa di viscido e umidiccio, qualcosa
di malsano. E non era una semplice impressione dovuta al fatto che non ricordava ancora
perfettamente chi fosse stato quell'uomo che si professava suo amico.
Il fatto era che, lo sapeva, Krycek non era mai stato suo amico.
"Tu ci credi all'esistenza degli extraterrestri, Scully?"
"La scienza offre tutte le risposte, basta sapere dove cercare!"
Ora guardarsi allo specchio non era più così traumatico. Era la seconda volta che vedeva
la sua immagine riflessa. Cominciava ad acquistare familiarità con quel viso che era il
suo, ma che doveva fare uno sforzo per ricordare.
Lasciò le mani sotto il getto caldo dell'acqua più di quanto fosse necessario. Aveva le
dita come pezzi di ghiaccio. Ora la barba ricominciava a crescere, dando al suo volto
un'aria vissuta e trasandata.
- La mia vita
-. Si guardò le mani, chiedendosi che lavoro facesse, se era sposato,
se aveva figli.
Si toccò la spalla sinistra. Il giorno prima, facendo il bagno a casa di Henry, aveva
visto una cicatrice in quel punto. Si rese conto, ridendo fra sé, che il suo corpo
ricordava molto più della sua mente chi fosse stato.
- Chi sono! -, si corresse ad alta voce, ricordando che, volente o nolente, aveva lasciato
che Krycek decidesse di riportarlo a casa.
Stese le braccia e si appoggiò a dita aperte sul bordo del lavandino, abbassando la
testa, esausto. Si sforzava di trovare un filo logico, una certa continuità nei sogni che
faceva, mentre dormiva o mentre era sveglio. Aveva sempre un'immagine ricorrente, una
figura sempre presente, vicina, amica.
Ma non capiva se erano solo sogni o ricordi veri.
La porta si aprì in un tonfo. Krycek l'attraversò senza apparentemente toccare terra con
i piedi.
Mulder alzò la testa, dapprima riluttante, quindi, rendendosi conto di ciò che accadeva,
allarmato.
Sulla porta, una sagoma enorme si intravedeva appena nella penombra del lampione che
illuminava la piccola area di servizio. Veniva da chiedersi se non fosse un gioco di luci
e ombre a farla sembrare così imponente.
Guardandolo, Krycek sembrava sinceramente spaventato.
Si appoggiò alla parete opposta alla porta, portando la mano destra avanti, ansimando.
Stava implorando una tregua.
Mulder lo studiò attentamente e vide che era stato evidentemente malmenato: aveva le
labbra gonfie e rotte, un bozzo sull'occhio sinistro.
Riportò l'attenzione sulla figura alla porta.
- Ok, Duca, ok, ho capito -, cominciò Krycek, che ancora non sembrava aver preso fiato.
- Hai lasciato il lavoro a metà -, tuonò l'uomo. Mulder ebbe un brivido e si rizzò in
piedi, indietreggiando impercettibilmente. Ma l'omone non sembrava essersi accorto di lui.
- Si, hai ragione, sono un pezzo di merda -, disse, continuando a respirare a fatica e non
abbassando la mano.
- Ma ascoltami: vedi questo mio amico? -, e così dicendo lo aveva indicato, chiamandolo
pericolosamente in causa. Ora Mulder si sentiva come un soldato in prima riga, armato solo
di un fucile, mentre avanzano i cingolati. Si irrigidì, dapprima guardando Krycek con
aria stupefatta, quindi fissando il Duca spalancando gli occhi dalla paura, mentre questi
si avvicinava a lui.
- Chi sarebbe? -, chiese, accorgendosi in quel momento di lui e cominciando a studiarlo
dall'alto verso il basso. Mulder, per un attimo, credette di vederlo sollevare la gamba e
schiacciarlo con la scarpa come si fa con uno scarafaggio o un altro insetto fastidioso e
indesiderato.
A parte la mole spaventosa, comunque, non c'era altro nel suo aspetto che potesse incutere
timore. Adesso gli sembrava più umano, ora che lo vedeva in faccia, sotto la fioca luce
della lampadina. Ma bastava vedere come aveva ridotto Krycek per capire che il rispetto
presso le persone con cui aveva a che fare se lo era guadagnato in ben altro modo.
- Sarei venuto io da te appena avessi finito con lui -.
"Finito cosa?!?", si domandò Mulder, riportando lo sguardo sul ragazzo e
corrugando la fronte dubbioso.
- Cosa avevi da fare con il tuo amico? -, chiese il Duca con voce potente, tranquillo,
quasi amorevole.
- Devo dargli una mano a tornare a casa. Capisci, è nei guai. E quando un amico
chiama
-.
Non finì la frase. Certo, pensò Mulder, cosa ne sa lui degli amici che chiamano?
Probabilmente quando qualcuno gli chiedeva aiuto lui rispondeva sempre occupato.
Il Duca, ora, lo stava studiando ancora più attentamente, quasi con interesse. Si poteva
immaginare fosse stata la parola "guai" ad attirare la sua attenzione.
Quindi riportò gli occhi su Krycek, che sembrava aver riacquistato un po' della sua
faccia tosta, di nuovo in piedi, con la schiena diritta, il braccio destro lungo il
fianco. Aveva persino smesso di ansimare.
- Dove hai nascosto la merce? -.
- La mia squadra ha avuto dei problemi. Siamo stati costretti ad abbandonare il camion
lungo la statale. Ma
-, L'omone sembrò gonfiarsi e alzarsi di qualche centimetro.
Si avvicinò a Krycek, tirando un profondo respiro, lasciando intuire che stava facendo un
enorme sforzo per trattenersi dal pestarlo a sangue.
-
ehi, Duca, calma
-, balbettò Krycek, alzando di nuovo la mano,
indietreggiando fino quasi a chiudersi nel primo dei tre servizi infilati uno accanto
all'altro in fianco alla porta.
- Sappiamo dove l'hanno portato! Solo che, appunto, poi m'è capitato questo
imprevisto
-.
Era stupefacente: da amico da salvare, ora era diventato un imprevisto!
- Io non voglio farti del male, Alex, voglio solo che tu porti a termine questo piccolo e
facile incarico -.
Il tono era quello di un padre affettuoso col figlio scavezzacollo: carezzevole, suadente,
quasi rassicurante. Ma questo non rendeva certo la situazione migliore; anzi, se era
possibile, aumentava la tensione.
- Non so dove sia quel camion, ma la Signora lo vuole -. Il tono ora era cambiato, era
diventato duro e tagliente. Il che rese la scena un attimo più realista.
- Quindi vedi di portarlo a Detroit il più in fretta possibile, senza altri
"imprevisti". Immagino tu non abbia altri amici da salvare, non è così?",
e così dicendo scoccò un'occhiata a Mulder, difficile da decifrare. Sembrava uno sguardo
di rimprovero, che spostava da lui a Krycek, come fanno certi padri che fanno la ramanzina
ai figli.
Fino a quel momento, Mulder non si era sentito realmente chiamato in causa, ma ora capiva
che avrebbe dovuto seguire quei due fino nel Michigan.
PRIMA PARTE - PRIGIONIA
CAPITOLO 5 - Da qualche parte, fuori di qui
"Tu mi ricordi qualcosa che era prima di me, qualcosa che non conosco ancora, ma se
chiudo gli occhi e prendo un profondo respiro, mi passano attraverso i suoni e le voci
dell'infanzia.
Se solo potessi tornare indietro, saprei di trovarti là"
- Jeff
? -.
Samantha stava ancora parlando nel sonno.
Il ragazzo, che non si era ancora addormentato, si girò verso il letto della sorella. Non
sembrava il solito incubo. Non era agitata, non piangeva, non urlava.
-
sei mio fratello? -.
Jeff ebbe un brivido. Possibile che Sam fosse sveglia?
La vide muoversi sotto le coperte. Avvertì il frusciare delle lenzuola e sentì un
formicolio alla testa.
- Sam, dormi? -, chiese, chinandosi in avanti, pronto ad uscire dal letto in un balzo se
lei gli avesse risposto di no.
- No, tu non sei mio fratello
-.
Gli si gelò il sangue nelle vene. Cominciò a tremare. Un castello di carte che cade al
suolo buttato giù da un soffio di vento: che differenza c'era fra un mazzo di carte
francesi e i suoi muscoli tesi, in quel momento?
- .. io ce l'ho, un fratello
quello vero -.
Rimase in ascolto, trattenendo il fiato nei polmoni. Il cuore sembrava rotolargli nella
cassa toracica, da una parte all'altra, avanti e indietro. Sperava che Sam dicesse
qualcos'altro, possibilmente qualcosa di rassicurante.
Ma Sam taceva.
Si sforzò di ricominciare a respirare.
Gettò via le coperte e si avvicinò al letto della ragazza. Dormiva supina, il viso
disteso, quasi sorridente. Provò una grande vergogna, scoprendosi ad odiare quel
rinnovato momento di serenità della sorella, ben sapendo a cosa lei stesse pensando.
Stava pensando al suo vero fratello, quello che lui sperava non esistesse.
Perché sentiva che avrebbe occupato il gradino più alto nel cuore di lei.
La mano destra era stretta a pugno, accanto al viso. Il braccio sinistro sopra la testa,
sul cuscino.
Si sedette sulla sedia di fianco al letto, e rimase a contemplarla. I suoi capelli avevano
dei riflessi quasi blu nella luce argentata della luna.
Scoprendo un inaspettato spirito audace che non pensava di possedere, allungò una mano
fino ad accarezzarle la nuca con il dorso delle dita, passandola sul viso, sulla fronte.
Lei mugugnò infastidita, corrugando la fronte e voltando la testa verso la finestra.
La mano destra le ricadde sul seno.
In quella posizione poteva vedere la curva del suo collo, fino all'attaccatura
dell'orecchio sotto il lobo. Lo scollo a U del pigiama rivelava la curva del suo sterno,
così dolce e morbida, a vedersi.
Il petto si sollevava e abbassava con regolarità, indice di una tranquillità che
invidiava.
Stava dormendo, stava semplicemente e stupendamente dormendo.
Si chinò a posarle un bacio sulla tempia.
Stava pericolosamente attentando al suo riposo, e lo sapeva.
Sam ebbe un altro moto di fastidio, ritornando a girare il viso verso di lui. Il movimento
gli accarezzò le labbra sensibili, come se la pelle fosse inesistente.
Un altro bacio, sulla fronte.
Prima di rendersi conto che non era più in grado di fermarsi, le stava baciando il naso,
la guancia, le palpebre.
Si scostò per guardarla, e si rese conto che Sam era sveglia, i suoi grandi occhi azzurri
fissi su di lui.
Non sembrava spaventata o infastidita. Era seria, il suo sguardo domandava cosa stesse
facendo.
- Sc
scusa
-, borbottò frettolosamente Jeff, rendendosi conto che qualcosa si
era svegliato dentro di lui.
Non riusciva a spiegarsi cosa gli impediva di riprendere il controllo delle proprie
azioni. Gli sembrava che una forza più grande di lui lo stesse governando, e lottare era
inutile.
Ma non voleva che Sam lo odiasse. E sapeva che se avesse perseverato in quella direzione,
la reazione della ragazza sarebbe stata devastante e definitiva.
Si voltò, vergognandosi di se stesso e dei suoi sentimenti. Ma non erano quelli da
biasimare.
Erano le intenzioni. Che intenzioni aveva? Il suo sguardo, in quel momento, era lo stesso
di Brad il giorno prima, nella prateria, quello sguardo che aveva odiato?
Sentendo che Sam non diceva una parola, ritornò a guardarla.
Era ancora lì, con i suoi occhi che gli scavavano dentro, imperscrutabile,
incomprensibile.
Aveva finito le munizioni, mentre Sam aveva tutte le armi cariche.
A volte proprio non la capiva. Si chiedeva se le sue azioni fossero comandate da un
impulso conseguente agli esperimenti o se facesse tutto parte di un tacito accordo, un
contratto non scritto in cui si diceva che, comunque, ragazzi e ragazze si amano senza
capirsi; anzi, proprio perché non si capiscono, si amano ancora di più.
Sam lo stava baciando. Dapprima si era avvicinata con timidezza, quasi esitando.
"Non fare la finta tonta con me, Sam, so benissimo che sai quello che vuoi!", si
ritrovò a pensare, ma subito cacciò via quel pensiero: Sam era diversa.
Jeff le aveva stretto le spalle con entrambe le mani, tenendola vicino a sé, prevedendo
qualsiasi suo tentativo di staccare le labbra dalle sue.
Allora lei aveva smesso di tremare.
Jeff fece scivolare le sue mani dietro la schiena di Sam, cingendola con dolcezza e
fermezza, senza osare di più.
Sentì le braccia di lei distendersi sulle sue spalle, le dita affondare nei suoi capelli.
Allora il formicolio alla testa si fece più intenso, si sentì mancare.
La stanza cominciò a girare, fino a scomparire del tutto.
Il mondo si confuse e si accorse che anche loro si stavano confondendo.
Erano passate due settimane e la mamma ancora non tornava.
Jeff era in ansia: tutto andava in un modo troppo diverso dal solito. Quel fatto spezzava
la routine a cui si era abituato da quando era un bambino.
Espirò il fumo dalle labbra, sentendosi come una appendice monca del padre: anche lui era
sparito, ma questo non lo aveva mai preoccupato più di tanto.
L'assenza di vento quella mattina fece si che la nuvoletta si espandesse uniformemente,
dilatandosi e assottigliandosi, fino a sparire del tutto.
Si era finalmente deciso a fare un po' di pulizia nella camera dei suoi il giorno prima,
quasi a volersi disfare di suo padre una volta per tutte. Aveva buttato all'aria cassetti
e armadi, dividendo le cose di sua madre da quelle di lui, quelle che ancora servivano da
quelle che non servivano più.
Se fosse tornato a cercarle, gli avrebbe risposto che avrebbe potuto farsi vivo prima.
Era stato in fondo ad uno dei cassetti del suo comodino che aveva trovato un pacchetto
delle sigarette che era solito fumare. Le aveva prese, ben intenzionato a buttare anche
quelle, ma poi le aveva dimenticate sulla credenza della cucina.
Svegliandosi, troppo presto quella mattina, le aveva viste e le aveva aperte. Sapeva che
se Sam lo avesse sorpreso a fumarle, si sarebbe arrabbiata. Ma Sam si sarebbe svegliata
solo fra due ore e una sigaretta per consumarsi ci impiega cinque minuti. Statisticamente
poteva fumarne almeno una ventina, il che significava finire il pacchetto prima che lei
arrivasse in sala e lo vedesse.
Questi gli elementi di colpa.
Se poi avesse dovuto fornire alla giuria il movente, cosa avrebbe risposto?
Beh, probabilmente che era talmente nervoso e ansioso da un mese a questa parte che aveva
cominciato a credere alle voci secondo cui, fumando, ci si rilassava.
"Signore e signori della giuria, il mio cliente è si colpevole, su questo non ci
sono dubbi, ma ha anche un alibi di ferro!"
Certo che ce lo aveva un alibi, il migliore, il più ovvio, ma anche il più doloroso: era
innamorato di Sam. A ben pensarci, era l'unica persona che amava.
Ogni volta che, svegliandosi, apriva gli occhi, doveva sforzarsi di mantenere la calma,
convinto com'era che anche lei sarebbe sparita e non avrebbe più fatto ritorno.
Ma erano stati discreti, bravi e discreti. Non era uno stupido, sapeva che le loro visite
notturne e diurne continuavano. La prelevavano per qualche ora, la portavano alla base,
dove c'erano gli uffici e i laboratori di ricerca sperimentale avanzata, e la riportavano
apparentemente indenne.
In genere questo avveniva durante la notte, o mentre lui era al lavoro.
Appoggiò la nuca contro il bianco stipite della finestra, esalando un'altra nuvola di
fumo, guardandola mentre ascendeva verso l'alto, galleggiando e fluttuando.
Tese la gamba indolenzita per la posizione scomoda che si era costretto ad assumere sul
davanzale, la lasciò penzolare, mentre le dita dei piedi sfioravano il pavimento. Quel
contatto freddo e reale gli fece venire la pelle d'oca. Guardò quello che rimaneva della
sigaretta, quindi gettò il mozzicone nell'erba, come faceva da ragazzino, un lanciatore
professionista sulla pedana di lancio.
Il movimento gli fece urtare il pacchetto. Stava per chinarsi a raccoglierlo, quando un
movimento in corridoio lo fermò. Sapendo che era Sam, diede uno schiaffo alla scatola che
scivolò sotto il divano.
Quando alzò la testa, Sam era davanti a lui.
- Che cosa stai facendo? -, chiese la ragazza, per nulla insonnolita.
- Non riuscivo a dormire; mi sono messo qui ad aspettare che faccia giorno -.
- No, intendevo: che cosa fai chinato per terra -, precisò.
- Ah,
. -, un alibi per l'alibi.
- Cercavo le ciabatte. Ma devo essermele dimenticate in camera -.
La studiò sospettoso, mentre lei girava gli occhi sul pavimento della sala, convinta di
doverle cercare.
- Qui non ci sono. Vuoi che vado a prendertele? -, chiese, mentre già si stava
allontanando.
- No, no, fa lo stesso -, rispose, mentre allungava una mano a stringerle il polso e,
quasi contemporaneamente la attirò a sé.
Sam non oppose resistenza.
Ma Jeff non aveva alcuna intenzione di continuare ciò che era rimasto in sospeso quella
sera di due settimane prima. Appoggiò la testa sulla sua spalla sinistra, sfiorandole con
la punta del naso la morbida pelle del collo, sentendo il flusso del sangue che pulsava
nelle vene, il respiro farsi impercettibilmente irregolare.
Iniziò a dondolare la mano, lasciando che le dita gli scivolassero nel palmo di lei.
Allora Sam appoggiò la guancia sulla fronte di Jeff, un bacio, quindi il silenzio.
Solo i raggi del sole li sorpresero quella mattina.
- Voglio venire a scuola oggi, Jeff -.
Il ragazzo alzò lo sguardo dalla tazza che aveva davanti, preso alla sprovvista. Vide che
la ragazza era seria, sicura, non era una richiesta, o un tentativo di convincerlo. Lo
stava informando sulle sue intenzioni. A quel punto opporsi sarebbe stato inutile.
- Ok -, fu la sua laconica risposta, prima di tornare al suo latte e biscotti.
Sam, un po' disorientata dalla docilità con cui il fratello aveva preso la notizia (si
ostinava a chiamarlo fratello, quando ormai era più che evidente che non lo erano,
nemmeno nei sentimenti), rimase in piedi a fissarlo con il piatto a mezz'aria. Quindi,
riavutasi, lo mise nel lavello e andò in camera.
- Bene, vado a vestirmi -, disse, uscendo dalla cucina.
Davanti a lui, Brad correva eccitato, urlando e ridendo come un pazzo.
- Che cavolo è successo, Brad? Si può sapere cosa avresti scoperto? -
- Io non ho scoperto un bel niente, uomo, ma, a quanto pare, qualcun altro è a conoscenza
del tunnel di scolo! -, urlò il ragazzo, saltellando davanti a Jeff che faticava a
tenergli dietro.
Jeff si fece preoccupato: più persone sapevano di quel tunnel, meno probabilità aveva
Sam di scappare. Rallentò facendosi pensieroso.
Brad non sembrò accorgersene e continuò a correre per un bel tratto.
Si finse stanco.
- Brad, rallenta, mica siamo alle olimpiadi! Non la vinci la medaglia d'oro! -.
Brad rallentò, voltandosi per accertarsi di quanto aveva distanziato l'amico.
Jeff stava piegato, con le mani appoggiate sulle ginocchia, ansimante.
Brad lo aveva catturato sul portone della scuola quella mattina, mentre entrava con
Samantha.
La ragazza si era girata verso di lui, corrugando la fronte, sospettosa. Lui allora aveva
alzato la mano per assicurarle che l'avrebbe raggiunta più tardi, nella pausa pranzo.
Lei si era voltata, leggermente scocciata ed esasperata dalle sue promesse da marinaio,
andando in classe.
Accidenti, aveva pensato Jeff, Brad hai un tempismo perfetto, come al solito: riesci
sempre ad entrare in scena al momento sbagliato!
Ma Brad ci godeva a seminare zizzania fra lui e la sorella.
- Che c'è, pappamolla, sei stanco? Se non ci muoviamo ci perdiamo tutto il divertimento!
-.
- Quale divertimento?! -, aveva chiesto Jeff, senza alzare la testa.
- Beh, il tunnel è nostro. Dobbiamo difendere ciò che è nostro -, concluse il ragazzo.
C'era sempre stato un che di primitivo e animale nel suo modo di fare, proprio come certi
lupi che attaccano in branco gli intrusi che penetrano nel loro territorio di caccia. Brad
non avrebbe mai affrontato da solo i nuovi arrivati, ma con lui al fianco si sentiva un
uomo invincibile!
Rise sommessamente, con i polmoni intrappolati nella posizione in cui si era costretto.
Ciò che ne risultò fu più un rantolo faticoso che una risata.
- Hai paura che ti scappino? -, aveva chiesto.
- Sono certo che non ci staranno tanto a lungo -.
Jeff si ricompose, esagerando un po' con i mugolii di dolore, stiracchiandosi la schiena.
Non era quello che si erano aspettati. Non c'era nessuno da malmenare, purtroppo per Brad.
Quello più grande aveva sicuramente qualche anno più di loro; l'altro sembrava più
piccolo, ma non sarebbero riusciti a torcergli un capello. Se ne stavano composti davanti
all'imboccatura, con i mocciosi che facevano corona intorno a loro, con l'intento di
metterli probabilmente a disagio, ma, dall'esterno, sembravano la banda che aspetta le
istruzioni del capo.
Quando fu ad una distanza sufficiente a farsi sentire, Brad sbraitò un "Ehi!",
tentando di essere minaccioso. Ovviamente fallì miseramente.
- Secondo me è straniero! -, bisbigliò quindi a Jeff.
- Da cosa lo deduci?-
- Guardalo! Grosso, biondo con gli occhi di ghiaccio. Sembra tedesco! -, ridacchiò a
bocca chiusa, come faceva sempre quando voleva fare il duro.
Jeff non fece alcun commento; tanto il cervelletto di Brad non ascoltava repliche: si
chiudeva a riccio, come fosse un riflesso incondizionato, come fanno le palpebre quando
qualcosa ci finisce dentro gli occhi.
La sua intelligenza emetteva stupidità chiudendosi ad ogni possibilità di ricevere
saggezza.
Lui, al contrario, era incuriosito dai nuovi arrivati. Quello grosso sembrava un po'
ostile, ma non pericoloso, almeno non se gliene si dava una ragione: doveva tenere Brad al
guinzaglio.
Quando si furono avvicinati, i bambini si aprirono a ventaglio, permettendo loro di
portarsi ancora più vicino agli "ospiti".
- M
Mi chiamo Jeff e questo è il mio amico Brad -, disse, porgendo la mano al
maggiore; aveva dedotto fossero fratelli, data la somiglianza. Contemporaneamente, aveva
appoggiato una mano sulla spalla di Brad, che già cominciava a scaldarsi.
- Bill Scully jr. Questo è Charles, mio fratello minore -, rispose l'altro, da perfetto
soldato.
- Ciao Charles -, sibilò Brad.
Jeff gli scoccò un'occhiata piena di panico, quindi tornò con lo sguardo su Bill.
- Siete nuovi di qui?-
- Siamo arrivati ieri sera. Stiamo sul lato ovest della base -.
"Vicino a casa mia", aveva pensato Jeff.
- Da dove venite, esattamente? -, aveva domandato Brad.
Bill lo guardò con sospetto. A quanto pare non gradisce la curiosità. Jeff era felice
fosse stato Brad a fargli quella domanda, e non lui.
- Veniamo dal sud della California -.
- Starete qui molto? -.
L'amico perseverava con le su domande indiscrete. Jeff si sentì attraversare da un
brivido gelido. Gli occhi di Bill erano due fessure, taglienti e insondabili.
Sperò che Brad la facesse finita.
- Siamo solo di passaggio
-, borbottò Charles, aggrappandosi alla manica della
giacca del fratello, come volesse implorarlo a restare calmo. Bill abbassò lo sguardo su
di lui, infastidito. Vedendo il panico che trapelava dal fratello e da Jeff, si costrinse
ad uno sforzo di autocontrollo.
Jeff ne approfittò per dare una gomitata a Brad, che subito mugugnò.
- Piantala di fargli tante domande e lascia che se ne vadano
-, gli sussurrò
piegandosi su un lato, cercando di non darlo troppo a vedere. In cuor suo sperava che,
disturbati dalla loro presenza, se ne andassero, per tornare più tardi, magari, quando
lui fosse riuscito a trascinare Brad a scuola.
- Charles, che ci fai qui? Le lezioni sono già cominciate! -.
Jeff trasalì. Si girò, notando una ragazzina, all'incirca dell'età di Sam, che si
avvicinava a lunghi passi verso di loro, guardando bene dove metteva i piedi.
I capelli biondo rame le dondolavano intorno al viso, cullati dalla sua camminata
energica.
In mezzo alla desolazione del paesaggio era come un pugno in un occhio.
Si girarono tutti verso i fratelli Scully, con negli occhi la stessa espressione che
pretendeva spiegazioni. Charles sembrava il più disposto fra i due a giustificare quella
"apparizione".
- E' nostra sorella, Dana -.
La ragazza fu presto davanti a loro.
Non assomigliava affatto ai fratelli: era minuta e graziosa, il viso era delicato, roseo,
una spruzzata di lentiggini gli ricopriva la morbida curva del naso.
Gli occhi erano enormi e profondi, di un colore incerto, non sapeva dire se azzurri o
verdi.
Gli ricordava tanto una bambola di porcellana che aveva regalato a Sam per il suo
compleanno, esattamente un anno prima. Era rimasto davanti alla vetrina per un buon dieci
minuti a fissare gli splendidi occhi di quella bambola, rapito dalla loro dolcezza,
chiedendosi come avessero fatto a renderla tanto reale da sembrare quasi viva. Aveva speso
tutti i suoi sudati risparmi per acquistarla, ma sapeva che Sam sarebbe andata in
visibilio se l'avesse visto arrivare con quel fantasmagorico regalo.
La dolcezza dei suoi occhi, però, si dileguò in un attimo: si scambiò con il fratello
maggiore uno sguardo duro e freddo. Jeff intuì che c'erano vecchie e profonde discordie,
probabilmente, fra loro.
E, forse, risentimento per aver trascinato il fratello minore lontano dal suo dovere.
Era arrivata a rimettere ordine.
E con ordine, a piccoli gruppetti, si erano piano, piano dileguati, tornando a scuola.
- Ciao. Mi chiamo Samantha. Tu come ti chiami? -, le disse, sedendosi accanto a lei, sullo
scalino della scuola, mentre tirava fuori il pranzo dalla sacca.
- Dana -, rispose la ragazza, deglutendo il boccone che aveva in bocca: era chiaro che
l'aveva colta alla sprovvista.
- Scusa -, disse Sam, accorgendosi della gaffe.
- Non preoccuparti
-, la guardò per qualche secondo, aggiustandosi il ciuffo di
capelli che le ricadevano folti sulla fronte.
- Anzi, sono felice. Qui nessuno sembra voler rivolgermi la parola! -, aggiunse,
sorridendo e portandosi una mano davanti alla bocca.
Samantha l'adorò istantaneamente.
L'aveva notata appena era arrivata a scuola. Aveva salito la breve scalinata principale
stringendosi forte i libri al petto, quasi avesse paura che scivolassero dall'elastico di
punto in bianco, facendole fare una pessima figura proprio il primo giorno.
Aveva una gonnellina scozzese che le arrivava alle ginocchia, da cui partivano un paio di
calze bianche, come andava di moda nei college inglesi. Il gilè era in tinta con la
gonna, rosso con ricami verdi, mentre sotto portava una camicia bianca, chiusa al colletto
da un cravattino verde scuro.
Nella sua scuola non c'era l'obbligo dell'uniforme, ma probabilmente quello era il suo
stile.
Invece che conformarla a qualche ordine particolare, questo abbigliamento la rendeva
distinguibile, anche se Sam era convinta non ne avesse bisogno. Anche se sembrava una
ragazza come le altre, percepiva da lei una certa sicurezza, padronanza di sé, forza di
carattere.
Tutte le persone apparentemente indifese custodiscono un cuore di leone. E Dana, piccola e
indifesa in mezzo alla marmaglia di adolescenti urlanti che popolavano la sua scuola, era
una mosca bianca.
Non erano nella stessa classe, e di questo Sam si rammaricò. Dana era più vecchia di lei
di un anno, quindi era in classe con Barbara.
Anzi, lo sarebbe stata, dato che Barbara aveva traslocato senza preavviso qualche giorno
prima, lasciandole un laconico bigliettino nell'albero.
Sperava in cuor suo che non fosse la fretta di sostituire Barbara, ma un reale interesse,
a spingerla così precipitosamente a fare amicizia con Dana.
E forse il particolare che con la sua famiglia si era trasferita proprio nella vecchia
casa dell'amica non era poi così rilevante.
- Sai, siamo figli di militari. Chi più chi meno, ma in fondo siamo tutti un po'
diffidenti verso i nuovi arrivati -, le rispose, addolcendo il più possibile il tono di
voce.
Ma presto il tono si fece canzonatorio.
- Per esempio: li vedi quelli? -, disse, indicando senza farsene accorgere il gruppo di
Brad e Josh dall'altra parte del cortile.
- Si -, rispose Dana, ampliando il sorriso.
- Quelli sono i ragazzi da evitare. Prima di rivolgerti la parola devono sapere il tuo
cognome, il nome e il grado di tuo padre, quante medaglie ha vinto, di quanti e quali
elementi è composta la tua famiglia e se sei disposta ad una folle notte d'amore con uno
di loro, che alla fine si rivelerà un vero e proprio fiasco! -.
Risero, divertite.
- E quello chi è? -, chiese Dana, indicando la panchina da dove Sam l'aveva notata cinque
minuti prima.
- Quello è Jeff mio fratello
-, rispose, lasciando che la voce le si spegnesse in
gola.
- Avrei detto che era il tuo ragazzo! -, esclamò Dana, ingenuamente.
- Beh, non siamo proprio fratelli, ma viviamo nella stessa casa, quindi
-, si
affrettò a puntualizzare.
- Ah
-, sussurrò Dana, con un leggero velo di curiosità negli occhi. Ma non era
indiscreta e non voleva sapere altro. Quando sarebbe stato il momento, se mai ci fosse
stata l'occasione, Sam le avrebbe spiegato.
Jeff li notò ai margini del cortile: vestiti scuri, occhiali da sole. Andavano sempre in
giro in coppia.
Si guardavano intorno, poi tornavano a fissare Sam che, ignara, continuava a chiacchierare
con la nuova arrivata.
Quando si accorsero che li stava guardando, si scambiarono un paio di parole e quindi si
dileguarono, inosservati.
Sorrise amaramente nel sentire le risate di Sam.
Sperava solo che tutto questo finisse in fretta.
Non voleva aprire gli occhi, non voleva vedere quello che le stava intorno. Già sentirlo
era un supplizio.
Accanto a lei doveva esserci un bambino molto piccolo: piangeva e chiamava la mamma.
"Beato tu che la ricordi!", pensò Sam, stringendo gli occhi.
Tutt'intorno si sentivano le voci degli altri bambini, alcuni più piccoli, più numerosi
quelli più grandi.
"Cosa ci faccio qui? E' qui che mi portano tutte le volte? Come mai non me lo
ricordavo?".
Nel formulare quella domanda a se stessa, Sam aveva aperto gli occhi.
La stanza era completamente bianca. Avvertì freddo, istantaneamente. Si accarezzò le
braccia nude. Indossava solo una vestaglia da ospedale, verde, probabilmente l'ultimo
modello d Valentino o Armani. I piedi erano scalzi e gelati.
Si mise seduta e si guardò intorno.
Era stata sistemata su una specie di tavolo da sala operatoria. Anche gli altri erano
nella sua stessa situazione. Erano soli. Alcuni dormivano ancora, altri si stavano
svegliando in quel momento, come lei.
Nella stanza non c'erano finestre. Probabilmente si trovavano sottoterra.
Si sentì tirare per il camice. Un bambinetto con gli occhi gonfi di disperazione era
accanto a lei, la guardava supplichevole. Capiva perché si era rivolto a lei: era la più
grande lì dentro.
Senza dire una parola lo prese in braccio e lo strinse, capendo che non voleva altro da
lei.
E mentre gli accarezzava i capelli arruffati, capì che quel bambino era lì per la prima
volta.
E anche lei era stata lì, anni prima, dopo che l'avevano portata via da casa sua.
Li avevano presi tutti, li avevano divisi in gruppi, i bambini da una parte, gli adulti
dall'altra. E lei aveva pianto tutto il tempo, chiamando suo fratello. E c'era stato
qualcuno che si era preso cura di lei proprio come stava facendo adesso con quel bambino
terrorizzato.
Ed era stato allora che aveva incontrato Cassandra Spender per la prima volta, quando era
ancora giovane e bella, e quando suo marito aveva deciso che era arrivato il momento di
contribuire "concretamente" al Progetto.
Fu percorsa da un brivido: ricordare tutte quelle cose, tutte insieme, le aveva succhiato
via le energie.
Credette di perdere l'equilibrio e rovinare a terra, trascinando con sé il ragazzino, ma
fu proprio lui a impedire ad entrambi di cadere, aggrappandosi alla sponda opposta del
lettino.
Lo guardò, placando il suo sguardo preoccupato con un sorriso un po' imbarazzato.
Entrarono i "dottori".
E Sam sapeva di averli già visti, anzi, le erano talmente familiari che, se si fosse
sforzata un po' di più, sapeva che avrebbe persino ricordato i loro nomi. Come ricordava
il limpido sentimento di odio che aveva sempre associato alle loro facce.
Furono sorpresi e un po' disorientati nel trovarla sveglia. "Spiacente, ragazzi,
pensò, il sonnifero o qualsiasi altra schifezza mi iniettiate nel corpo comincia a non
fare più effetto!".
Hanno paura di me. Hanno paura di pensare quando ci sono io, quando sono sveglia. Se li
guardo negli occhi distolgono lo sguardo.
Non lo intuiva o ipotizzava, lo sapeva e basta.
Uno di loro la fece uscire dalla stanza, la precedette lungo corridoi porte anonime e
pesanti, stanze deserte, in cui stavano altri lettini in acciaio, sedie spoglie, mensole
vuote.
Le fredde e bianche luci al neon rendevano tutto irreale e onirico, come in un incubo. Un
incubo a lei molto familiare. Avvertiva chiaramente la certezza che, se l'avesse
abbandonata lì, in quel momento, avrebbe trovato da sola la strada per uscire.
Dietro l'ennesima porta il panorama cambiò d'improvviso: moquette sul pavimento,
riproduzioni di miniature famose alle pareti, luci soffuse e calde, vetrate luminose,
scaffali popolati da libri e riviste mediche e scientifiche, piante vivaci e colorate. Lì
non c'era mai stata.
Un lungo corridoio, una porta solitaria e anonima. Era la stanza riservata ai presidenti
delle grandi compagnie, al capo di "Mission: Impossibile" in televisione. L'uomo
che la scortava aveva paura di entrare in quella stanza. Allora, come mai lei non ne
aveva?
L'uomo aveva bussato, erano entrati. Lui si era subito spostato sulla destra, lasciando
libero il suo campo visivo, perché vedesse e fosse vista dalle persone che occupavano la
stanza.
Un uomo anziano, così sembrava ai suoi occhi giovani, stava seduto dietro la scrivania,
su una poltrona di pelle nera; un uomo di qualche anno più giovane stava in piedi
affianco a lui; altri uomini stavano, in piedi o seduti su poltrone, sul lato sinistro
della stanza, in grappolo intorno ad un tavolino da caffè. Non ne riconosceva nessuno.
La sua attenzione si concentrò sull'uomo accanto al "presidente": non aveva lo
sguardo spietato e ruffiano degli altri, ma soprattutto, era l'unico lì dentro che non
aveva paura di lei. Anzi, c'era solidarietà e compassione nei suoi occhi, nel suo modo di
piegare la testa da un lato.
Dall'uomo seduto sulla poltrona di pelle nera veniva disappunto. La guardava con occhi
acquosi e spietati. Le sue labbra a cuore si sporgevano in fuori, come di un moccioso che
tiene il broncio.
Era scontento di lei. Non vedeva alcun progresso.
Una fredda sensazione le arrivò dal gruppo di uomini nella penombra del salottino. Seduto
sul divanetto stava un terzo uomo, silenzioso, che non l'aveva degnata di uno sguardo da
quando era entrata: a quanto pare le preferiva la sua cravatta a righe blu e argento.
Stava prendendo tempo: come fanno gli scimpanzé quando si grattano la testa, indecisi sul
da farsi. E, al momento giusto, avrebbe fatto la sua entrata.
Non ho paura: forse dovrei averne, ma non la cercherò: è quello che loro si aspettano.
- Samantha
-, disse il capo, invitandola con la mano ad occupare la sedia che stava
davanti alla scrivania. Sam lanciò uno sguardo di assoluta indifferenza alla sedia, ma
non si sedette.
Il secondo uomo sorrise impercettibilmente.
Allora il capo si fece ancora più ostile.
- Immagino tu sappia, o intuisca, ciò che succede qui, ciò che succede a te -, iniziò,
guardandola fisse negli occhi. Non temeva quello sguardo e lo sostenne.
Al silenziò ostinato di Sam, il primo uomo si spazientì visibilmente. Gli altri si
avvicinarono, tutti, tranne il terzo uomo.
- Potremmo domandarle qualcosa, per saggiare le sua capacità -, fece uno, timorosamente.
- Si, potremmo iniziare con i test di verifica -, incalzò un altro, più sicuro.
Il primo li zittì con un gesto della mano; sembrava pensieroso.
Tornò a guardarla.
- Tu che ne pensi Sam? Ti senti pronta? -, le chiese, sinuoso e viscido come un serpente.
Sam non parlò.
- Rifiuta di collaborare: non sappiamo quanto ricordi. E non sappiamo nemmeno quanto
sappia, attualmente -.
- Siamo di fronte ad un fallimento, signori, bisogna ammetterlo. Il soggetto ci è
sfuggito di mano -.
- La chiami soggetto, come se non l'avessi mai tenuta sulle ginocchia durante le grigliate
del quattro luglio quando aveva appena tre anni! -, lo rimbrottò l'uomo che era dietro
alla scrivania finché Sam era stata in quella stanza.
- Ora le cose stanno in modo diverso; il Progetto è ad una svolta. Abbiamo già due
soggetti sotto osservazione; altri ne verranno. Non sono così pessimista come tu sostieni
-, concluse l'uomo che tanto amava la sua cravatta.
Non si chiamavano mai per nome: la prudenza non era mai troppa.
- Non avevamo previsto questo. Con lo sviluppo puberale e l'inizio della produzione di
ormoni, il soggetto ha cominciato a reagire in modo inaspettato ai medicinali inibitori.
In più, l'azione combinata di estrogene e progesterone rende il soggetto instabile e
quindi imprevedibile -.
- Dottore, -, il giovane si girò verso il terzo uomo. Non era uno degli uomini che Sam
aveva riconosciuto nel laboratorio. Ma il suo camice bianco lasciava intuire che l'avrebbe
riconosciuto se lo avesse visto.
- Lei ha seguito il soggetto dall'inizio
-.
- Si, sono ormai sei anni -, puntualizzò, senza nascondere un certo rammarico. Come se
provasse vergogna e fosse pronto al pentimento.
- Come mai non aveva previsto questo? Voglio dire, era inevitabile che la ragazzina
iniziasse a diventare donna, prima o poi! -, esclamò, guardandosi intorno con un sorriso
stupito. Lo stava ridicolizzando, e provava un piacere indescrivibile nel farlo.
- Se leggete con attenzione la breve relazione che ho steso e sviluppato -, disse,
scoccando un'occhiata gelida all'uomo che lo aveva appena deriso, - potrete capire i
motivi che ci hanno reso impossibile prevedere questo sviluppo inaspettato. Contro di noi
lavoravano anni di ricerche su soggetti femminili presi in età già matura sessualmente e
che non avevano dato che riscontri positivi, sebbene gli interventi siano poi risultati
fallimentari a causa di altri imprevisti. Comunque, non esistevano avvisaglie
dell'impossibilità pratica di lavorare su soggetti allo stadio pre-adolescenziale. Gli
ormoni prodotti da un soggetto femminile adulto sono minori e meno instabili di quelli
prodotti da un'adolescente. Questa è la prima ipotesi che possa giustificare
-,
rimase a corto di parole.
-
il vostro errore -, concluse ancora il terzo uomo, con lo guardo perso tra le
righe dell'opuscolo.
- Già
-, mormorò il giovane, pensieroso.
- Volete dire che, fino ad adesso, non avete mai portato un soggetto allo stadio
pre-adolescenziale? -, chiese uno di quelli che si perdeva nel gruppo.
Il giovane rimase in silenzio, come se soppesasse le parole e valutasse le migliori da
usare.
- Eravamo sempre stati sfortunati. I precedenti test con i bambini si erano rivelati
inattendibili e non è mai stato possibile portarli a termine
-, sembrava non voler
finire la frase, non spiegare oltre.
- Cosa intende dire? -, insistette l'uomo.
Faticosamente ricominciò a parlare.
- I bambini tendono a diventare apatici e rifiutano di collaborare. Non reagiscono agli
stimoli esterni e piano, piano si lasciano andare -, disse, in un soffio.
- Non capisco -, esclamò un altro, perplesso.
- Si lasciano morire -, concluse faticosamente il ricercatore.
Un silenzio di tomba piombò nella stanza, come una colonna d'acqua in una nave che
affonda.
"Si, " pensò, "si lasciano morire. Quando capiscono cosa stanno
diventando, preferiscono smettere di esistere. Capiscono che non rivedranno più mamma e
papà, forse, o, peggio, sentono che stanno cambiando e ne hanno paura. Hanno paura che i
loro genitori vedano cosa sono diventati".
Fino ad ora, solo Sam non aveva fatto quella triste scelta. Probabilmente perché, con
lei, aveva adottato un metodo diverso, inibendo la sua memoria con l'ipnosi e l'azione
combinata di alcuni farmaci sperimentali.
Ma adesso, a metà del processo di ibridazione, Sam aveva cominciato a ricordare.
Non se la sentiva, comunque, di essere così pessimista.
Sapeva che Sam avrebbe lasciato il laboratorio, prima o poi, e di questo era quasi felice,
anche se era stato il suo primo, vero successo.
"Devi cominciare a muoverti con le tue gambe, Sam".
Non vedeva Sam come un fallimento, ma come la sua occasione di riscatto.
"Da qualche parte, fuori di qui, c'è tutto un mondo per te, Sam. E tu puoi
mettertelo in tasca.".
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PRIMA PARTE - PRIGIONIA
CAPITOLO 6: Se qualcosa dovesse andare storto
- Venti anni fa l'energia rinnovabile era generalmente prodotta ad un costo molto alto e
in un modo inefficiente.
L'avanzato potere del sistema di distribuzione dei componenti e i materiali
superconduttori delle alte temperature ancora non esistevano, e il settore dei carburanti
alternativi era davvero immaturo.
Abbiamo fatto tanta strada da allora -.
Dan Reicher fece una pausa, nella quale sembrava calibrare con gli sguardi quanto il suo
discorso introduttivo avesse colpito i presenti.
Ricevendo un profondo ed eloquente silenzio, sorrise impercettibilmente, autocompiacendosi
delle sue capacità oratorie, e ricominciò a parlare, ripercorrendo la storia
dell'energia elettrica prima, e dell'etanolo poi.
L'uomo in fondo alla sala si allontanò non visto, dirigendosi nel salone del buffet, dove
altri partecipanti la convention attendevano l'inizio della premiazione finale.
Ormai la manifestazione si avvicinava alla conclusione. La relazione di Reicher
rappresentava l'ultimo, grande appuntamento per i presenti e quindi ci sarebbero state le
premiazioni finali, la consegna dei vari riconoscimenti (e sapeva che Reicher aveva già
trovato il posto per il suo sulla mensola del camino).
La persona che voleva incontrare non stava tanto distante da lui, ma l'aveva astutamente
aggirata non visto per tutta la durata del meeting, aspettando il momento giusto per
rivelarsi e rivelare anche le sue intenzioni. O almeno una parte.
Ora la sua "vittima" era sola.
- Takeshi! -, esclamò, portandosi dall'altro lato della stanza, protendendo le braccia
come di chi si aspetta un abbraccio e allargando il viso in un ampio, costosissimo
sorriso.
L'industriale si sentì disorientato, sentendosi chiamare per nome, convinto com'era che
nessuno sapesse che lui era lì.
Si girò e la sua sorpresa aumentò nel vedere chi si trovava davanti.
- Cliff
. -, cominciò, ma nel panico non sapeva cos'altro aggiungere.
- E' dall'Aprile '99 che non ci si vede. Da quella noiosissima conferenza di Dan sui costi
dell'energia solare. Tutti quei numeri e quelle statistiche mi avevano ubriacato! E
pensare che aveva persino ricevuto un riconoscimento per le sue ricerche! -.
Sorrideva apparentemente noncurante del velo di terrore che scendeva sul viso di Totoki.
Aveva la ferma intenzione di spremerlo come un limone.
- Come prosegue il tuo team di ricerca? Stanno ancora lavorando con l'olio di semi di
grano? -.
Conosceva già la risposta, ma voleva che fosse l'avversario a decretare il proprio
fallimento ad alta voce.
- Beh, abbiamo avuto dei contrattempi, ma stiamo tamponando le perdite con grandi
risultati, direi. Non posso nascondere che nel mio centro di ricerca e sviluppo sono
entrati alcuni tra i più grandi ricercatori e studiosi del mondo
-, abbassò lo
sguardo e si guardò intorno. Bastò quel gesto per annullare tutto l'ottimismo delle sue
affermazioni.
Hassani sorrise senza riuscire ad impedirselo. Sapeva che Totoki aveva avuto una soffiata
a Dallas a proposito di alcuni scavi e che era stato estratto dell'olio di semi di grano
che aveva risvegliato l'interesse della Roush e persino delle autorità. Incosciente e
impulsivo, alla ricerca di sponsor per la sua campagna ecologica, aveva fatto di tutto per
riuscire ad impadronirsi di quelle autocisterne: era convinto, in un'era in cui si faceva
a gara per chi sarebbe riuscito per primo a sintetizzare il biocarburante meno costoso e
più potente, che le sue quotazioni sarebbero andate alle stelle e lui avrebbe avuto
risorse sufficienti per altri progetti, altre ricerche.
Non si era nemmeno chiesto quale fosse l'origine di quell'olio.
E ora tutti i membri del suo staff stavano morendo.
- Ti interessano davvero i costi dei metodi per ricavare energia elettrica dall'azione del
vento, Krycek?-, chiese Mulder, osservando il cartellone che illustrava i temi e gli
ospiti della conferenza che, ormai, era agli sgoccioli.
- Da qualche parte dovremo pur cominciare, non ti pare? -, rispose Krycek, laconico, senza
dare ulteriori spiegazioni.
Mulder ebbe l'impressione che in passato la situazione fra loro due fosse ben diversa,
quando entrambi indossavano completi giacca e cravatta e andavano in giro a fare domande.
Si era fermato ad osservare una mappa barometrica degli Stati Uniti. Denver risultava zona
ideale per gli esperimenti col vento effettuati dai team di studiosi che venivano citati
nelle varie foto che tappezzavano il salone della hall dell'albergo.
Quando aveva sollevato lo sguardo, si era accorto che Krycek era sgattaiolato nella sala
successiva, separata dalla precedente solo da una pesante tenda in velluto rosso. Si
accostò alla tenda.
Nella sala era stato allestito un buffet ricco, ormai completamente saccheggiato. Si
scoprì affamato, ma capiva che non era ancora il momento di mescolarsi alla gente. Le
persone, per lo più uomini di mezza età, si raccoglievano a piccoli gruppetti e
chiacchieravano sommessamente fra loro. Discreto e silenzioso, Krycek scivolava lungo la
parete destra della stanza, inosservato e pericoloso.
Una lucertola.
Mulder capì che la persona che stava cercando non era in quella stanza, ma che
probabilmente c'era stata poco prima.
Qualcosa attirò la sua attenzione: un uomo, sicuramente un orientale, aveva notato Krycek
avvicinarsi e si era subito tirato in disparte, come se volesse scomparire nel muro dietro
di lui. Sembrava stesse parlando con qualcuno solo pochi secondi prima.
Gli era capitato che, parlando con qualcuno, questi gli dicesse:"Ehi, guarda chi
c'è?" e dopo essersi voltato per vedere chi stava arrivando, si accorgesse che la
persona con cui stava parlando fosse sparita nel nulla.
Mulder spostò lo sguardo su Krycek per vedere se anche lui aveva notato lo strano
comportamento dell'uomo.
Krycek ebbe con lo spaventato industriale giapponese un dialogo breve e affettato. Capiva
che quest'ultimo aveva paura del suo compagno: muoveva la testa per assentire o
dissentire, gli occhi sbarrati, le mani penzoloni lungo i fianchi.
Krycek sembrava nervoso per ben altri motivi: si guardava intorno furtivo, sospettoso, e
quindi tornava a fissarlo come se avesse intenzione di divorarlo se avesse detto qualcosa
di sbagliato.
Alla fine era tornato verso di lui, attraversando la sala.
- Alla reception sapranno sicuramente dove si trova -.
- Il chi e il perché sono particolari superflui che avrai cura di spiegarmi più tardi,
immagino -, disse Mulder, sarcastico. Il non sapere cosa stesse succedendo lo rendeva
cattivo.
Krycek lo guardò con disgusto per la battuta, quindi si era avvicinato al bancone.
- Mi scusi, il sig. Hassani in quale stanza alloggia, per favore? -, chiese alla
signorina, sfoderando un sorriso e una voce che non gli calzavano affatto.
La ragazza li aveva guardati per un attimo, come inebetita, quindi si era curvata a
studiare il registro.
- Mi spiace, non c'è nessuna stanza registrata a nome Hassani -.
Krycek si era voltato, dando le spalle alla impiegata.
- Quel bastardo ha usato un altro nome. Allora è qui di sua iniziativa, non lo manda la
Roush! Beh, avrei dovuto immaginarmelo -.
Parlava più tra sé che con Mulder, che sembrava sempre più spaesato.
- Beh, vediamo se ricordo uno dei suoi nomi più usati
-.
Si era voltato, tornando a prestare tutta la sua attenzione alla ragazza.
- E sotto Holmes c'è niente? -, questa volta il tono era un po' meno gentile di quello
precedente.
- Holmes
niente signore, mi spiace -.
- Petersen? -
La ragazza sembrava meno propensa a cercare anche quest'ultimo possibile ospite. Ma lo
fece, era il suo lavoro.
- Eccolo, qui. Petersen, Gabriel. Stanza 575 -.
Si era voltata per vedere se il pass era appeso al suo posto.
- Il Sig. Petersen è salito in camera, signori. Volete che vi faccia annunciare? -, e
già stava prendendo il citofono.
- No, grazie, non serve -, si era affrettato a rispondere Krycek, mentre già si stava
avviando verso gli ascensori.
Quando furono sufficientemente distanti, Mulder lo punzecchiò di nuovo.
- Questo sig. Hassani/Holmes/Petersen deve essere un tuo caro amico se sparisce appena ti
fai vivo! -.
- Stai a guardare come si accoglie un vecchio amico! -.
- Bussa. Se ti chiede chi sei, diglielo -.
- Caspita, se non me lo avessi detto tu, non so se ci sarei arrivato! -.
- Piantala Mulder, e fai come ti dico -.
Si era reso conto che quella sosta doveva essere qualcosa di più che un giro turistico
per Denver.
Stavano ascoltando il notiziario alla radio (non avevano ascoltato altro. Sembrava che
Krycek cercasse proprio quella notizia). Al sentire che a Denver c'era il WindPACT
Industry Workshop, Krycek aveva improvvisamente deciso che dovevano farci un passaggio. E
da quel momento l'umore dell'uomo era cambiato radicalmente. Sembrava proprio che qualcosa
fosse andato storto.
Aveva bussato, ma non c'era stata risposta.
Aveva bussato di nuovo. Uno scatto, e la porta si era socchiusa.
Con un secco colpo delle dita l'aveva spalancata, ma se n'era rimasto indietro, prudente.
La stanza era immersa nell'oscurità.
Ovazioni venivano dall'auditorium dell'albergo.
Vide che Krycek infilava il braccio nella tasca interna della giacca. "Allora sei
armato", aveva pensato Mulder, con un sorriso amaro appena accennato.
Potevano rimanere cristallizzati in quella situazione, fermi come erano in quel momento
per sempre, ma Mulder voleva vedere la conclusione della storia.
- Signor Hassani, sono Fox Mulder. Posso entrare? -, solo lui si accorse del tremolio
della voce, o almeno così sperava.
Sentì un sospiro. Quindi una voce.
- Si, prego -.
Sapeva che non c'era di che fidarsi, ma cosa poteva fare?
- Non sono armato. Non abbia paura -.
"Non io, almeno. Ma qui c'è qualcuno che lo è senza sapere di esserlo, a quanto
pare".
Allungò un passo fino al vano, lasciando lì il piede per qualche secondo.
Non percependo alcun movimento sospetto, si era proteso anche con il resto del corpo,
lasciando indietro la testa.
- Io non ho paura, ma a quanto pare lei ne ha, Sig. Mulder -, disse una voce dal fondo
della stanza.
Nella penombra si intravedeva la sagoma di qualcuno seduto su una poltrona, probabilmente
in pelle.
- La ragazza è coscienziosa e diligente, non le pare? -.
Mentre Mulder cercava di mettere a fuoco nella sua mente questa ultima informazione,
Krycek sgattaiolò nell'entrata, portandosi con le spalle al muro.
La figura nell'ombra si alzò bruscamente, fulminea fu su Mulder, che emise un verso
strozzato quando Hassani lo prese per un braccio.
Si sentiva in dovere di giustificare la sua disattenzione a se stesso con la mancanza di
allenamento. E subito si ritrovò a chiedersi che genere di allenamento fosse.
- Sei docile e arrendevole come un topolino, Mulder. Mi aspettavo qualcosa di più da te-.
- Mi spiace deluderla, vedrò di guardare più puntate di Miami Vice!-.
Dopo un attimo di smarrimento, Hassani sembrò capire cosa era successo a Mulder. Rise
sommessamente.
- Krycek, a quanto pare non hai proprio niente di valido in mano! -
Mulder si voltò, pensando per un attimo di poter vedere il volto del ragazzo e quindi
capire a cosa Hassani faceva riferimento. Ma Krycek si era infilato in un angolo buio e se
ne poteva solo sentire il respiro affannato. Era ancora più nervoso di prima.
- Credo tu stia sottovalutando la sua capacità di recupero! -.
Mulder capiva che stavano parlando di lui.
Ci fu un lungo interminabile momento di silenzio, in cui nemmeno si potevano distinguere i
diversi respiri.
Fu Krycek il primo a parlare.
- Dov'è? -.
- Non lo so. L' hanno fatta sparire in fretta dopo il tuo passaggio -; quindi aggiunse:
- Totoki è nei guai, Krycek, molto più di quanto dia a vedere. E' nervoso, agitato. Non
è detto che vada dai federali, o addirittura da Scully, per risolvere i propri problemi.
-.
- Cosa ti fa credere che andrà proprio da lei?-.
- Lei sa come comportarsi di fronte al virus -.
- Non sono ancora riusciti a sviluppare il vaccino. Sono io quello che ha tutte le carte
buone in mano -.
- Ah, si, quel lavoretto per i russi
Tu lavori troppo, Alex Krycek. Mi ricordi
tanto un giocoliere che cerca di tenere in equilibrio tanti oggetti, di diversa forma e
dimensione. Solo che non mi sembri molto abile -, disse, quasi sogghignando. Mulder poteva
sentire il suo sorriso fra le pieghe delle parole.
- E poi, la tua merce di scambio è in mano mia, ora -.
- Non sai nemmeno quali siano le sue reali potenzialità, Hassani. Non bluffare con me, io
sono qui da molto più tempo di te -.
- Beh, sulle sue capacità rimane tutto da vedere -.
- Hai intenzione di andare avanti per molto, o ci vuoi dire dove si trova l'auto? -,
esclamò Krycek, all'improvviso. Sembrava che stesse perdendo la pazienza. E Mulder era
convinto di ricordare che, quando Krycek perdeva la pazienza, diventava veramente poco
simpatico.
Un sospiro. Un secondo di silenzio.
- E' in viaggio, Alex. E' partita da Dallas a bordo di un autotreno. Sta tornando ai
legittimi proprietari -.
- Bene, se ora vuoi lasciare andare il braccio del mio partner
-.
La presa di Hassani sulla spalla si allentò. Anche la canna della pistola si allontanò
dal suo fianco.
- Tanto mi sembra che non faccia molta differenza -.
Mulder si girò verso l'uomo, ancora l'oscurità ad impedirgli di vederlo in volto. Ma
probabilmente non lo conosceva. Probabilmente.
Troppe persone lo conoscevano senza che lui si ricordasse di averne mai incontrata
qualcuna.
- E' pretendere troppo chiedere una spiegazione per le pistole, le frasi a metà, e i
riferimenti nemmeno troppo velati alla mia persona?!? -, chiedeva Mulder, mentre, di nuovo
in macchina, ripartivano per non si sa dove.
- Totoki è un industriale che, senza saperne niente,si è messo a produrre
bio-combustibile. Sfortunatamente per lui, ha usato del materiale altamente tossico e ora
tutti i membri della sua equipe stanno morendo -.
Mulder dimenticò per un attimo le sue richieste.
- Morendo? Che razza di sostanze hanno usato? -.
- Diciamo che si tratta di olio vegetale scaduto -.
Krycek accennò un sorriso. Mulder ne era disgustato.
- L'auto che devo recuperare è un'auto sperimentale, non ancora sul mercato, e che brucia
combustibile altamente innovativo. Se entra in commercio e la General Motors inizia a
produrla in serie, sbaraglieranno la concorrenza, sia per quanto riguarda le auto, che per
quanto riguarda la ricerca -.
- Cos' ha di particolare quest'automobile? -, chiese Mulder, incerto.
- Vale un milione di dollari -, rispose Krycek, con una punta di autocompiacimento.
Mulder lo studiò per forse tre secondi, in silenzio, sbattendo le palpebre come chi non
crede ai propri occhi.
- Tu l'avevi rubata. E' questa la merce di cui parlava il Duca, non è vero? -.
Krycek non rispose, ma a Mulder non servivano altre conferme.
Ma cosa se ne poteva fare un tipo così di un' auto da un milione di dollari?
Krycek salutò l'uomo alla pompa di benzina e rientrò in auto.
- Cavoli, sono stati furbi. Non avrei mai sospettato che avrebbero riportato l'auto
all'ovile! Si trova a Detroit, in un magazzino non ben identificato. Ma riusciremo a
sapere quale -, rise compiaciuto.
Mulder si chiese come mai sembrava così soddisfatto.
- Cosa ti fa credere che non sia una trappola? Una auto del genere deve far gola ad una
sacco di gente-.
- Non lo credo affatto. Anzi, in effetti, è una trappola. Ma ce la caveremo alla grande,
vedrai! -, concluse, dandogli una pacca sulla spalla.
Mulder non si sentiva così ottimista.
- E adesso cosa facciamo? -.
- Ho saputo da fonte certa che stasera c'è una specie di gala alla General Motors,
proprio per illustrare le prestazioni della nuova auto ai maggiori azionisti, prima che
venga presentata alla stampa entro la fine del duemila. Noi saremo là, giusto per far
vedere a Waganer che siamo da queste parti! -.
- Non capisco perché ami tanto metterti così in mostra! -, sibilò Mulder, inquieto.
"Forza Cenerentola, corri alla festa. E ricorda: a mezzanotte la carrozza si
trasformerà in zucca!".
Aveva perso un po' della sua manualità in quei giorni? Mesi?
che era stato
"fuori dai giochi" e allacciare quella dannata cravatta si rivelava più
difficile che correre nella foresta inseguito dai poliziotti.
- Siamo in ritardo! -.
Krycek aveva socchiuso appena la porta infilando dentro la testa.
Poi, un po' imbarazzato, entrò nella stanza reggendo la propria cravatta nella mano e
facendo cenno di porgergliela.
- Una cosa che non ho ancora imparato a fare con una mano sola -, disse grattandosi la
testa.
Mulder, altrettanto imbarazzato, prese la cravatta e aiutò l'uomo.
- Come è successo? -.
- Eravamo in Russia, io e te. Alcuni ragazzi erano convinti che bastasse tagliarsi un
braccio per sfuggire agli esperimenti! -.
Una risata liquida e amara gli scivolò tra le labbra socchiuse. Mulder si sorprese
dispiaciuto. Capiva che Krycek non ne voleva parlare.
Finì di sistemargli la cravatta.
- Cosa in questa auto vale così tanto? -.
Krycek si sedette sul letto. Lui si girò di nuovo verso lo specchio, non ancora
soddisfatto del proprio lavoro.
- Beh, con questa auto siamo avanti rispetto ai giapponesi di almeno dieci anni. Già la
Toyota ha dotato le proprie auto con un sistema di monitoraggio del traffico, detto Monet.
Ci sono auto che "dialogano" fra loro e si informano sullo stato del traffico,
sulla presenza di ostacoli, cose così. Ma non si era mai visto niente come questa nuova
automobile fin'ora. E' dotata di un computer di bordo altamente sofisticato, collegamento
internet, sistema di auto-parcheggio e pilota automatico che entra in funzione da solo
appena vengono rilevati pericoli, nel caso in cui il guidatore non abbia avuto la
prontezza di sterzare o frenare. Ma queste sono alcune delle cose. Non sono un tecnico,
non so tutto quello che quell'auto è in grado di fare -.
- E quante sono le persone che ti hanno commissionato il furto? -.
Mulder si era girato, il nodo alla cravatta, ora, era perfetto.
Krycek sembrò per un attimo disorientato.
- Sono venuti da me in tre: Hassani, Totoki e La Signora -.
- Li hai fregati tutti e tre, non è vero? Ecco perché sei così nervoso: nessuno di loro
avrà quell'auto, non da te, per lo meno. E per questo ti stanno incollati al culo: per
impedirti di dartela a gambe -.
Krycek incurvò un lato della bocca verso l'alto, compiaciuto.
- Bidibi Bodibi bu! -.
- Né motori né carburanti alternativi: troppo costosi. Da qui al 2010 solo l' 1% dei
mezzi di trasporto utilizzerà carburanti alternativi. E' questo il commento di Paul Leiby
dell' Oak
-.
Mulder sprofondò la testa nelle spalle, rivolgendo il viso dalla parte opposta rispetto
al telecronista.
- Ci sono i giornalisti! Ma sei pazzo a portarmi qui? E se la mia foto finisse si
giornali? E se qualcuno mi riconoscesse?!? -.
Krycek non capiva il motivo di tanta agitazione.
- Qualcosa ti turba, Mulder? -, fece, con un atteggiamento tutt'altro che premuroso.
- Qualcuno mi sta dando la caccia. Non so chi sia, non l' ho nemmeno visto in faccia. Ma
sono pronti ad uccidere per prendermi, questo è certo -.
- La tua fedina penale è pulita. Chiunque ti voglia non è dei buoni, Mulder, e
sicuramente sa dove ti trovi -.
- Mi hai tranquillizzato, grazie -, esclamò l'uomo, sarcastico.
La folla di gente "che conta" si era raccolta davanti all'entrata dell'albergo,
in paziente e rumorosa attesa che gli uomini della sicurezza supervisionassero inviti e
documenti.
- Parlami del tizio che ci ha procurato gli inviti -.
Krycek sorrise divertito.
- Falsario di professione. Lavora alla Roush da parecchio tempo: si occupa di falsificare
i documenti per gli altri dipendenti. Ovviamente mi doveva un favore -.
- Sembra sempre di più una puntata di "Mission: impossibile"! -, disse Mulder
fra i denti.
- Quanto tempo dovremmo rimanere qui? -, chiese poi, studiando di soppiatto gli altri
invitati.
Krycek rispondeva sempre senza guardarlo.
- Il minimo indispensabile perché si accorgano di noi e decidano di correre ai ripari. A
quel punto ce ne andremo di corsa -.
- Vuoi smuovere le acque, spingerli a portarsi allo scoperto, non è così? -.
Ancora quel sorriso compiaciuto.
- Quando mi vedranno, manderanno qualcuno a prendere l'auto per allontanarla da Detroit.
Quando la merce è in viaggio è più facile da intercettare -.
- Quindi andrai in giro a porgere mani, ops! Scusa, mano, e salutare tutti come fossero
tuoi vecchi amici -.
Krycek lo guardò, divertito.
- Avanti, Mulder, non essere timido! -; il sorriso di Krycek si fece insopportabilmente
ampio.
- Oh, ecco le ragazze! -, bisbigliò avidamente.
Mulder si girò nella direzione dello sguardo di Krycek. Un paio di ragazze, probabilmente
sui venticinque anni, si stavano avvicinando a loro.
Si girò verso il suo compagno, preso alla sprovvista.
Lui, prontamente, diede spiegazioni.
- Due uomini soli suscitano sospetti. Con delle donne al fianco daremo meno nell'occhio -.
- Ma non era tua intenzione farti notare, stasera? -.
- Si, ma come e quando lo decido io! -, rispose, mentre si allontanava di un paio di
passi, andando incontro alle ragazze.
- A me sembra una automobile come le altre! -.
Mulder si girò verso Amanda, sconcertato.
- A me sembra tutto il contrario, invece! -.
La ragazza sembrava quasi infastidita dalla sua affermazione e, riluttante, cominciò a
spiegare il suo punto di vista.
- All'inizio di quest'anno sia l'Europa che il Giappone si sono imposte per le loro
recenti scoperte e gli investimenti sul mercato delle automobili. In molti saloni, in giro
per il mondo, si sono tenuti convegni, mostre e prove di automobili cosiddette
"intelligenti", perché vanno da sole, hanno il collegamento internet, leggono
la posta elettronica e dialogano con le altre auto sulla strada. Pensa che ci sono
dispositivi particolari in grado di avvertire l'officina di un guasto, di leggere il
traffico o di sapere quanti posti ci sono disponibili in un parcheggio! Quest'auto non fa
niente di più o di meno rispetto a quelle progettate e in corso di test in Germania,
Francia e Giappone. Se non per il prezzo: quelle giapponesi costano la metà -.
- Probabilmente questa raccoglierà la migliore tecnologia tutta in un veicolo solo -,
rispose prontamente Mulder.
Capiva lo scetticismo di Amanda, ma se si faceva tutto questo baccano per una vettura,
c'era sicuramente un motivo.
Iniziò a studiare l'opuscolo che gli avevano consegnato all'entrata della sala. Un lungo
discorso introduttivo, in cui si spiegava che le ricerche per la nuova generazione di auto
intelligenti erano iniziate venti anni prima, e quindi una interminabile celebrazione per
illustrare le prestazioni e le innumerevoli dotazioni dell'auto che era stata ribattezzata
banalmente (o semplicemente, come sottolineava il coupon) Digital.
In effetti, nulla di nuovo all'orizzonte, cosa che comunque non si erano disturbati ad
indicare nel fascicolo.
Ma nulla avviene per caso, tutto ha una spiegazione. Se quell'auto valeva tanto, le
risposte dovevano essere altrove, non nella tecnologia delle dotazioni.
"Niente avviene in contraddizione con la natura: avviene in contraddizione con quanto
ne sappiamo noi".
"Ciò che può essere immaginato, può essere anche raggiunto".
- Avevo pronosticato che te ne saresti rimasto come un baccalà, invece vedo che ti si è
sciolta la lingua e che chiacchieri amabilmente -, gli bisbigliò Krycek all'orecchio, una
volta che le ragazze li avevano lasciati soli per avvicinarsi al buffet.
- Sono davvero così imbranato con le donne? -, chiese Mulder, incuriosito più che
infastidito.
- Con alcune -, fu la sua risposta laconica, prima di tornare a sorseggiare lo champagne
dal flute.
Stava già per chiedere ulteriori spiegazioni, ma Amanda e la sua amica furono di ritorno
con una tartina in mano.
- Allora, signore, avete trovato interessante il discorso di Waganer? -.
- Patetico! -, irruppe Cinzia.
- Mi sono quasi commossa a sentire tutti i sacrifici, i bocconi amari e le delusioni che
il suo staff ha subito nel lungo e difficile cammino verso un sicuro successo. Ancora un
paio di parole e vomitavo, giuro! -.
Le ragazze risero sommessamente, Krycek e Mulder accennarono un sorriso.
- E' arrivato il momento di fare quello per cui siamo venuti qui -, disse Krycek, dopo un
ultimo sorso di champagne e porgendo il bicchiere vuoto a Cinzia.
Salutò le ragazze e fece segno a Mulder di seguirlo.
Waganer ero intento ad intrattenere belle e ingioiellate signore con simpatici racconti su
aneddoti particolari in cui lui e il suo capace staff erano incappati nel corso degli anni
di ricerca.
Da quello che intuiva della conversazione, Mulder dedusse che il concetto che aveva
Waganer del divertimento era molto al di sotto del suo standard.
Ma Krycek era impaziente.
- Richard, finalmente ti ho trovato! -.
Il presidente della General Motors sembrò molto sorpreso di vederlo.
- A.. Alex, che piacere
. Ti è piaciuto il mio discorso? -.
Dopo un primo colpo d'occhio incerto, Waganer iniziò a far vagare lo sguardo alle
estremità della sala, pensando forse che nessuno si accorgesse del panico in cui sembrava
sprofondare attimo dopo attimo.
Ma Krycek gli era addosso, nessuno poteva ancora intuire quello che stava succedendo.
Mulder si parò tra Waganer e l'entrata principale, dove si affollavano la maggior parte
degli uomini della sicurezza.
- La tua auto è una bellezza, complimenti, non vedo l'ora che sia sul mercato per
prenotare la mia! -.
- Beh, uscirà inizialmente in versione limitata: non abbiamo ancora i mezzi per produrne
più di un certo numero
-.
Continuava la sua ricerca di rinforzi. Mulder intuì istantaneamente che non si trattava
semplicemente di una trappola. Waganer sapeva che Krycek sarebbe venuto lì quella sera e
aveva dato disposizione ai suoi uomini perché non lo facessero entrare, o, alla peggio,
che lo tenessero lontano da lui. E se lo avessero beccato ad importunarlo
.
Un uomo sulla parete a est della sala si era portato una mano all'orecchio, quindi si era
dileguato in un corridoio secondario.
- Krycek
. -, fece Mulder, interrompendo il compagno nel suo discorso disturbatore.
L'uomo si girò, senza bisogno di ulteriori spiegazioni lesse negli occhi di Mulder quello
che stava succedendo.
- Beh, ora ci dobbiamo proprio salutare, Richard. Stiamo facendo aspettare le nostre
signore! -.
I due attraversarono la sala per raggiungere l'uomo misterioso che tanto in fretta si era
allontanato dal gala.
- Che aspetto aveva? -, chiese Krycek.
- Normale. Alto più o meno come me, moro, abbronzato. Sembrava italiano o spagnolo.
Vestito di scuro, cravatta. Il classico agente di sicurezza, insomma -.
Due nerborute guardie del corpo si pararono loro davanti e quasi Mulder era andato a
sbattere loro addosso.
- Spiacente, questa zona è inaccessibile agli ospiti della conferenza -.
- Stavamo cercando la toilette -, si affrettò a precisare Mulder.
- E comunque il signor Waganer ci ha assicurato che
. -, intervenne Krycek.
- Il Signor Waganer ha palesemente richiesto che veniate allontanati dall'albergo,
immediatamente -.
- Abbiamo dei regolari inviti. Non potete allontanarci contro la nostra volontà -,
insistette Krycek.
- O uscite con le vostre gambe, signori, o saremo costretti ad accompagnarvi -.
- Un uomo che sta partecipando alla conferenza si è appena allontanato in quella
direzione! -, disse Mulder.
- Credo che vi stiate confondendo, signori. Vi preghiamo di seguirci -.
Uno a testa, li presero per gli avambracci e li portarono di peso fino all'entrata
dell'albergo.
Là c'erano decine di reporter e giornalisti che aspettavano l'uscita dei primi ospiti per
intervistarli e fare alcune foto.
Un flash illuminò la scena di Mulder spinto al di là della porta dall'agente di
sicurezza.
- Questo si che è farsi notare, eh? -, esclamò acido.
- Sarà il caso di comprare il giornale di domani, che ne dici? -, commentò Krycek.
Si allontanarono assediati dai reporter che continuavano a scattare, mentre i cronisti
tentavano invano di strappare dichiarazioni.
- Non mi è mai piaciuto essere popolare
. Dove sarà andato quell'uomo? -.
Quasi in risposta alla domanda di Mulder, un'auto si allontanò in tutta fretta e
indisturbata verso l'uscita del parcheggio.
I due si misero a correre attraverso il prato che circondava l'albergo.
Il vialetto di accesso all'albergo girava tutto intorno al giardino per poi dirigersi
verso nord, in direzione porto.
Nella concitazione della corsa, Mulder non si era reso conto di aver estratto la pistola.
- Mira alle ruote! -, gli aveva urlato Krycek.
Rispondendo ad un istinto che non pensava di sentire così suo, Mulder si era fermato,
aveva preso la mira e, sorprendentemente, aveva colpito la ruota anteriore destra.
L'auto aveva perso il controllo ed era andata a sbattere contro il albero.
Scattò l'airbag.
- Bel colpo! -, esclamò Krycek, una volta raggiunto Mulder, dandogli l'ennesima pacca
sulla spalla.
- Ora muoviamoci! Io lo tiro fuori, tu va a prendere la nostra auto -, aggiunse, mentre
Mulder, ancora incredulo, guardava l'arma che aveva in mano.
- Viene da chiedersi che razza di lavoro facessi prima! -, pensò ad alta voce.
- Sei tutto intero? -.
L'uomo scosse la testa e sbatté le palpebre.
- Sei svenuto per pochi minuti. L'airbag è scattato, non ti sei fatto niente -. Krycek
fece una pausa, per dar modo all'uomo di capire cosa era successo.
Questi si era guardato intorno, aveva studiato i due, quindi si era riaccasciato sul
sedile posteriore, portandosi il braccio sulla fronte.
- Cosa avete intenzione di farmi? -, chiese, in un sospiro.
- Ti lasceremo al pronto soccorso se ci dirai dove stavi andando così di fretta -.
L'uomo spalancò gli occhi e fu allora che si accorse che Krycek aveva una pistola e che
la stava puntando su di lui.
Di nuovo li chiuse e si abbandonò sullo schienale.
- Vale la pena morire per una risposta che non vuoi darmi? -, chiese Krycek.
"Lei, dov'è?"
"Vale la pena morire per una risposta, è questo che vuoi?"
- L'auto sta viaggiando su un treno merci verso Washington -, disse, arresosi.
- Così mi piaci! -.
Krycek si girò sorridente verso Mulder.
- All'ospedale, James! -.
- E' questa? -, chiese Mulder.
Krycek, torcia in mano, studiava ogni minimo particolare dell'auto che aveva davanti.
- Sembra in tutto e per tutto una normale Ford Taurus, non è così? -.
- Mi sembra da incoscienti lasciarla viaggiare attraverso il Paese in questo modo -.
- Tu ti aspetteresti mai che un'auto da un milione di dollari viaggi in seconda classe? -.
- Tanto seconda non mi pare: vagone singolo tutto per lei, coperto da occhi indiscreti. Ma
è rischioso comunque -.
- Meglio per noi -.
Uno scossone improvviso fece ruzzolare la torcia di Krycek sotto le ruote.
- Il treno sta ripartendo -.
Krycek si chinò a raccogliere la torcia che era rimasta accesa.
- Con l'allarme inserito sarà davvero difficile tirarla fuori di qui -, osservò Mulder.
- No, se si ha il passe-partout! -, esclamò Krycek divertito, estraendo dalla tasca del
giaccone une tessera magnetica.
- Vedi questa tesserina? Ha un duplice modo d'uso: interrompe il passaggio di energia
elettrica che scorre nel lettore e disattiva così l'allarme primario -.
- Allarme primario? -.
Krycek tirò fuori dalla solita tasca un cacciavite.
- Quando te lo dico io, stai pronto a sollevare il vetro del fanale anteriore sinistro -.
- Agli ordini, Mary Poppins! -, fece Mulder, alzando la mano sulla fronte come un militare
e portandosi davanti all'auto.
Krycek inserì la tessera nel lettore, che stava all'altezza della serratura di una
qualsiasi altra auto.
- Ora! -.
Mulder fece forza col cacciavite sul bordo del fanale. Il vetro si staccò non proprio
facilmente.
- Fatto! -.
- Estrai la lampadina. Così facendo si disattiva un pulsante interno che inserisce
l'allarme vero e proprio -.
Mulder sogghignò divertito: bella trovata!
- Dovranno rifare tutto l'impianto. Non è la sola auto che ha questo tipo di antifurto.
Un ladro esperto potrebbe anche riuscire a rubarla! -.
- Come te! -, aggiunse Mulder.
- Scendete subito dal treno! -.
Al sentire quella voce alle loro spalle, i due uomini si gettarono a terra, scivolando
sotto l'auto.
- Merda! E questo chi è? -, imprecò Krycek, spegnendo la torcia.
- Disattivando l'antifurto dell'auto, avete inevitabilmente attivato una bomba che si
trova sotto il vagone -, continuò la voce.
- Puttanate! -, sibilò Krycek.
Dopo un attimo di silenzio, la voce riprese.
- Fate come vi pare. Non so quanto tempo vi rimanga -.
Si aprì lo sportello scorrevole del vagone.
Krycek e Mulder uscirono da sotto l'auto.
- Perché credi ci abbia raccontato questa storia della bomba? -.
- Per spaventarci, è chiaro! -, rispose Krycek.
Mulder si portò allo sportello. Si sdraiò sul pavimento e si sporse in fuori, quel tanto
che bastava per vedere sotto il vagone.
- Beh, Krycek, ho due ipotesi per te: potremmo stare qui sopra e scoprire troppo tardi che
quell'uomo aveva ragione, o fare un balzo e fare finta che quella cosa che sporge da sotto
il vagone e che normalmente non avrebbe alcun bisogno di stare lì e tanto meno di
lampeggiare di rosso, sia una bomba -.
Un movimento sopra la sua testa gli fece capire che Krycek aveva data per buona la seconda
ipotesi.
Si alzò, studiando velocemente il paesaggio. C'era un leggero dislivello tra il selciato
su cui correvano le rotaie, e il campo, ma l'erba sembrava soffice nell'oscurità e se non
avesse saltato in fretta non avrebbe più potuto farlo: più avanti le rotaie erano
costeggiate da un filare di alberi.
Si allontanò di qualche passo dall'uscita. Un paio di passi veloci e un balzo.
Mark non ci aveva pensato due volte ed era corso quando Sara gli aveva telefonato per
avvisarlo che i suoi non erano in casa quella sera e che sarebbero rientrati molto tardi,
o magari sarebbero rincasati la mattina seguente, trattenuti al gala a cui erano stati
invitati e da cui era impossibile sottrarsi.
Aveva preso il furgone di suo padre e aveva attraversato la città con la mente persa in
mille pensieri e fantasie, in cui Sara aveva il ruolo di protagonista.
Poi, improvvisamente, una luce all'orizzonte lo svegliò dai suoi sogni ad occhi aperti.
Fermò il furgone sul bordo della strada. Al lampo seguì un boato assordante. Si chinò
istintivamente, portandosi le braccia davanti al viso.
Un nuvolone di fumo si alzò, mentre brandelli di lamiera, lingue di fuoco e altri oggetti
non ben identificati si sollevavano da terra, sospinti dalla violenza delle detonazioni
che si susseguivano a distanza ravvicinata. Dalla posizione stimava che l'esplosione
doveva essere avvenuta lungo le rotaie.
Dimenticò Sara e i suoi sogni, tirò fuori il cellulare e compose un numero.
- Pronto, sono Mark Donnelly. Sto viaggiando sulla 224 in direzione Akron. C'è stata
un'esplosione sulla linea ferroviaria. Mandate subito delle ambulanze: potrebbero esserci
dei superstiti -.
Continua...
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