TITOLO: "Avevo un fratello di nome Fox"
AUTRICE: Helenia

Breve riassunto: Mulder torna da Scully dopo aver scoperto cosa realmente
accadde a sua sorella prima di morire.

RINGRAZIAMENTI: Lalla e Lup davanti a tutti, per l'incoraggiamento e i
suggerimenti.
I miei amici, passati e presenti, continua fonte di ispirazione.
Chris Carter, che ha creato qualcosa di meraviglioso e importante.
David e Gillian, per aver dato corpo a quel qualcosa.
Agli sceneggiatori e registi della serie.
A chi ha letto e leggerà ciò che ho scritto, giudici impariziali e
consiglieri preziosi.

Sono alla vostra mercé

“La verità è la fuori.
Ma c’è un’altra verità qui dentro.
Una verità che scompare come una goccia di latte sospesa nell’acqua… quando provi a toccarla.
Mi chiamo Mulder. Sono un agente dell’FBI, uno strumento della legge… a volte uno strumento della giustizia.
A volte non so di chi sono lo strumento.
Ma nella fiorente tradizione di molti re e capitani, ho un piano segreto.
Non è politico, finanziario o spirituale… anche se per me è divenuto come una religione.
Se non altro è completamente personale.
Cerca di catturare l’attimo che mi ha reso ciò che sono”.
Da “A little dream of me”
Stefan Petrucha e Charles Adlard


I suoi capelli profumavano di latte di mandorle, come quella sera di secoli prima. Il guizzo infantile nei suoi occhi si era affievolito, fino a diventare una matura consapevolezza, come se quella figura, con la sua sola presenza, riuscisse a dare pace al suo cuore tormentato. Quel corpicino così fragile e delicato fra le sue braccia: ne avvertiva la stanchezza e il sollievo insieme, il peso del dolore, la crudeltà degli esperimenti, la serenità della libertà. E quel contatto sciolse qualcosa dentro di lui: sentì le sue membra farsi stanche e pesanti, la rabbia che covava, che aveva tenuto a fatica chiusa nel suo animo, il senso di colpa che gravava su di lui per aver lasciato che la portassero via (eri solo un bambino)  scivolarono via, si congedarono in silenzio, intimoriti dal suo sguardo amorevole.
Le baciò la fronte distesa,  le guance rosee, i capelli scuri.
Samantha continuava a guardarlo, serena; sapeva quello che Fox aveva passato.
- I miei pensieri sono sempre stati per te, Fox. E le mie preghiere. Nel tuo cuore non me ne sono mai andata. Ed è lì che voglio continuare a vivere. E’ lì che non morirò mai -.



Fox era tornato. Dana aveva avvertito la sua presenza alla propria porta ancor prima che lui bussasse.
Alzandosi a fatica da divano e spingendo in avanti la sua mole ormai mastodontica, si era avvicinata alla porta, diligentemente aveva guardato nello spioncino. Un sorriso aveva acceso il suo viso come una luce dentro una casa da troppo tempo disabitata. Aveva spalancato la porta.
Fox era lì, davanti a lei, in piedi, ma dava l’impressione di starci per miracolo. I vestiti erano a brandelli, sporchi e puzzolenti. Sulle braccia e sulle gambe aveva escoriazioni profonde e infette, i capelli spettinati. Lo sguardo stravolto, allucinato.
- Dana -, sussurrò l’uomo, faticando a distendere le labbra tumefatte in un sorriso.
- Fox - , aveva detto lei, restando senza parole, di fronte all’uomo scomparso quasi otto mesi prima e che ora, senza squilli di trombe, senza spiegazioni, sena avvisaglie, era tornato nella sua vita.
- Ora so tutto, Dana, so cosa le è successo -, disse Fox, poco prima di svenire sul pianerottolo di fronte all’appartamento dell’agente Scully.
Dana si guardò intorno, sbigottita e imbarazzata: come avrebbe fatto per sollevarlo da lì? Si chinò a fatica fino a prendergli le mani e quindi aveva trascinato il corpo dentro l’uscio, chiudendosi la porta alle spalle.



PRIMA PARTE – PRIGIONIA
LA PAURA DELLA MORTE

Aveva un ricordo: una piccola bimba con soffici riccioli scuri , una fresca tuta rosa, seduta sul prato, il sole che le bagna il viso, i grilli che cantano non molto lontani, la dolce voce di sua madre che intona una ninna nanna seduta sulla panca sotto la veranda.
Aveva cercato di sforzarsi, di ricordare altro.  Ma ogni volta i suoi sforzi si rivelavano inutili, la testa cominciava a girare e doveva sedersi per non crollare a terra svenuta.
Da qualche tempo le capitava di svegliarsi continuamente durante la notte, in preda al terrore, una cieca paura di qualcosa che non riusciva a interpretare, come se ancora non avesse tutti i mezzi per farlo.
E allora si rifugiava in quel ricordo… doveva essere un ricordo: era troppo reale e vivo dentro di lei per essere solo un sogno o una fantasia. Jeffrey, con la sua logica e la sua freddezza avrebbe detto che era una specie di “coperta di Linus” mentale, nata dalla sua psiche tormentata e in cui rifugiarsi quando aveva gli incubi. Ma in realtà non voleva parlare con lui di questo: l’avrebbe presa in giro, come faceva sempre; era già abbastanza umiliante sapere che lui sentiva tutte le sue parole confuse e deliranti, il suo tormento notturno. Aveva anche provato a farsi dire cosa diceva, cosa lui riusciva captare dai suoi discorsi slegati, ma Jeffrey aveva fatto spallucce, l’aveva guardata negli occhi con quella sua odiosa espressione priva di emozioni, dicendo che non capiva niente del suo farfugliamento e che, comunque, non aveva alcun significato.
Quale idea assurda cercare in lui un amico, un rifugio nei momenti di sconforto!
Eppure sentiva chiaramente che accanto a lei, una persona molto vicina, qualcuno di cui poteva fidarsi, c’era.
E, insieme, avvertiva, giorno dopo giorno, il peso di qualcosa, la presenza costante di entità sconosciute e note allo stesso tempo. Ogni volta che fermava lo sguardo sulle proprie mani, sulla propria immagine allo specchio, aveva la certezza che qualcosa cambiava.
Cambiamento.
Consapevolezza che il suo corpo non le apparteneva del tutto.
Alle volte aveva la sensazione che qualcosa di viscido e invisibile le strisciasse sotto la pelle, divorandola come un cancro. E allora fuggiva sotto la doccia, strofinandosi le braccia e le gambe fino a farsi uscire il sangue, fino a sentir male, piangendo disperata, invocando nella sua mente quel nome, unico conforto e compagno di giochi nella sua infanzia, il suo amichetto immaginario, il sostituto di quel fratello che Jeffrey non era, non voleva essere.
Fox.
Un mugolio soffocato la distrasse dai suoi pensieri.  Guardò nel buio, verso l’angolo della stanza dove sapeva essere il letto di Jeffrey. In un’altra notte, dalla finestra, sarebbero filtrati i raggi della luna, ma quella notte di luna nuova era nera e profonda quanto i suoi incubi.
Posò lo sguardo sulle lancette verdognole in fianco al suo letto: le cinque e mezza. Fra poco più di un’ora sarebbe stato giorno. Lasciò scivolare un piede sul pavimento, sentendone la superficie dura e fredda. Poi l’altro.  Non che Jeffrey avesse il sonno particolarmente leggero, ma la prudenza non era mai troppa: sapeva che sarebbe corso a spifferare tutto alla mamma se l’avesse vista sgattaiolare a quell’ora fuori di casa: era da lui.
Ora veniva la parte più difficile: in quell’oscurità no ricordava se aveva dimenticato qualcosa sul pavimento o se Jeffrey si fosse tolto i vestiti gettandoli a terra alla rinfusa, pericolose trappole per i fuggiaschi. Sam si mise carponi e iniziò a gattonare verso la porta. La sua memoria fotografica era sempre stata una alleata preziosa in quei momenti di evasione tanto mentale quanto fisica. La sua prudenza si rivelò proverbiale: pochi passi e si ritrovò i jeans del fratello sotto i palmi delle mani. Più avanti la sua maglietta e le sue scarpe. Lasciava che fossero le dita ad esplorare il territorio oscuro davanti a lei, con pazienza e meticolosità. Quando seppe di essere in prossimità della porta  alzò la mano all’altezza della maniglia, trovandola al primo colpo. Quindi si era risollevata in piedi e aveva tirato a sé l’uscio. Con movimenti rapidi e precisi, era sgattaiolata nel corridoio, l’aveva attraversato, usando sempre le dita come bussola, appoggiandole alla parete per verificare la propria posizione nello spazio. Una volta arrivata al salotto si era lanciata verso la finestra, l’aveva aperta ed era scesa sul prato, tenendosi bassa, acquattata sopra l’erba umida. Rimase bassa tutto il tempo che le serviva per coprire la distanza fra la propria residenza e il lato est del campo militare.
A quell’ora l’aria era frizzante,  avvertiva la pelle d’oca sollevarle i peli delle braccia e delle spalle sotto il pigiama, mentre i piedi le si congelavano piano, piano. Ma questa sensazione le piaceva, alla ricerca com’era costantemente  della conferma che era viva, presente.
Aveva paura di scivolare via, dimenticata, abbandonata.
Una persona è ancora viva se tutte le persone che la amano si dimenticano di lei?
Si portò fino alla rete, stando ben attenta a non toccarla, si raggomitolò sull’erba in quel punto, dove si era sempre seduta, da un paio di settimane a questa parte,  quando i pensieri diventavano pesanti macigni sul cuore e la sua camera era troppo piccola per contenere tutta la sua ansia.
L’orizzonte cominciava a farsi più nitido, da dietro l’ombra scura delle colline si intravedeva l’alone più chiaro dei primi raggi del sole.
I campi si estendevano tra la rete e il punto in cui Sam stava guardando la luce che , come attesa ospite ad una festa che si sta facendo noiosa, ritornava padrona del mondo.
Girò la testa verso l’albero, chiedendosi se Barbara le avesse lasciato un messaggio prima di andarsene a letto la sera prima. Si alzò in un lamento mugugnato, quasi a malincuore;  ma la curiosità era troppa.
Si avvicinò al tronco, lo studiò con circospezione, quindi infilò una mano nella cavità che doveva essere stata la tana di qualche scoiattolo.
 L’aria all’interno del tronco era fredda e densa, carica di umidità. Provava un certo disagio ogni volta che doveva esplorarlo a tastoni.
Le ricordava l’atmosfera buia e cupa che si respirava dentro L’Ossario che si vedeva in lontananza, dal lato nord del campo.
Qualche anno prima, quando ancora Jeff era il fratello che era, rompiscatole se vogliamo, ma protettivo e presente, si ritrovavano spesso a fantasticare su ciò che poteva contenere. Il padre di Barbara aveva raccontato che quella specie di torre e ciò che conteneva era quello che rimaneva dopo che la guerra di Secessione era arrivata in quell’angolo del Paese.
“Quello che ne rimane”.
Sam e Jeff si erano guardati negli occhi: un guizzo di infantile pazzia era passato tra i loro sguardi, un’intesa che ora rimpiangeva. Il Colonnello  Paley sapeva cosa quei due avevano in mente.
- Non cacciatevi nei guai, ragazzi -, li aveva ammoniti. I due ragazzini lo avevano guardato, l’espressione nei loro volti era mutata ad una innocente e pacata remissività, avevano annuito con i loro occhioni sgranati e le labbra serrate, ma si erano subito voltati, tornando a guadarsi negli occhi. Il colonnello si era allontanato scuotendo la testa, sapendo che il suo era solo fiato sprecato.
Durante il pomeriggio Sam e Jeff erano andati al parco giochi che si trovava in fondo alla strada che conduceva al campo a nascondere le bici tra i cespugli, che sarebbero poi venuti a riprendere quella notte.
Il piano era di sgattaiolare fuori dal campo passando dall’entrata principale, aspettando il momento che qualcuno entrasse: il punto era parecchio illuminato, ma se erano svelti e silenziosi, avevano buone probabilità di farcela.
Era estate, non faceva freddo e si erano portati un po’ di “scorte”: patatine, pop-corn e succhi di frutta.
Nascosti tra i cespugli vicino alla sbarra, Sam e Jeff potevano sentire i loro cuori battere, i loro respiri concitati, l’eccitazione prendere possesso delle loro menti.
- Perché ci vuoi andare, Sam?-, le aveva chiesto il fratello  con un filo di voce.
- Voglio vedere cosa succede ad un essere umano dopo che è morto -.
L’aveva guardata: quella creaturina piccola e indifesa, che aveva piagnucolato fin da quando era entrata nella sua vita, che doveva sempre difendere a scuola, che doveva confortare dopo che si era svegliata, nel cuore della notte, in preda agli incubi, quella ragazzina voleva vedere i morti. Non sapeva se fosse prudente chiederle il perché, dato che apparentemente Sam non avrebbe dovuto provare alcun interesse per certe cose: non era da donne!
Ma lo sapeva, Sam era diversa, era per quello che li era lì. Sam era come sua madre.
La stava ancora fissando e quando lei si era voltata per dargli il via, lo aveva colto con il suo sguardo da pesce lesso su di sé e con la bocca spalancata.
- Non ci avrai mica ripensato, vero?-, lo apostrofò lei.
Jeff si risvegliò dall’apatia momentanea e scosse la testa in un ampio e convincente gesto di diniego.
- Andiamo -, disse il ragazzo, prendendola per una mano e attirandola fuori dal nascondiglio.
Lo spazio tra l’auto e i cespugli era minimo, ma con i loro corpi minuti non fu una grande difficoltà superare la sbarra. Ora dovevano correre più in fretta che potevano per raggiungere l’oscurità al di là dell’alone del lampione che troneggiava sopra il casello di controllo.
Non si fermarono una volta fuori dal raggio d’azione della guardia, ma continuarono a correre fino al parco, fino al nascondiglio.
Si tuffarono fra le foglie e cominciarono a rovistare: le biciclette erano ancora lì, affondate dove le avevano lasciate poche ore prima.
Mentre si trascinavano fuori dal cespuglio, Jeff vide che qualche foglia si era impigliata fra i capelli di Sam, quei capelli che, dopo che lei li aveva tagliati l’anno prima, erano diventati lisci, lisci, quasi come spaghetti.
Si passò le mani fra i suoi, accorgendosi che anche lui aveva la testa piena di foglie e rametti secchi. Iniziò a spazzolarseli con foga. Sam notò quello che il fratello stava facendo, e anche lei cominciò a spettinarsi i capelli per liberarli dalla vegetazione.
- Che dici, ne ho ancora? -, aveva detto quando aveva pensato di aver finito. Jeff le si avvicinò levando una mano e affondò le dita nella sua folta chioma scura, sopra l’orecchio sinistro.
Prima ancora di accorgersene, quel gesto li aveva messi terribilmente a disagio: non era così che, come nei film con Cary Grant e Grace Kelly, i due protagonisti si innamoravano?
Sapevano entrambi di non essere realmente fratello e sorella, anche se si comportavano come se lo fossero.
D'altronde a Sam non rimaneva altro se non quel surrogato di famiglia, dato che di quello che era stata non si ricordava niente e che, a parte Jeff e sua madre, non aveva nessun altro.
Jeff aveva in mano un rametto striminzito, se lo era rigirato tra le dita per un paio di secondi, quindi lo aveva lasciato cadere a terra.
- Grazie – aveva sussurrato Sam e, guardandolo, si era accorta che anche lui non aveva fatto un buon lavoro.
- Hai ancora delle foglie, Jeff -,  aveva detto abbassando lo sguardo sulla propria bici.
Jeff si era dato un’altra energica spazzolata e questa volta si era ripulito per bene.
Si erano avviati in silenzio, lui davanti e Sam dietro, pedalando con forza e sentendo in quel momento tutta l’illegalità di quello che avevano fatto. Se qualcuno si fosse accorto che erano spariti, li aspettavano giorni duri! Ma quello che era trapelato nei loro sguardi quella mattina, quando il Colonnello aveva raccontato loro la storia dell’Ossario, era un tacito accordo, una profonda consapevolezza e due erano le cose che il loro sguardo aveva suggellato: avrebbero visto quello che c’era là dentro e la punizione non li spaventava.
Né le minacce, né i castighi e nemmeno le punizioni corporali li avevano mai fermati. Quelle erano conseguenze, situazioni a cui non si sarebbero potuti sottrarre, molte volte anche se non avevano fatto niente.
Non potevano semplicemente ignorare quell’informazione e stare a guardare quella costruzione da lontano senza tentare di entrarci, di scoprire qualcosa che ancora non sapevano, che nessuno sapeva, ma che andava scoperta e raccontata assolutamente.
Si sentivano quasi in dovere di farlo, come se il loro scopo nella vita fosse scoprire la verità dietro ad ogni cosa, ogni apparenza. La loro vocazione di pionieri era il loro lasciapassare per castighi la cui fantasia, negli anni, aveva cominciato a scarseggiare. La loro tendenza ad infrangere le regole più elementari era il loro punto debole… o forte. Ma in mezzo alle difficoltà, chissà come, il loro legame non si spezzava: erano un team ben affiatato, Jeff e Sam, la premiata ditta Spender&Spender.
Arrivati all’Ossario si resero conto che non avevano la più pallida idea di come fare per entrare. La porta era ovviamente chiusa, le finestre erano piccole e inaccessibili feritoie, il muro invalicabile.
- Ebbene, Jeff, qualche idea? -.
- Perché lo chiedi a me? -, aveva sbottato lui, che fino a quel momento aveva sperato che Sam non lo mettesse nella solita posizione di “uomo della situazione”: era così terribilmente pesante e scomoda la scintillante corazza da Principe Azzurro!
- Perché io, sinceramente, non ne ho! -.
Grazie a Dio Sam conservava quel pizzico di orgoglio tutto femminile che recentemente si era fatto largo fra le donne e che aveva sollevato gli uomini da obblighi assurdi quali l’aprire la porta e farle passare per prime, oppure di aiutarle a sedersi scostando loro la sedia.
Sam apparteneva a quella specie di donne che ancora rappresentavano una sparuta minoranza e che volevano fare tutto da sole. Sam non avrebbe mai detto “Sei tu l’uomo”, piuttosto si sarebbe messa a scalare quel muro inaccessibile scorticandosi le dita! L’adorava per questo, poteva nasconderlo a lei e agli altri, ma non a se stesso.
E non solo questo: adorava quel suo viso delicato, quei suoi occhi così espressivi e quella cascata di capelli che avevano un profumo che non aveva mai sentito da nessun’altra parte, e che poteva sentirsi addosso quando, la notte, si accoccolavano l’una accanto all’altro dopo essere rimasti alzati a guardare un film dell’orrore.
Avrebbe voluto non lavare più i maglioni o le camice per non farlo scivolare via!
Sapeva che nessun’altra ragazza sapeva di buono come Sam.
Preso nei suoi pensieri, gli ci volle un po’ per rendersi conto che la ragazza stava armeggiando con la porta come un abile scassinatore.
- Il lucchetto è vecchio e arrugginito. Basterebbe un calcio per sfondarlo! D'altronde, non penso che qualcuno venga qui di notte. E probabilmente nemmeno i tizi che custodiscono l’Ossario la pensano così -.
Iniziò a sferrare forti e precisi calci al lucchetto che sotto il vibrare energico dei suoi colpi tintinnava come spaventato.
Jeff si mise accanto a lei e, senza essersi messi d’accordo prima, iniziarono a colpire il catenaccio alternandosi.
Dopo un paio di colpi il lucchetto cadde a terra inanimato e inutile.
Jeff non poté trattenere un sorriso compiaciuto: il suo apporto di uomo era stato determinante. Voleva che fosse chiaro che tra i due era lui il più forte, era lui che proteggeva Sam, non certo il contrario. Era da lui che Sam doveva andare quando aveva paura o aveva bisogno di conforto. Da nessun altro.
La ragazza entrò nella porta scura senza fare il minimo commento sulla sua palese virilità e lui si sentì un po’ deluso. Anzi, molto.
- Ehi, Sam, ho buttato giù la porta a calci, l’hai visto anche tu! -
- Bella forza, Jeff, dopo che io avevo fatto tutta la fatica! Sai quanti calci gli ho mollato io e quanti tu? -
- Cos’è? Li hai contati, Spender? -
- Certo, Spender! Io gliene ho dati nove e tu solo quattro! Per la legge dei grandi numeri, vinco io! -.
L’espressione di Sam si fece beffarda e compiaciuta. Dio, che voglia che aveva di metterla tacere con un bel cazzotto! Era lui l’uomo e lei la donzella in pericolo!
Ma poi pensò che le avrebbe lasciato un livido orribile sul viso, e quindi decise di lasciar perdere. Cercò di pensare ad altro, si guardava intorno e fingeva di non aver dato importanza a quello che lei aveva detto.
Presto avvertirono la presenza chiara e netta della morte incombere tra quelle mura. Aveva il corpo pervaso dai brividi e una fifa blu si stava impadronendo di lui. Ma mai e poi mai lo avrebbe dato a vedere.
Avvertiva i sospiri di paura di Sam accanto a sé, la sentiva strofinarsi le mani lungo le braccia per riscaldarsi.
- C’è un freddo che non mi piace qui -
Dillo, Sam, fallo per me!
- Ho paura…-
Si!, esultò Jeff dentro di sé.
Sentì il  corpo tremante di Sam schiacciarsi contro il suo, ne avvertiva le vibrazioni di paura, addirittura l’odore!
- Dobbiamo tirare fuori la torcia -, balbettò Jeff, mentre si chinava per rovistare nel suo zaino.
Anche Sam si chinò, ignara del potere che aveva su di lui. Questa sua ingenuità non faceva che renderlo ancora più nervoso. Ma capì che non c’era niente di innaturale in tutto questo: era l’occasione che aveva sempre cercato per dimostrarle che era forte e che non era più un bambino.
Ma adesso Jeff stava pensando che l’oscurità era preferibile al raccapricciante spettacolo che si parava loro davanti:  alle spesse mura di roccia e legno erano state fissate delle travi come mensole, e queste mensole erano ricoperte, anzi, sommerse da teschi umani. Si accavallavano, in bilico, pericolanti, ti aspettavi che da un momento all’altro ne cadesse qualcuno, frantumandosi in mille schegge sul pavimento.
Sam si era di nuovo schiacciata contro di lui, cingendogli il braccio sinistro. Quel contatto era l’unica cosa che gli impediva di fuggire urlando fuori dalla porta dietro di loro.
La torre era circolare. I teschi ricoprivano le pareti esterna ed interna. Girarono in circolo, bene attenti a dove mettevano i piedi: la morte che respiravano lì dentro era talmente vicina e presente che avevi paura di calpestarla.
Il muro interno si interruppe: la sua lunghezza serviva a coprire un semicerchio, proteggendo il cuore del reliquiario dall’accesso diretto della porta. Anche da quella parte, il muro era ricoperto di teschi, ma capirono che il “pezzo forte” del macabro museo era ben altro di qualche testa bollita: al centro della torre stava una bara di vetro, ingiallita e opacizzata dagli anni. Al suo interno, sopra un drappo di velluto rosso rifinito in oro, si accavallavano ossa. Jeff poteva distinguere chiaramente una mano, quello che rimaneva di un piede, i femori, le costole, le scapole, lo sterno, la spina dorsale (ma, a quanto poteva vedere, ne mancava un considerevole tratto), il cranio. Il tutto era stato ordinato e disposto in modo da ricomporre una figura umana, quasi a riconsegnare la memoria di quello che doveva essere stato sicuramente un ufficiale di alto grado.
Lì accanto erano visibili la divisa e le armi di quell’eroe di guerra. Un’etichetta ingiallita dal tempo e ormai illeggibile spiegava chi era e il suo ruolo determinante in qualche battaglia del passato.
Sam sussultava ora accanto a lui, ammutolita.
- Stai bene, Sam? -.
Samantha si limitò ad assentire con un impercettibile movimento del capo. I suoi occhi scintillavano nell’oscurità, resi enormi e ancora più chiari dalla paura.
Jeff tornò a contemplare le spoglie mortali dell’ufficiale, avvicinandosi maggiormente alla bara.
Sam tentava di trattenerlo accanto a sé, timorosa di restare sola in quel luogo, ben decisa a non fare un ulteriore passo avanti. Ma Jeff si divincolò dalla sua stretta e si appoggiò al vetro.
- No, Jeff… -, sussurrò Sam, in un tremito.
- Non temere, Spender, sono qui, mi vedi, faccio solo qualche passo -, la rassicurò, allungano una mano a sfiorarle la spalla.
E fu allora che la vide, la paura di Sam, la vera natura di tutto il suo terrore. Non poteva spiegare l’origine della sua certezza, dove e come aveva imparato a decifrare quel viso e quelle espressioni, ma leggeva nei suoi occhi e nelle pieghe del suo volto deformato dall’orrore che Sam provava una paura diversa dalla sua.
Lui era terrorizzato da ciò che vedeva, ma ne era anche affascinato: come ogni mistero della vita, anche la morte esercitava sulle persone un certo potere. Ma Sam, no, Sam non ne era affascinata affatto: guardava quel resti come un condannato a morte guarda la sedia elettrica su cui dovrà essere giustiziato. Nei suoi occhi leggeva la cieca certezza che quello era il suo destino, il destino di tutti. Capiva che Sam voleva andarsene.
Scosso da una nuova virilità, Jeff la prese per un polso, la trascinò verso la porta, sentendola impotente e pesante sotto la stretta delle sue dita. La portò fuori, un metro, due metri, tre metri. Si fermò quando era sicuro di non avvertire più il gelo che usciva dall’uscio ancora spalancato dell’Ossario.
E quando furono uno davanti all’altra, Sam si accasciò a terra come inanimata, un fantoccio di stoffa molle a suoi piedi. Iniziò a singhiozzare.
Jeff si chinò accanto a lei, accarezzandole la testolina tremante, affondando di nuovo le dita in quella nuvola di capelli scuri, dalla base fino alle punte, sentendone la leggerezza, la freschezza.
Probabilmente vinta da quel gesto di conforto, Samantha si gettò tra le sua braccia, appoggiandosi al suo petto di adolescente, con le mani strette davanti alla bocca, tutta raggomitolata.
E lui non poteva fare altro che accogliere la sua angoscia, cingendola con le braccia, sfiorandole la fronte con le labbra, sentendo il proprio cuore battere all’impazzata, insieme al cuore di lei.
Con la mano affondata nell’oscurità cava del tronco, Sam era ancora alla ricerca di una lettera, una busta, anche solo di un bigliettino. Alle volte Barbara le lasciava una foto di qualche cantante o di qualche scampagnata che aveva fatto con la sua famiglia.
La invidiava talmente, lei che aveva una famiglia così unita e affiatata! Al contrario, Sam si ritrovava con un fratello che, da quando aveva iniziato ad avere quegli orribili incubi, non era più stato quello di prima, la trattava con freddezza e distacco, parlandole a monosillabi, senza nemmeno più giocare con lei; e poi c’era sua madre, che era sempre stata una presenza onirica, assente e distratta. Alle volte spariva per giorni e non si capiva dove andasse, e nemmeno lei riusciva a dare spiegazioni del dove e del perché fosse sparita tutto quel tempo.
Alle volte aveva davvero la sensazione che Jeff sapesse qualcosa e non glielo dicesse, non per proteggerla o per non ferirla, ma come se non fossero affari suoi. L’escludeva di proposito da tutto quello che lo riguardava, che riguardava la mamma, facendola sentire in più, una presenza scomoda, una persona indesiderata.
E la sua solitudine aumentava.
Quando sentì di aver afferrato qualcosa che non poteva essere altro che una busta, si guardò intorno con circospezione. Quindi la estrasse dall’albero, la nascose velocemente nella manica del pigiama e andò a sedersi di nuovo vicino alla rete.
La busta non era incollata (lo facevano per prudenza: mai lasciare troppe tracce in giro). L’aprì e lesse.
“Quello stronzo di Jeff ti tiene ancora il broncio? La prossima volta che lo incrocio in corridoio a scuola gli faccio lo sgambetto!
Tu come stai? Ancora con quegli incubi?
In classe tutti mi chiedono di te, in particolare Bryan… cosa gli devo dire?
La signorina Hannigan ci dice che non possiamo ancora venirti a trovare. Ma cos’hai? Sei contagiosa per caso? Ormai sono due settimane che sei a casa con l’influenza, sarebbe anche ora che ti facessero uscire!
Qui tutto procede come al solito: quel testa di cavolo di Bedford mi ha di nuovo preso di mira, questa volta per il compito dell’altra settimana. Proprio non riesce a credere che io sia riuscita a fare così bene! Praticamente ogni volta mi chiama alla lavagna per chiedermi la lezione del giorno prima. Che scatole!
…E’ un mortorio senza di te.
Baci
B”
Ripiegò la lettera e la ripose nella busta in un sospiro.
L’influenza: sapeva ormai di non avere niente del genere, ma nemmeno lei sapeva perché i colleghi di suo padre (come se non lo sapesse che erano loro che dicevano a sua madre cosa fare!) la stavano costringendo in casa, da un po’ di tempo a questa parte.
Le loro visite ultimamente si erano fatte più frequenti, molto più frequenti di quelle di suo padre; erano mesi che non lo vedeva. Non che gliene importasse, probabilmente sarebbe stata un’altra persona che si comportava come se lei fosse stata un fantasma. Ma a volte si ritrovava a sentire la mancanza di quelle sue sigarette puzzolenti!
Guardò all’orizzonte: mancava poco: il sole stava per fare capolino fra le dolci curve delle colline con il suo primo spicchio di infinito.

PRIMA PARTE – PRIGIONIA
CAPITOLO 2: QUANDO UNA PERSONA SI RISVEGLIA E NON SA DOV’È

Capiva che erano simili a lui perché anche loro vagavano assenti per la radura, senza sapere cosa facevano in quel luogo, senza sapere come ci erano arrivati, senza sapere chi erano e dove erano stati prima.
Erano circa una decina di persone; notò che alcuni stavano col naso rivolto all’insù, scrutando le stelle.
Qualcuno doveva aver segnalato la loro presenza alle autorità del luogo, perché presto arrivarono delle volanti. Il loro chiarore bluastro pulsava nel cielo, oltre la collina, sopra la vegetazione.
L’uomo sapeva che scene del genere non erano nuove per lui. Si sentiva il vociare dei poliziotti tra gli alberi, i loro piedi che calpestavano fango e foglie, il lampeggiare dei fari delle loro torce, nella rapida discesa del pendio.
Si sentì afferrare per un braccio.
- Andiamocene di qui! - , bisbigliò il ragazzo. Era impossibile capire se il suo viso gli fosse familiare perché erano in quel luogo insieme o perché era parte di quel sogno che era stata la sua vita prima di arrivare lì.
Aveva ragione. Non ricordavano chi erano, quindi quei poliziotti potevano essere lì per aiutarli  o per arrestarli e loro non potevano saperlo. E poi l’istinto di fuggire fu il primo impulso che si risvegliò nelle sue vene.
Dalla parte opposta della radura, nel buio della notte, si poteva vedere altro bosco.
Non avevano torce con loro.
Ritornò a guardare verso le luci che volteggiavano dall’altra parte, verso la strada, sempre più pericolosamente vicine.
- Muoviamoci! -, disse infine, con gran sollievo del ragazzo che ancora lo fissava ansioso in volto.
I raggi della luna filtravano tra i rami degli alberi, illuminando anche se fiocamente il cammino. Correva buttando le mani avanti, per proteggersi il viso da rami e cespugli, sentendo l’umidità penetrargli nelle ossa. Aveva la sensazione che presto si sarebbero spezzate, gelate dalla notte, e sarebbe rovinato a terra come un burattino rotto, il cui legno era marcito perché era rimasto abbandonato e inutilizzato in un armadio o in una scatola.
Era sempre stato in quella radura? Quando esattamente si era accorto di trovarsi lì?
Aveva la sensazione di risvegliarsi da un torpore eterno, come se facesse tutto parte di un piano segreto e qualcosa fosse andato storto. Lui non doveva essere lì, lui non doveva essere sveglio.
Se lo era.
Dietro di lui sentiva le voci e gli ansimi degli agenti che faticavano a stargli dietro. Almeno questo lo sapeva: le sue gambe erano ancora veloci, nonostante gli sembrasse di non averle usate per tanto tempo.
Tutto questo non serviva a niente: non potevano continuare a fuggire in quella direzione, non sapevano cosa li aspettava da quella parte. Probabilmente i poliziotti avevano avvertito via radio altre unità che li attendevano poco più avanti, come pescatori con una rete tra le mani.
Ricordava di aver fatto una cosa, anni prima, in un posto lontano da quello; poteva farlo ancora.
Sentiva il faro di luce su di sé, aspettava di essere protetto nell’oscurità per poter agire. Cercò per quanto gli fu possibile di accelerare la fuga, scartando sulla destra, dove sentiva che il numero degli agenti era più esiguo. Non osava guardarsi indietro, non voleva che lo vedessero in faccia, anche se probabilmente già sapevano chi era. Beh, beati loro!
D’un tratto gli sembrò di volare, ma sapeva che si trattava solo di un’impressione, di uno scherzo della sua immaginazione, percezione alterata della realtà che ci circonda.  O forse no? Si sentì veramente mancare la terra sotto i piedi, le suole di gomma scivolavano sul tappeto di foglie secche e rami umidi che ricoprivano il suolo. Il terreno era in pendenza, abbastanza da farlo incespicare e ruzzolare, impedendogli di trovare un appiglio a cui aggrapparsi in caso la situazione si facesse più precipitosa.
Inaspettatamente quell’imprevisto aveva reso la sua fuga ancora più incerta, ma se era incerta per lui, lo era anche per gli uomini dietro di lui. Capiva che dovevano essere più anziani, lo avvertiva nelle loro voci e nelle loro imprecazioni. Sentiva il rumore dei tonfi che facevano i corpi mentre piombavano a terra, il rumore della vegetazione che si spezzava sotto il loro peso.
Gettava le braccia a destra e sinistra, alla ricerca affannata di un ramo che sporgesse, abbastanza solido e forte da trattenerlo. La corsa terminò rovinosamente fuori dalla vegetazione, su un terreno diverso. Ciottoli tondi e bianchi spiccavano nell’oscurità come se fossero stati fosforescenti. Si rialzò. Dietro di lui non si sentivano più rumori, né voci. Davanti a lui gorgogliava un torrentello misero. Ed era l’unico suono che avvertiva. Aveva allungato le orecchie verso la vegetazione in alto, al di sopra della cima scoscesa che aveva appena percorso, ma non sentiva nemmeno la corsa concitata degli altri.
Ma lì era allo scoperto. Al di là del torrente ricominciava la macchia scura della foresta. Attraversò senza troppe difficoltà la piccola distesa d’acqua e riparò nel folto della vegetazione, ancora una volta.
Si acquattò fra le foglie, fino a sdraiarsi supino. Si ricoprì meticolosamente il corpo. L’odore delle piante morte con cui si era costruito il nascondiglio gli penetrava le narici fino a dargli la nausea; sentiva il fango scivolargli sotto i vestiti, appiccicarsi alla pelle.
Un movimento giunse a bloccargli il respiro.  Rimase in ascolto ansioso. L’uomo camminava non molto lontano da lui, dove il terreno era asciutto. Vide il raggio di luce attraverso il giaciglio in cui si era affondato.
L’agente proseguì sulla sua strada.
Ma lui non uscì allo scoperto per un bel pezzo.

Sentì il calore del sole mattutino scaldargli il viso. Istintivamente si portò un mano verso la guancia, come per sentire a che punto fosse la barba. Ma, invece della folta peluria che ricordava, si ritrovò fra le mani una foglia secca. Capì allora dove si trovava.
Iniziò a ripulirsi il viso con entrambe la mani, mentre si trascinava a sedere. Il fango gli si era coagulato addosso, ne avvertiva il peso fastidioso sulle mani, sul viso, su tutto il corpo.
Sapeva che quello non era il primo mattino che vedeva, ma non ne ricordava nemmeno uno. Brevi bagliori della sua vita passata gli erano passati davanti agli occhi durante il tormentato riposo notturno, come diapositive piazzate alla rinfusa nel caricatore di un proiettore. Immagini note gli erano state sparate nel cervello da quella parte della sua memoria che non si voleva risvegliare.
Si ricordò del torrente alle sue spalle. Si alzò stendendo gli arti intorpiditi, massaggiandosi le membra stanche. La schiena dolorante per la posizione scomoda di quella notte.
Il fiumiciattolo era basso e limpido. L’acqua gelida gli risvegliò le dita della mani, inondandogli il corpo con la sua freschezza. La tentazione di rotolarvisi dentro era forte, ma la temperatura di quella zona gli fece capire che, se lo avesse fatto, sarebbe morto di polmonite prima di sapere chi fosse e da dove venisse. Si limitò a sciacquarsi il viso, grattando via il fango e la polvere che gli bruciavano gli occhi.
Lasciò che fosse l’aria ad asciugarlo.
Quanto era distante dal primo luogo abitato? La posizione era svantaggiosa; da dov’era non capiva cosa ci fosse al di là del bosco. Pensò di risalire, ripercorrendo la strada che aveva fatto la sera prima, fuggendo.
Ma, probabilmente, là c’erano i poliziotti ad attenderlo.
Decise di continuare, proseguendo tra gli alberi, portandosi nella civiltà solo quando si fosse sentito al sicuro.
Ora si sentiva affamato. Si era già sentito così affamato in passato. Si chiese quando era stata l’ultima volta che aveva mangiato. I suoi ricordi arrivavano fino alla sera prima, mentre vagava nella radura dopo che… ce lo avevano portato? Ci era arrivato da solo? Ci era nato?!?!?
Per la propria sanità mentale decise che non ci avrebbe più pensato; cercare di ricordare gli avvenimenti precedenti a quella notte era come tentare di pedalare su una bicicletta senza catena.
Ed era proprio il quadro della situazione, l’istantanea della sua vita in quel momento: camminare per andare da nessuna parte.
Si chiedeva con quale ironia, nei film che ricordava di aver visto, ma dei quali non ricordava il titolo, chiunque avesse un’amnesia si risvegliava sempre in un ospedale, acciaccato e pallido, ma circondato da persone che lo conoscevano e che erano ansiose di restituirgli la sua vita.
Era un neonato adulto. Notò con sarcasmo che non sapeva nemmeno quanti anni avesse. Non sapeva neanche che aspetto avesse, unico indizio quella barba che sentiva pesargli sul viso.
Voleva canticchiare, ma non conosceva una sola canzone. Cercò allora di immaginare quale genere di shock avesse subito per dimenticare completamente la sua vita: un terremoto, un incidente, un esplosione, un rito satanico!
Ma, e questo lo riempiva di angoscia, si chiedeva come avrebbe potuto riacquistare la memoria.
Proseguendo lungo il torrente, si imbatté presto in una baita. Si era accucciato dietro alcuni cespugli e la studiava da lontano. Poteva aver camminato per ore fino ad allora. Il sole aveva disegnato un bell’arco nel suo cammino in cielo e quindi poteva essere distante miglia e miglia dal luogo in cui erano stati inseguiti. Usava ancora il plurale nonostante, ormai, fosse rimasto solo. Capiva anche una cosa da quel plurale, più che capirla, la sapeva: lui e quelle persone avevano intrecciato i loro destini per più di qualche minuto di passeggiata notturna fra i boschi.
Rimase nascosto per un po’, assicurandosi se fosse abitata e, in caso, da chi.
Ma non vide nessuno entrare o uscire, non un movimento era percepibile dalle finestre. Il camino era spento. Acquattandosi quanto poteva, si avvicinò, spostando lo sguardo teso dalle finestre alla porta, pronto a scattare se avesse percepito anche il minimo movimento ostile. L’orecchio era proteso nell’ascolto di qualsiasi rumore civilizzato: un motore, una voce. Ma la prudenza si rivelò superflua: guardando dentro l’abitazione, l’uomo capì che era vuota. Ma non disabitata. Vide un orologio ancora funzionante appeso alla parete sopra il camino: erano le undici e mezza. Della legna tagliata da poche settimane giaceva nello scanso sotto il focolare. Tutto era in ordine e pulito.
Non c’erano pentole sulla stufa, non c’erano piatti sul tavolo. Chi viveva lì si era allontanato da poco, e probabilmente stava per tornare.
Fece il giro della casa e si portò davanti alla porta. Si diede un’ultima occhiata intorno, quindi fece forza sulla maniglia, che, contro ogni previsione,  si abbassò docilmente sotto la pressione della sua mano.
Entrò furtivo.
Doveva essere il casotto di un cacciatore: lo si poteva dedurre dai fucili e dalle teste d’alce appesi alle pareti.
Sentendosi braccato come selvaggina in quel momento, immaginò di vedere anche la sua di testa fra quelle.
Proseguì verso la cucina.
Decise che avrebbe preso tutto quello che avrebbe potuto, cibo, da bere, qualsiasi cosa gli fosse sembrata utile, e sarebbe fuggito di nuovo.
Aprì in rapida successione tutti gli scansi della credenza, ma trovava solo barattoli di fagioli, piselli  e altri legumi. Prese un barattolo di piselli e se lo infilò nella tasca della giacca.
Trovò del pane vecchio rovistando in un armadietto. Quindi dei succhi di frutta. Possibile? Probabilmente c’erano anche dei bambini da quelle parti.
Infilò tutto in una vecchia, ma robusta borsa di cuoio trovata appesa in fianco al camino. Se la mise a tracolla.
Mentre rovistava tra i cassetti di un vecchio comò si accorse di trovarsi di fronte ad uno sconosciuto. Vide la sua pelle pallida, la sua folta barba scura, i capelli, di poco più chiari della barba, sporchi di terra. Vide il fango rappreso intorno alle orecchie e al collo. E, infine, vide i suoi occhi. E rimase pietrificato. Era davanti ad uno specchio. Non si può descrivere la sensazione di guardarsi negli occhi e rendersi conto che non si riconosce nulla di sé, che non c’è niente di familiare in quell’immagine. Iniziò ad accarezzarsi il viso, passandosi le dita sulla fronte, sulle sopracciglia, sul naso, sugli zigomi. Cercava qualcosa che gli facesse dire “Si, sono io”. Ma non serviva a niente. Era estraneo a sé stesso. Si arrese e si allontanò, proseguendo la sua ricerca.
Trovò una torcia elettrica e, nello stesso scanso, le rispettive batterie. Amò la meticolosità del padrone di casa.
Aveva bisogno di soldi. Non gli andava proprio a genio l’idea di derubare qualcuno, ma tra l’infrangere la legge e lasciarci la pelle, beh, la scelta non era poi così difficile. Poteva vedersela con le implicazioni morali più tardi. Aveva la quasi totale certezza, inoltre, di aver già infranto la legge in passato. Questa consapevolezza lo fece rabbrividire. Anche se, probabilmente, i brividi erano stati causati dall’improvvisa brezza che si era alzata.
Si fermò: era al piano superiore, stava rovistando in una credenza, tra magliette e biancheria maschile. Sentì uno scatto al piano inferiore: lo scatto della porta d’entrata che si chiudeva. Si guardò intorno, mentre i suoi occhi annegavano nel panico. Sentì i passi di qualcuno andare dal salotto alla cucina. Poggiava qualcosa sul tavolo, quindi apriva uno scanso cigolante (quello dei fagioli, pensò). Lo sentì armeggiare con  pentole e mestoli. Guardò il piccolo orologio da tavolo che stava di fronte a lui, sulla credenza: era quasi mezzogiorno.
Se avesse mosso un solo muscolo le assi del pavimento avrebbero scricchiolato e chiunque fosse stato di sotto avrebbe preso uno dei fucili disposti con ordine sopra il camino e avrebbe debellato l’intruso. La stessa cosa sarebbe successa se quella persona fosse salita e lo avesse trovato con le mani affondate nei suoi cassetti.
Ma non avrebbe avuto il fucile.
Cercò di concentrarsi sul rumore dei passi, per capire se si trattasse di un uomo o di una donna. Ma non si muoveva più, semplicemente preparava il pranzo.
Diede un’altra occhiata alla stanza: in camera da letto c’è sempre una foto del padrone di casa. Sul comodino di fianco al letto vicino alla finestra stava in effetti una foto: una coppia, probabilmente marito e moglie, una foto vecchissima.
Il rumore di un pick-up attirò i suoi occhi all’esterno. A bordo un uomo sui sessanta, settant’anni, vestito come un meccanico o un fabbro.
La moglie, di sotto c’è la moglie. E adesso?
Sentì l’uomo entrare.
- Elsa, sei in camera da letto? -.
- No, sono in cucina! -, urlò la donna, in risposta.
Lo sentì borbottare qualcosa. Che lo avesse visto?
Ora il loro dialogo era diventato incomprensibile, il tono di voce si era abbassato. Probabilmente si scambiavano impressioni e pensieri sulla mattinata. Udì lo schiocco di un bacio, un rumore soffocato, come quello di un tappeto percosso.
- Piantala Henry, non fare il ragazzino! -.
L’uomo sorrise sommessamente: immaginò Henry importunare la moglie che si affannava davanti alle pentole, mentre gli dava una sonora pacca sul sedere. Si odiava in quel momento: era entrato nella loro casa, li stava derubando, e loro ignari si facevano le fusa come due innamorati! Sperò di cavarsela, non solo per sé, ma anche per loro: non voleva turbare quel perfetto quadretto.
Era impaziente. Non poteva rimanere in quella posizione in eterno. Era probabile che Henry sarebbe venuto di sopra prima di pranzo. E così facendo lo avrebbe visto e tutto sarebbe precipitato.
Iniziò a immaginare mirabolanti acrobazie e contorsioni del suo corpo nello sforzo di allungarsi fino all’armadio dietro di sé.
Diventava tutto così difficile quando si cercava di salvare capra e cavoli! 
L’immagine di un ponte gli attraversò il cervello come una scarica elettrica. Un ponte e due donne. Presenze costanti, vicine. Una mano. Un’altra mano. S’incontrano. Quel tocco che da sollievo.
Aveva chiuso gli occhi, sforzandosi di rievocare quel contatto, tralasciando quel tappeto di angoscia che quel ricordo portava con sé.
- Elsa, portami il fucile! -.
La situazione precipitava velocemente.
- Guardalo bene, Henry. E’ spaventato a morte! -.
Gli occhi dell’uomo erano due lepri braccate dai cani che corrono a destra e sinistra, cercando una via di fuga che non c’era.
Henry era in piedi davanti a lui, Elsa seduta sulla sedia al suo fianco.
Lo aveva legato e aveva rimesso al loro posto tutte le cose che si trovavano nella bisaccia, compresa la bisaccia.
Non parlava: sapeva che se lo avesse fatto senza che fosse stato Henry a chiederglielo, sulla sua lapide ci sarebbe stato scritto “Sconosciuto”.
- Per l’ennesima volta: chi sei?! - , chiese il cacciatore.
Tralasciando le volanti della polizia, l’inseguimento e la fuga…
- Non lo so. La prima cosa che ricordo è di essermi risvegliato in una radura a qualche miglio da qui l’altra notte e poi mi sono incamminato attraverso il bosco. Ho visto… -
Henry sospirò con disappunto: gli ricordò un professore deluso di fronte ad uno studente svogliato. E forse anche qualcun altro.  Delusione suscitata da lui in altre persone. Tacque.
- E’ un maniaco, Elsa, ecco che cos’è! L’ho pescato con le mani immerse nella biancheria intima e un’espressione estatica sul volto. Non ho dubbi! -.
Ammise tra sé e sé che la situazione non era certo delle più favorevoli e non dava torto ad Henry per la sua prudenza.
Ciò che non rendeva la situazione disperata era il fatto che non avessero ancora chiamato lo sceriffo di zona.
E poi si rese conto anche di un’altra cosa: non sapevano chi era, non lo avevano riconosciuto. Probabilmente era solo una flebile speranza la sua, ma almeno questo lo rincuorava, lo rassicurava: non era un criminale e non era ricercato. Se così fosse stato, la sua foto segnaletica sarebbe stata distribuita a tutte le abitazioni circostanti il luogo in cui per poco non lo avevano arrestato. Per quanto avesse camminato quella mattina, non poteva essersi allontanato così tanto.
- Oh, avanti Henry, smettila.  Questo ragazzo è solo e spaventato. Guarda com’è ridotto: ha bisogno di un bel bagno e di mangiare! -.
- È un evaso. Se gli diamo una mano diventiamo suoi complici!!! -, si oppose il marito, ormai impotente.
Elsa slegò l’uomo, lo fece alzare e lo accompagnò verso le scale.
- Per la miseria, Elsa, non mi stai nemmeno ad ascoltare! Tu e la tua mania di raccattare ogni patetica forma di vita ti capiti davanti alla porta! -.
La donna si rivolse al giovane: - È un uomo buono, ma è talmente sospettoso! Non si fida di nessuno -.
- Lo capisco! -
- Anche lei non si fida di nessuno? -
- Non mi fiderei di uno sconosciuto che pescassi nella mia camera da letto! -
Lo accompagnò fin sulla porta della camera.
- Qui al secondo piano non abbiamo acqua corrente. C’è una vasca dentro. Io vado a prendere dell’acqua e la scaldo -
- Signora Elsa, io… -
- Parleremo più tardi. Arrivo subito. Debole com’è  non avrà certo la forza di scappare! -

Dopo il bagno ristoratore, e dopo essersi fatto la barba, si sentiva rinascere. L’ironia del suo pensiero lo trafisse; ma ormai era formulato.
– Devo smetterla di sprecare così le mie sette vite, potrei averne bisogno in un momento realmente cruciale! -
- Cosa ha detto? -
- Niente. Borbottavo tra me e me -
Elsa gli aveva dato dei vecchi abiti del marito. Facevano un po’ cowboy delle montagne, ma erano puliti e comodi.
Davanti ad un piatto di minestra, venne invogliato ad iniziare il racconto della sua storia, e come mai era finito nella loro casa. Henry era sulla porta della cucina, il fucile sempre in braccio. Lo guardava con un’espressione mista fra il sospettoso e il rassegnato. Lo guardò cercando di dimostrarsi il più grato e accondiscendente possibile.
- Allora, cosa le è successo? -.
- Non ricordo niente,  a parte il risveglio nella radura e il bosco. Ho camminato fino a quando non sono arrivato qui -.
- E’ probabile che abbia subito uno shock, che ne so, una violenta botta in testa o … Può darsi che sia stato rapito! -.
- E da chi?!?!? -, commentò Henry dal fondo della stanza.
- L’ipotesi è azzardata, ma non da scartare. Non ricordando assolutamente niente della mia vita passata, potrei essere chiunque!… -
Rivolse gli occhi ad Henry, che si limitò a bofonchiare cinico.
L’occhiataccia che la moglie gli diede, però, spense ogni ombra di sarcasmo dal suo viso.
- Proprio niente? -, sembrò supplicarlo la donna.
- Ogni tanto ho ricordi, frammenti più che altro, sensazioni, come in sogno. Ma non riesco a connetterli fra loro, non riesco nemmeno a decifrarli la maggior parte delle volte! -.
Si sentiva terribilmente impotente.
Elsa lo guardò con rammarico. Qualcosa in quegli occhi gli fecero capire che si, credeva alla sua storia, ma come chiunque trovandosi in una situazione del genere, non sapendo che tipo d’uomo stesse ospitando in casa propria, pensava soprattutto alla propria incolumità e a quella dei suoi cari.
- Finisca di mangiare. Possiamo darle una mano, ma capirà anche lei che non sappiamo chi è e cosa l’ha ridotta in questo stato -.
Annuì silenzioso, comprendendo che la tregua stava per finire.

La seconda notte è sempre la più difficile, soprattutto se sei legato ad una sedia come un salame. Alla fine Henry l’aveva spuntata e lui era tornato nella parte del prigioniero. Ma non avevano ancora chiamato lo sceriffo. Probabilmente credevano alla sua storia.
Voleva scoprire chi era senza che gli venisse urlato in faccia da un agente di provincia che non vedeva l’ora di sbatterlo dentro con chissà quale pretesto. Beh, per esempio, per violazione di domicilio.
Era da più di un’ora che rifletteva su questa e molte altre cose simili, mentre si guardava intorno. Lo avevano messo nel locale dietro la cucina, una specie di piccolo magazzino dove tenevano altra legna tagliata, scorte di viveri. Non c’erano finestre, non ci sarebbero state. Il piccolo stanzino si trovava nascosto dietro la finta parete di un armadietto a muro, lo stesso in cui aveva trovato la torcia elettrica. Henry aveva chiuso quell’armadietto a chiave.
Aveva l’impressione che tutte queste precauzioni fossero servite non tanto per impedirgli di fuggire, quanto, piuttosto, per proteggerlo, nel caso lo sceriffo fosse passato per una visita inaspettata.
Aveva le braccia legate allo schienale; le caviglie erano strettamente allacciate alle gambe della sedia. Intuiva che quella era la sistemazione notturna, un modo per tenerlo sotto controllo quando nessuno di loro due era presente. Non si sentiva prigioniero, tutto sommato. Sapeva che essere prigioniero era ben diverso da quella situazione. È lo stato d’animo che ti suscita dentro, non quello che si vede da fuori.
Prigioniero delle regole, prigioniero della gerarchia, sottomesso a persone più in alto che manovrano in silenzio, armeggiando alle tue spalle. Tu li senti, ma non puoi voltarti, non puoi vederli in faccia.
La sensazione di impotenza di fronte a questa certezza era come un’ancora che impediva al suo cuore di risalire in superficie, e respirare.
Era tutto così confuso nella sua mente, nel suo animo!
Aveva lasciato qualcosa in sospeso, qualcosa a metà. Qualcosa di importante lo aspettava là, indietro, dove il suo cervello si rifiutava di arrivare, spinto lontano da invisibili mani scure. Guantate.
Cercava di rievocare l’immagine che, qualche ora prima, era riuscito a catturare nella camera da letto di Henry ed Elsa. Quel senso di sollievo al tocco di quella mano. Protese in avanti la mente per affondare in quella sensazione, calda e confortevole come un piumone in inverno. Si lasciò scivolare e avvolgere, desiderando che gli venisse sonno.

Lo schianto fu talmente violento che qualche ceppo disposto ordinatamente sulle mensole cadde a terra e rotolò verso di lui.
Il giovane si svegliò improvvisamente, in un sussulto.
- Ma chi siete? Cosa volete da me e mia moglie? -.
Avvertì chiaramente il panico nella voce di Henry.
- Per l’amor del cielo, lasciate in pace mio marito! -.
- Ci siete solo voi qui? -.
La voce gli era totalmente sconosciuta.
- Siamo vecchi. I nostri figli non vivono più con noi… -
- Ospiti? -.
Quella voce cercava lui.
Ci fu silenzio. Sentì una goccia di sudore scendergli sulla tempia.
Passi che si allontanavano, andavano al piano superiore. Non ci sarebbe voluto molto prima che entrassero a perlustrare anche quella stanza, sebbene fosse nascosta. Lo sapeva, perché se lo aveva sentito lui, lo avevano sentito anche loro: il rumore che avevano fatto i ceppi cadendo.
Sedie che si scostano e scricchiolano: qualcuno si era seduto.
Nessuno parlava.
Potendo solo ascoltare per capire ciò che accadeva, l’uomo si sentiva invadere dall’impazienza. Certo, non avrebbe fatto niente per accelerare le cose.
I passi che erano saliti al piano superiore erano tornati in cucina.
- Non abbiamo trovato nessuno -.
Voce giovane e inesperta.
- È plausibile che dicano la verità -.
Voce calma e razionale.
Breve attimo di silenzio.
- Non avete notato movimenti sospetti? -.
Avvertiva nella voce dello sconosciuto una certa soddisfazione, come se non avesse bisogno di sapere altro.
Fu Henry a rispondere.
- No, nessuno -.
I conti non tornavano: come potevano aver già finito? Nella sua esperienza (era sicuro di averne per quelle cose) sapeva di aver conosciuto persone che agivano così senza convincersi tanto facilmente. Persone che non si fidavano di nessuno, e di cui era meglio non fidarsi. Persone che lasciavano terra bruciata ovunque passassero.
Bruciata.
Fu tentato di fare un gran baccano per farsi notare da quegli uomini, ma capì che, trovato o meno qualcosa, avrebbero dato fuoco alla casa comunque.
- Probabilmente è fuggito -, fece la voce calma e razionale.
- O sono fuggiti -, precisò il capo.
No, non erano gli uomini che lo avevano inseguito nei boschi la notte precedente: quegli erano uomini di campagna, più anziani di quello che stavano ora interrogando Elsa ed Henry.
Sentì il rumore sordo di un paio di colpi, quindi quello di qualcosa di molto pesante che piomba a terra. Qualcos’altro cadde invece sul tavolo. Intuì senza troppi sforzi che avevano dato una botta in testa ai padroni di casa.
Sentì armeggiare dietro al camino. Stanno cercando la latta della benzina, pensò.
Sentiva che la spargevano sui corpi, sul pavimento, fino al salotto. I passi andavano sulle scale e nelle stanze di sopra. Un tonfo confermò che il lavoro era finito e il barattolo vuoto era stato abbandonato.
Sentì il frigolare della fiamma sopra la sua testa.
Gli uomini corsero fuori.
Le ruote sgommarono sul selciato e l’auto si allontanò.
Istantaneamente l’aria divenne irrespirabile.

PRIMA PARTE – PRIGIONIA

CAPITOLO 3 - Esplorazioni sul nascere di un progetto di fuga

C'erano parecchie cose che Samantha sapeva di quelle tre. La prima era che erano sorelle, era evidente, persino un cieco se ne sarebbe accorto: il modo atroce in cui vestivano, la scomposta maldestrezza dei loro movimenti, gli stessi lineamenti sgraziati.
La seconda, che i loro quozienti di intelligenza, approssimativamente vicini, erano molto bassi, rasentando il ridicolo.
La terza, che solo loro potevano ridere in quel modo atroce, sembrava il verso che emette una gallina quando le viene tirato il collo.
Non avevano nemmeno la decenza di soffocare i loro rantoli disgustosi, schiamazzavano sonoramente come tutte le ragazzine un po' troppo esibizioniste, che poi si guardano intorno per vedere se qualcuno si è voltato dalla loro parte.
Fino a poco tempo prima, lei e Jeff passavano parte dei pomeriggi raccontando loro storie fantasiose su mostri e assassini di ogni tipo, divertendosi a spaventarle a morte, e ridendo poi, ore dopo, nella loro stanza, richiamando alla memoria le loro facce, le loro esclamazioni. Il più delle volte finivano col correre dalla loro mamma urlando e piagnucolando. La donna sbuffava alzando gli occhi al cielo, avvezza a quelle scene, probabilmente chiedendosi come poteva aver generato delle figlie tanto diverse da lei.
Era successo un paio di volte che il padre, nero di rabbia in volto, ma Sam vi aveva scorto anche dell'imbarazzo in più di una occasione, bussasse alla loro porta, minacciando di chiarire la questione con gli ufficiali se i ragazzi Spender non avessero smesso di "torturare e perseguitare le sue bambine!".
Il signor Spender, sempre calmo e impassibile, rispondeva soffiando fumo dalle labbra socchiuse, strizzando gli occhi e tenendo la sigaretta come se volesse gettargliela in faccia, tra medio e pollice. In genere borbottava un poco soddisfacente "Non si preoccupi, non le daranno più fastidio", e quindi se ne ritornava ad affondare sulla poltrona davanti al televisore, chiudendosi la porta alle spalle.
Da qualche settimana, però, quelle megere avevano potuto tirare il fiato. Sam buttò lo sguardo sul selciato, alla ricerca di una bella pietra bianca e tonda da lanciare loro contro, qualsiasi cosa pur di farle smettere di ridere.
Non le vedeva da sotto la veranda dove era seduta, ma capiva che si trovavano fuori dal campo. Di giorno la sorveglianza non era così stretta come di notte. Di giorno vedono dove sei e cosa stai facendo.

" … A volte mi dico che Jeff non mi parla più a causa dei miei incubi notturni, a causa di quello che dico mentre parlo nel sonno…"

- Sam, sei sulla veranda? -
- Si, mamma! -

" … Chissà, magari parlo male di lui!…"

Sorrise. Si rigirò la penna tra le dita un paio di volte, lasciando che le labbra le si rilassassero piano, piano.

- Scrive alla sua amichetta del cuore! -
Sam alzò lo sguardo. Le tre sorelle erano davanti al vialetto di casa sua, e la guardavano con aria beffarda. Il sorriso le si accentuò: solo dei microcefali come loro potevano trovare un espediente tanto debole per deriderla. Almeno, si disse, io un'amica ce l'ho: voi, in quanto sorelle, siete obbligate a sopportarvi a vicenda.
Dolorosamente i pensieri andarono a Jeff, che chissà dove e quando era sparito quel pomeriggio, subito dopo pranzo. Aveva anche pensato fosse per la vergogna di mostrare a lei e a sua madre quel livido che aveva sotto lo zigomo, se non altro per risparmiarsi il dovere di raccontare come se lo era procurato. Sapeva da fonte sicura che era stata Barbara, che aveva messo in pratica i suoi propositi.
- Dov'è tuo fratello? -, chiese la più grande delle tre, Agatha, sua compagna di classe.
- Non so dove sia. Aveva una faccenda urgente -, rispose Sam, riabbassando lo sguardo sul suo blocco.
Non sopportava dover spiegare a loro dove fosse Jeff e perché non fosse lì con lei. Non poteva reggere all'umiliazione di essere interrogata su quell'argomento proprio da loro. E sperò ardentemente che non le facessero altre domande.
- Non siete insieme? I fratelli indivisibili? Non ci posso credere!!! -.
Ecco, lo aveva fatto. Ora era autorizzata dalla legge dell'onore a fiondarsi su di lei e strapparle quei ridicoli capelli dalla testa.
- Meno indivisibili di voi, a quanto vedo…-, si limitò invece a rispondere, senza alzare gli occhi dalla lettera.
- Si, hai proprio ragione. Noi ci vogliamo un mondo di bene! -.
Brave! Imparate l'ipocrisia da piccole. Di tutte le cose buone che si possono imparare dagli adulti per crescere, proprio questa lezione vi è già entrata in quelle teste!?!
Come se lei e Jeff non si volessero bene!
Eppure… Ah, molte volte aveva detto e pensato cose orribili sul suo conto, in preda ad una rabbia e ad un risentimento tali che le pareva fosse impossibile provare sentimenti tanto laceranti per la stessa persona.
Data l'ora sperava che sua madre arrivasse con il tè caldo e i biscotti.
E puntuale sua madre arrivò a salvarla.
- Ecco qua, Samantha, penso tu abbia un certo appetito -.
Cassandra non si accorse subito delle tre ragazzine. Si sedette sulla panca in fianco alla figlia e fece finta di sbirciare nel suo blocco.
- A chi scrivi? A qualche spasimante che brucia per te? -
Samantha guardò beffarda le tre sorelle, sapendo che a loro non arrivavano mai lettere di spasimanti infiammati dalla passione.
- Mamma, sto scrivendo a Barbara! -
Piccolo momento di rivalsa, condita con estasi. In un certo senso non odiava quelle tre mocciose: accanto a loro si sentiva sempre più fortunata, riusciva a catturare quei brevi attimi di felicità che, ultimamente, si facevano sempre più rari.
Cassandra, vedendo dove Sam stava guardando, si accorse delle tre. Sembrò per un attimo disorientata, ma si ricompose subito. Sapeva che a Sam non piacevano affatto quelle ragazze. Non le invitò quindi sotto la veranda a fare merenda con loro, ma, con tono deciso da medico, disse:
- Scusate, ragazze, ma Sam non sta bene e ha bisogno di riposare. Quindi, per favore, venite a trovarla domani, quando starà meglio -.
Le sorelle sorrisero imbarazzate, inciampando nei loro piedi mentre si allontanavano spedite.

- Sei sveglia? -.
La voce di Jeff dietro di lei risuonava metallica, attutita dalla musica che usciva dagli auricolari. Il volume era abbassato quel tanto che bastava per sentirlo entrare, quando sarebbe entrato.
Avvertiva quella domanda come una semplice e fredda domanda di cortesia. Jeff si stava accertando che Sam dormisse per non essere costretto ad ignorarla. Dio, come faceva male!
- Sì -.
- Che fai al buio? -.
Sam si tirò su appoggiandosi ai gomiti e si girò verso di lui. Jeff notò i cavi degli auricolari.
- Ah… -.
Si guardarono nella penombra. L'unica fonte di luce era il lampadario nel corridoio. Ma Sam sapeva che suo fratello la stava guardando. Non fosse altro che per il rettangolo luminoso della porta che cadeva proprio su di lei.
Piagnucolare non era mai servito a niente, questo Samantha lo sapeva, ma voleva sapere.
- Jeff, perché sei arrabbiato con me? -
- Io non sono arrabbiato con te. Non siamo più bambini, non possiamo continuare a giocare insieme. Il tempo passa e io sono un uomo… -
Sam sorrise e Jeff la vide sorridere.
- So che non è questo il vero motivo e mi stupisco che tu abbia avuto il coraggio da fare un'affermazione tanto azzardata! -
-… e nemmeno tu sei più una bambina… -
Questo era vero. Almeno biologicamente.

Qualche settimana prima Sam si era svegliata nel cuore della notte, urlando e blaterando che aveva un'emorragia e che sarebbe morta. Jeff si era alzato sconvolto, agitato da tutto quel fracasso.
Aveva acceso la lampada sul suo comodino e si era avvicinato tremante al letto della sorella. Sam lo guardava supplichevole, spostando lo sguardo da lui alle proprie lenzuola intrise di sangue.
Jeff capì subito cosa aveva messo in agitazione la piccola e ingenua Samantha. Aveva scosso la testa per rassicurarla. Quando si fu calmata l'aveva accompagnata in bagno, dove Sam si era fatta una doccia, mentre lui andava a rovistare nei cassetti della madre, dove sapeva di trovare degli assorbenti. Quindi era tornato da Sam, bussando alla porta li aveva allungato la scatola ed era tornato in camera, per sistemare le lenzuola.
Alla fine aveva capito che non c'era altra soluzione se non buttarle via.
- Ma proprio oggi che la mamma non c'è! -, aveva esclamato, cercando di non farsi udire dalla sorella.
Il resto della notte era stato consumato su un vecchio libro di biologia, in cui Sam aveva trovato tutte le risposte alle sue domande, assistita dal fratello con infinita pazienza.
Infine, tranquillizzata, si era addormentata fra le sue braccia, il respiro regolare, i capelli profumati.
Ancora questo profumo, aveva pensato Jeff. Si lavavano i capelli con lo stesso shampoo, ma i suoi non profumavano così!
Qualsiasi cosa, su Sam, era diversa: più buona, più dolce.
L'aveva abbracciata disperatamente, quasi fosse l'ultima volta che ne avesse la possibilità, e, dopo tanto tempo, aveva pianto, silenziosamente, bagnandole il viso con le sue lacrime.
L'avevano portata lì, l'avevano fatta giocare con lui. Questa è la tua nuova sorellina, gli avevano detto.
E ora gliela stavano portando via. Aveva quasi sperato che se ne dimenticassero, che la lasciassero in pace, che lei rimanesse per sempre lì, con lui.
Lui aveva solo Sam, e Sam aveva solo lui.
Ma loro non dimenticano, non sbagliano, non tralasciano niente.
Non sapeva chi era stata prima di venire lì. Non sapeva se aveva fratelli o sorelle, se era orfana o se l'avevano portata via dalla sua famiglia.
Ma sapeva che niente, ora, avrebbe impedito a quegli uomini di farle del male.

Sam rise sonoramente.
- Piantala di atteggiarti da adulto: non hai ancora la patente! -.
- Ci risentiamo fra un mese, quando mi supplicherai per portarti a fare un giro in auto, la MIA auto! -.
Sam lo guardò incredula.
- Ma tu non hai la macchina, Jeff. Cavoli, nemmeno la mamma guida la macchina! Solo papà la guidava, ma ormai… -, si morse le labbra.
- … non tornerà più -, Jeff finì la frase per lei.
Si guardarono, gli occhi sofferenti.
- Mamma mi ha detto della telefonata. Mi ha detto che papà starà lontano per parecchio tempo a causa del suo nuovo incarico alla NASA… ha detto che dovrà viaggiare molto…-
- L'ho sentita piangere. Ha tentato di darmi spiegazioni, ma mi sono rinchiusa in camera. Non volevo ascoltarla. So che ho fatto male, ma… -. Ebbe un tremito e non fu più in grado di proseguire.
Si sforzò di non piangere.
Jeff iniziò a giocherellare con il copriletto di Sam, attorcigliandoselo attorno alle dita.
Ruppe il silenzio quasi per sbaglio.
- Ho trovato un lavoretto part-time, alla paninoteca che c'è dall'altra parte del parco. E' là che sono andato oggi -.
- E' così che pensi di pagarti la macchina? -; la sua voce era un soffio adesso.
- Devo pensare io a te e alla mamma adesso che papà non c'è -.
Sam guardò Jeff e un nuovo sentimento le invase il cuore. No, aveva ragione, non era più un bambino. Non era neanche un uomo, ma gli eventi gli imponevano di crescere in fretta.

- Ehi, Jeff, che ne dici? Ti va di unirti a noi? -.
Jeff continuava a dare energiche passate con lo straccio sul bancone. Non sentiva quello che Brad e gli altri dicevano. Nella sua testa risuonavano le parole di Sam. "L'ho sentita piangere, ha tentato di darmi spiegazioni…" . Si sentiva perso, adesso, non ancora pronto per quel compito. E il solo pensiero che Sam se ne stava andando… Lavorare lo aiutava a non pensare, a non soffrire.
Sarebbe restato solo.
Sapeva che suo padre avrebbe continuato a prendersi cura di lui, economicamente, ma non era questo che voleva.
Sentiva il suo cuore trasformarsi a poco a poco in un pezzo di ghiaccio.
Il bancone fu scosso da un pugno. Jeff allora alzò lo sguardo su Brad.
- Noi si va nella prateria. Sembra che i mocciosi abbiano trovato qualcosa -.
Jeff sapeva dov'era la prateria: era un campo di proprietà della contea, abbandonato, in cui sterpaglie e piante selvatiche avevano proliferato, interrompendo il regolare e rassicurante paesaggio di campi coltivati che circondava la base.
E sapeva anche chi erano i "mocciosi": erano i ragazzini delle medie, i compagni di classe di Sam.
- Cosa? -, chiese, fingendosi interessato.
- Bah, niente di eclatante. Sono mocciosi. Ma per sicurezza andiamo a dare un'occhiata. Dobbiamo tenerli sotto controllo -.
Jeff guardava Brad e si rendeva conto che lo disgustava: erano amici da anni, andavano a scuola insieme dalle elementari e avevano sempre fatto comitiva, trascinando i più piccoli. Quando era arrivata Sam, però, aveva iniziato ad uscire meno con lui e con gli altri ragazzi, preferendo stare con la sorella. Si era reso conto che non voleva diventare come loro, non voleva far scappare terrorizzati i ragazzini più piccoli, non voleva terrorizzare Samantha.
Sempre con la cicca in bocca, come se bastasse qualche grammo di tabacco a renderti uomo!
Si toccò istintivamente la guancia. La sera prima, baciandolo per augurargli la buona notte (sapeva che si sentiva sollevata dopo che si erano parlati), Sam aveva mugugnato e si era massaggiata le labbra.
- Fatti la barba! -, gli aveva detto, ma era quasi certo che lo avesse fatto solo per prenderlo in giro.
Ma si rese conto che, in effetti, qualche peletto solitario c'era, al lato della bocca.
- Ehi, bell'addormentato! Pensi alla fidanzata?!?!? -, esclamò Brad ad alta voce e scoppiando subito a ridere.
Jeff lo guardò con odio: non ammetteva che si facessero illazioni su lui e Sam. Brad era sempre stato geloso di lei, ritenendola responsabile del suo cambiamento. Non che fosse falso, in effetti era proprio così, ma Jeff non la riteneva una colpa; piuttosto un merito.
Brad aveva cominciato a chiamarli "i due fidanzatini", perché tanto tutti sapevano che Sam non era realmente sua sorella. Poco male, la cosa non lo infastidiva affatto. E poi, col tempo, Brad sembrava aver accettato la cosa, sembrava disposto a dividere l'amico con Sam.
Uscirono dal locale.
Jeff non aveva dato più di tanto peso a quello che avevano detto. Cosa vuoi che possano aver trovato in un campo abbandonato? Un porcospino o un altro animale selvatico morente o addirittura già morto. Ci avrebbero giocherellato per qualche ora, con tutta la cattiveria di cui i bambini (e, dicendo così, incluse anche Brad e la banda) sono capaci.
- Ehi, Jeff, non devi andare a casa a studiare adesso? -.
Il signor Sweeney era disponibile e gentile, come pochi datori di lavoro lo erano. Non che Jeff ne sapesse qualcosa di datori di lavoro, essendo quello il suo primo, vero impiego.
- Dai, vai, ormai non c'è più nessuno. So che stai anche studiando per la patente… -.
- Già, sto cercando di crescere bene, per quanto mi è possibile! -.
Prima ancora di impedirselo aveva buttato lì una semi-confessione a quell'uomo che, per quanto fosse comprensivo e amabile, era pur sempre un semplice conoscente.
Il signor Sweeney fu un po' sorpreso, ma per nulla disturbato dalla rivelazione. Sfoderò un ampio e sincero sorriso sotto i suoi baffoni da vecchio cowboy e gli diede una rumorosa pacca sulla schiena.
- Vai, vai. Sei un bravo ragazzo! -.
- Grazie, ci vediamo domani pomeriggio -.
Jeff sorrise un po' imbarazzato, si tolse velocemente il grembiule, lo appese al gancio dietro il frigo e si lanciò fuori, inforcando velocemente la bicicletta e pedalando con foga in direzione della base.
Buttò uno sguardo alla prateria: c'era la decappottabile scassata di Josh che stava in bilico fra il ciglio della strada e il campo. Ma non vedeva nessuno.
Si fermò e si guardò intorno. Non c'era traccia di nessuno lì intorno, né la banda, né i mocciosi.
Non voleva immischiarsi in quella faccenda, anche perché sicuramente Brad avrebbe cominciato a fare il cretino con i bambini e li avrebbe terrorizzati, com'era suo solito e lui non voleva assistere ad uno spettacolo simile.
Sicuramente se fosse rimasto lì, Brad ci sarebbe andato giù pesante, per farsi vedere grosso e forte davanti a lui, quasi a dire: sono più uomo di te. Perché era di questo che si trattava, no? Era sempre stata una gara fra loro due, per chi era più uomo.
Sam gli aveva risparmiato tutte le figuracce che invece erano toccate a Brad.
Vide delle sterpaglie muoversi, dove il terreno si increspava e cominciava una specie di collinetta.
Delle voci che conosceva bene venivano da là.
- E' troppo stretto, non ci passiamo. Dovremmo trovare… -.
Josh si accorse di Jeff e sorrise inebetito. Jeff si chiese se non ci fosse dell'artificiale in quel sorriso.
- Ehi, Brad, guarda chi ci ha raggiunto? -.
Brad si stava spazzolando i pantaloni sporchi di terra.
- Chi si rivede, il buon vecchio Jeff. L'uomo maturo! -, disse ghignando soddisfatto.
- Alla fine ci sei venuto, eh? -.
- Ho visto la macchina, e non vedendo nessuno vicino, pensavo fosse successo qualcosa… -.
- Beh, l'importante è che adesso l'uomo è qui -, tagliò corto Brad, cingendogli le spalle con un braccio e portandolo verso la collinetta.
E, una volta là, e una volta che vide quello che avevano scoperto (un cunicolo fognario, forse per svuotare qualche bacino idrografico lì vicino o per convogliare l'acqua piovana che si raccoglieva spesso troppo abbondante nella zona), Brad disse qualcosa che lo lasciò esterrefatto. Mai lo aveva sentito dire una cosa del genere.
- Ci serve tua sorella, uomo. Lei è piccola e magra, ci passerà -.

Nella casa c'era un silenzio irreale. La porta di entrata era spalancata e questo gli mise addosso una certa ansia.
- Samantha? Mamma? -, urlò, cercando di non sembrare troppo nervoso, ma senza riuscire ad evitare che la voce gli uscisse tremolante dalle labbra.
Nessuna risposta.
No, no, fa che non l'abbiano già portata via!
Entrò in cucina. La tavola era apparecchiata, le pentole sul fuoco sbuffavano e schiumavano spazientite. Si avvicinò ai fornelli e spense il gas.
Fece il giro della tavola. Nel tornare in sala inciampò in una sedia rovesciata sul pavimento.
Bastò quel particolare per farlo precipitare nel panico più buio. Corse in corridoio, spalancando e sbattendo le porte, chiamando a gran voce la madre e la sorella, cercando febbrilmente ogni segno del passaggio di estranei.
Corse fuori. Bussò alle porte delle residenze vicine, prima i McNamara, quindi i Kelly, vicini di casa di cui non si era mai curato, chiedendo se avevano visto o sentito qualcosa di strano. Nessuno poteva dire cosa fosse successo; nessuno aveva visto uomini girare attorno alla casa, nessuno aveva visto entrare o uscire qualcuno da casa sua.
I bambini lì intorno continuavano a giocare come facevano tutti i pomeriggi, prima che le madri li chiamassero per la cena.
Si avvicinò ad alcuni di loro.
- Ehi, Greg, hai per caso visto se mia madre o Sam sono uscite di casa mentre io non c'ero? -. Cercava di sembrare il più tranquillo possibile, ma, a quanto pare, non c'era riuscito granché bene, dato che il piccolo Greg lo guardava stranito, facendo segno di no col capo. Anche gli altri bambini negarono di aver visto qualcosa.
Jeff, come ultima risorsa, decise di andare all sbarra, chiedendo se nelle ultime ore, erano entrati degli uomini incravattati e taciturni. Ma il giovane sergente al casello si limitò a rispondere con un confuso "No, non mi pare. Ci sono problemi?", per non ricevere alcuna risposta da Jeffrey, che già si era mosso in altra direzione.
Alla fine esausto, era tornato in casa e si era gettato sul proprio letto, affondando il viso nel cuscino, premendoselo sugli occhi, quasi a fermare le lacrime.
L'avevano portata via, mentre lui non c'era. Le aveva promesso che si sarebbe preso cura di lei, che l'avrebbe protetta, ma non era lì con lei quando c'era stato veramente bisogno di lui.
Aveva fallito.
Si sentiva il corpo scosso da brividi incontrollabili. E forse, se per un attimo non si fosse distratto dal suo dolore, non avrebbe sentito che, poco distante da lui, qualcuno stava singhiozzando.
Si issò sulle braccia, guardandosi intorno con gli occhi rossi e gonfi.
Vide il cesto della biancheria attraverso la porta aperta, nel bagno. Era un cesto di vimini, scuro, a forma di anfora, uno dei pochi regali che risalivano al periodo in cui il matrimonio dei suoi genitori era un limbo felice e ovattato, che sua madre ogni tanto ricordava con rimpianto e nostalgia. Alle volte, da bambini, lui e Sam si erano nascosti lì dentro per fare uno scherzo alla mamma, per farla ridere.
Si alzò dal letto e andò in bagno. Tolse il coperchio. Ci fu un urlo lacerante, quindi un pianto disperato e pieno di paura. Sua sorella se ne stava rannicchiata sul fondo, coprendosi il capo con le braccia, mugugnando fra un singhiozzo e l'altro.
- Vi prego, non fatemi del male! Vi prego! … -.
Jeff si sentì svenire. Si lasciò scivolare sul pavimento, avvinghiando le dita intorno al bordo del cesto, tenendo nell'altra mano il coperchio, e si lasciò andare ad un pianto dirotto.
Dopo un paio di minuti, tra mille sforzi, riuscì a recuperare il controllo.
- Sam, stai bene? -, le chiese, con un filo di voce.
Sam si calmò all'istante al suono della voce del fratello, tirò su rumorosamente col naso, sospirando esausta.
- Si… Hanno preso la mamma -.
Sentì le sue piccole dita accarezzare le sue, intrecciarsi e aggrapparsi, quasi avesse paura di cadere.
Appoggiò la fronte al cesto, ben sapendo che Sam stava facendo la stessa cosa.
Avvertiva il calore del suo viso sconvolto dal pianto vicino al suo, attraverso le trecce di vimini. Strinse forte la presa sulle dita di Samantha, in una comune preghiera.
- Mi dispiace… -.

Erano uno di fronte all'altro. Samantha aveva in mano una tazza fumante di camomilla, ma non dava segno di volerne neanche assaggiare un sorso. Seduta come una bambola inanimata sul divano, il corpo rigido, le mascelle serrate, lo sguardo fisso all'infinito, riusciva a metterlo in agitazione più che se avesse ricominciato a piangere disperata.
Jeff, seduto sulla poltrona, aveva abbandonato i gomiti sulle ginocchia, le mani saldamente cinte intorno alla tazza, cercando di ricavarne un certo sollievo. Guardava il suo viso riflettersi e ondeggiare nel liquido giallastro, lasciando che il vapore caldo gli si condensasse sulla pelle. C'era un freddo insolito, a quell'ora della sera, un freddo che gli fermava il respiro, che gli bloccava lo stomaco, e si rendeva conto che nemmeno lui aveva tanta voglia di bere la camomilla.
Alzò lo sguardo sulla sorella. Sapeva che presto avrebbe cominciato a ricordare. E allora cosa le avrebbe raccontato? Avrebbe avuto il coraggio di dirle "Si, Sam, io so cosa ti fanno, l'ho sempre saputo"?
Aveva sempre avuto un certo sesto senso per le azioni di suo padre e dei suoi strani colleghi. Non più strani di lui, comunque.
Li vedeva, quando portavano via sua madre, quando le dicevano cosa fare, quando la costringevano a dimenticare. Sua madre era diventata un'ameba nelle loro mani che si lasciava manipolare e plasmare, piegata al loro volere.
Era cresciuto con la convinzione che non c'era altro tipo di rapporto che si potesse instaurare con un altro essere umano.
La sua indifferenza e apatia nei confronti delle sofferenze umane lo avevano convinto di essere superiore agli altri, avvertiva l'ammirazione e l'orgoglio di suo padre per lui. Anzi, aveva quasi la sensazione che suo padre volesse che lui sapesse, che vedesse cosa succedeva a quelli che erano "diversi". Era convinto che avrebbe preso il suo posto, un giorno.
O, per lo meno, che suo padre lo volesse.
E poi era arrivata Sam.
Era sempre stato odioso con lei: avevano giocato, avevano scherzato e perseguitato i loro amichetti più stupidi, avevano visto insieme i film a tarda notte e si erano abbuffati di dolci di nascosto. Ma questi momenti di complicità si alternavano a certi altri, i cui lui si era rivelato insensibile e indifferente, distaccato quasi. Il loro rapporto era sempre stato caratterizzato da un'ambivalenza strana. In fondo, non era molto diverso dal possedere un cane o un criceto, per lui.
Un bambolotto con cui giocare.
Ma Sam non era un giocattolo, e nemmeno un criceto. Sam era un essere umano, la creatura più indifesa che conoscesse. Senza che lui se ne rendesse conto, negli anni, si era insinuata nelle pieghe del suo inconscio e aveva preso un posto importante nel suo cuore.
E questa consapevolezza, l'orrore di fronte alla sua meschinità, lo avevano a tal punto spaventato che aveva tentato con tutto se stesso di allontanarla da lui, di farsi odiare, di "svezzarla", quando avevano iniziato gli esperimenti anche su di lei.
Ma Sam avvertiva questo suo sentimento per lei, sapeva che lui le voleva bene e non voleva lasciarlo andare.
Alla fine si era arreso, vinto dalla sua determinazione, l'aveva accolta nel suo cuore, e questa volta non voleva lasciare che la prendessero.
Appoggiò la tazza sul tavolino, si allungò verso Sam, inginocchiandosi ai suoi piedi e posando entrambe le mani sulle sue ginocchia serrate.
- Sam, adesso… -, cominciò, sforzandosi di avere il tono più dolce e accondiscendente possibile. Ma Sam lo interruppe bruscamente.
- Tu lo sapevi, vero Jeff? -, disse pacamente, con un tono più di sconforto e delusione che di vera e propria accusa. I suoi occhi erano giudici implacabili.
Non poté fare altro che abbassare lo sguardo sulle proprie mani, stringendole dolenti intorno alle ginocchia della sorella, attento a non farle male. Iniziò ad accarezzarle con i pollici, disegnando dei cerchi sulla sua pelle candida.
- E sapevi che volevano anche me -. Questa volta non glielo chiese, lo disse e basta. Jeff serrò gli occhi, portandosi le mani al viso.
- Era questo che non volevi dirmi? Erano loro che la portavano via! E ora volevano portare via anche me! Cosa le fanno, Jeff? Cosa volevano fare anche a me? -.
Jeff si sentì sfondare da un masso precipitato da cinquanta metri su di lui.
- Sam, tu non ricordi nulla, ma presto lo farai…-.
La guardò. L'orrore si dipingeva sul suo volto delicato, trasformandolo in una maschera di terrore. Il labbro inferiore iniziò a tremarle, le guance si fecero rosse di rabbia, gli occhi di nuovo lucidi.
La ragazza si alzò di scatto e corse in camera, chiudendolo fuori. Sentì che ricominciava singhiozzare.

Erano ore che se ne stava raggomitolato sul divano, in preda a tanti a tali sensi di colpa che si chiese chi gli aveva insegnato la colpa. Non certo suo padre, un uomo senza morale e senza anima non aveva un posto dove lasciare che il senso di colpa lo divorasse come un tarlo. E non certo da sua madre, una presenza a metà, trattata alla stregua di un topolino da laboratorio.
L'umanità che era in lui la doveva a Samantha, e ora la sua "maestra" lo aveva chiuso fuori dal suo cuore, al di là della trincea delle persone di cui avrebbe potuto fidarsi.
La casa era sprofondata silenziosamente nel buio della notte.
Di solito era di notte che venivano a prendere la madre. Come mai questa volta erano venuti di giorno?
Era cambiato qualcosa.
La porta della camera si aprì. Vide la sagoma della sorella attraversare affannata il corridoio e correre in bagno. La sentì armeggiare con la tazza del wc e iniziare a vomitare. Corse anche lui in bagno, pronto a soccorrerla. Prese un asciugamano, lo bagnò sotto il lavandino e lo usò per tamponarle la fronte. Sam stava sudando. Anzi, era madida di sudore. La maglietta le era rimasta schiacciata contro la pelle, i capelli erano umidi e appesantiti, tremava dalla testa a i piedi.
Un riso amaro le salì dalla gola, una volta che i conati furono cessati e lei si fu accasciata sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro sotto la finestra, gli occhi chiusi.
Jeff continuava a passarle l'asciugamano sul viso, sui capelli, sul collo. Aveva profondi e spaventosi solchi neri sotto gli occhi, la pelle pallida, le labbra violacee.
- Come mai non ricordo nulla di quello che mi hanno fatto? -
- Non lo so. Credo che facciano qualcosa al tuo cervello perché tu dimentichi -.
Ci fu un attimo di silenzio. Sam aveva aperto gli occhi e aveva posato su di lui uno sguardo inespressivo. Lei che era sempre stata un vortice di emozioni e sentimenti.
- Io sento che qualcosa sta cambiando. Sento che il mio corpo sta diventando qualcosa di diverso. E non si tratta del diventare donna, Jeff; quella è un'evoluzione -.
Jeff era pietrificato. La guardava, cercando di capire il significato di ciò che lei cercava di dirgli.
Deglutì a fatica, sentendosi la gola arida.
- Ascoltami. Loro non ti lasceranno in pace, non possono. Devi lasciar loro credere che tu non sai niente -.
Una luce si era accesa nel fondo dei suoi occhi. Jeff ne fu sollevato.
- Troveremo il modo di farti fuggire di qui -.

Brad gironzolava intorno a Sam come fosse l'ultimo modello della moto più splendente e potente sul mercato. E questo infastidiva parecchio Jeff.
- Allora, Brad, ti vuoi dare una mossa? Dille quello che deve fare e falla finita! -, aveva esclamato, spazientito.
- Certo, uomo, certo, non preoccuparti -. Poi si rivolse a Sam, tendendole una mano, volendo imitare qualche gesto cavalleresco, ma risultando solo ampliamente ridicolo.
- Prego, signorina Spender, le illustro la situazione -.
Si avvicinarono all'imboccatura del tunnel. Ne usciva un freddo fastidioso. Jeff vide i peli sulle braccia della sorella rizzarsi e la pelle increspata da un brivido. Aveva solo freddo o anche paura? Allungò una mano a catturarle il polso. Lei lo guardò e lui le offrì il suo sguardo di conforto.
"Non preoccuparti, piccola" , voleva dire quello sguardo, "qui tengo tutto sotto controllo".
Brad spiegò a Sam quello che avrebbe dovuto fare.
- I mocciosi hanno troppa paura per entrarci. Ma tu no, tu sei coraggiosa. E poi, con il tuo corpicino agile e snello … - e dicendo così la guardava nello stesso modo di prima, solo che, questa volta, Jeff notò un lampo sconosciuto, l'occhiata che Brad scoccò a Sam era del tutto nuova. Capì che non era buon segno.
- … non avrai alcuna difficoltà a calarti nel tunnel -.
Sam si accucciò davanti al buco scuro di fronte a lei. Lo scrutò strizzando gli occhi. Quindi si girò verso il fratello, alla ricerca di altro conforto. Lui sorrise, fingendo una tranquillità che non aveva.
- Sarò dietro di te -.
Lei si sentì meglio, appoggiò entrambe le mani sopra il bordo superiore; allungò una mano a Brad, per prendere la torcia a batterie, quindi si spinse con forza nell'oscurità.
Jeff si accucciò dietro di lei, si mise anche lui carponi e penetrò nel tunnel. Di seguito entrarono Brad, Josh e Greg. Ognuno di loro aveva una torcia in mano.
- Sam, cosa vedi? -, urlò Brad.
- Per il momento solo il tunnel. Non sembra restringersi. Però potrebbe farlo. Attenti ai ragni! -, dicendo così emise un suono rauco, quasi sforzato. Capirono che stava schiacciando qualcosa. Josh rabbrividì.
- Sei un cagasotto, Kelly -, disse Brad, sogghignando a bassa voce.
Ad un tratto Sam si fermò.
- E adesso? -, urlò rivolta indietro.
- Cosa succede? -, chiese Jeff, allarmato.
- Il tunnel si biforca -, e dicendo così si scostò quanto poté, per dar modo al fratello di vedere con i suoi occhi.
- Che c'è?!?!?! -, sbraitò Brad dietro di lui. Jeff notò con soddisfazione che Sam faceva roteare gli occhi, chiaro messaggio della bassa opinione che aveva dell'amico del fratello.
Jeff si guardò alle spalle.
- C'è un bivio -, disse, laconico.
- Andate a sinistra: a destra c'è la strada; di là il tunnel si potrebbe restringere -.
Proseguivano.
Sam si rivolse al fratello bisbigliando, cercando di non farsi sentire dagli altri.
- Che ore sono, Jeff? -.
- Le sette -. Erano partiti da circa dieci minuti.
- Siamo in troppi qui, comincia a mancare l'aria -.
- Vuoi che torniamo indietro? Non ce la fai più? -.
- Lo sai, vero, che per tornare indietro dovremmo gattonare al contrario? -.
- Si, lo so. Sarà divertente! -, e così dicendo aveva ghignato in modo malefico, lo stesso ghigno che aveva conservato, da bambino, per le tre sorelle nefande.
Sam sorrise, nostalgica. E quel sorriso fece venir voglia a Jeff di essere fuori di lì.
- Ehi, che confabulate voi due? Perché vi siete fermati?!?!? -.
- Ehilà, gentleman, che ne dici di uscire di qui? -, urlò Jeff, senza togliere gli occhi da quelli di Sam.
- Cosa c'è? Cosa avete visto? -, chiese Brad, preoccupato.
- Un bel niente! Ecco perché vogliamo uscire! -, rispose seccato Jeff.
- Ok, ok, è più che sufficiente per oggi -.
"Più che sufficiente!", pensò Jeff sbuffando e scuotendo la testa. "Cos'è? Un compito in classe? Deve darci i voti alla fine del semestre?".
La manovra risultò molto più complicata del previsto. Jeff si rese conto che, per simili spedizioni, sarebbe stato meglio in futuro, essere nel numero minimo di persone.
Per uscire ci impiegarono il doppio del tempo. Quando furono fuori era buio pesto.
- Ok -, disse Brad, quando tutti si furono aggiustati e ripuliti, ancora convinto di dover essere il capo della spedizione. - Domani è sabato. Ci troviamo qui domattina alle otto. Entreremo due per volta, per non incappare di nuovo in simili problemi -, concluse.

- Allora -, cominciò Jeff, una volta che furono soli, lontano da orecchie indiscrete, - dove credi porti quel tunnel? -.
- Non c'è un bacino idrografico da queste parti? -, domandò Sam, cercando di guardarsi intorno, scrutando l'oscurità che li circondava.
- Ce ne sono abbastanza -, sottolineò il fratello.
- Non ti sopporto quando fai il saccente! -, aveva esclamato la ragazza, colpendolo con un docile pugno sulla spalla.
- Ugh! -, fece lui, stringendosi il punto dolente con la mano e fingendo una smorfia straziata.
Camminavano fianco a fianco, in direzione del campo. Si sarebbero presi una lavata di capo dal soldato di guardia, ma non era più importante. Entrambi i genitori erano lontani e niente avrebbe reso la situazione peggiore di quello che già non era. Quella scappatella notturna non avrebbe pesato affatto sulle loro teste.
Improvvisamente un pensiero attraversò la mente di Jeff, non invitato, non richiamato. Anzi, tutto pensava, in quel momento, in una tale circostanza, tranne che a quello. Si bloccò, la mano ancora stretta attorno alla spalla, lo sguardo perso all'orizzonte.
Sam si girò un paio di passi più avanti, rendendosi conto tardi che il fratello aveva rallentato.
- Cosa ti è venuto in mente? -, gli chiese, sinceramente allarmata.
Jeff scosse la testa, senza però riuscire a togliersi quell'espressione dal volto. Ma Sam decise che non voleva saperlo: dalla faccia del fratello, non sembrava così importante.
Quando Sam ritornò a guardare avanti, Jeff sorrise, a metà fra l'eccitato e l'imbarazzato. Pensò ancora al sorriso che Sam aveva fatto quando erano ancora nel tunnel.
Quel sorriso gli aveva messo addosso una fretta del diavolo, una voglia matta di tornarsene a casa. E adesso capiva il perché. Non era la prima volta, era già successo molte volte in passato: sua madre veniva portata via, magari il padre era fuori città per lavoro e loro avevano passato notti intere da soli, in casa.
Ma quella notte era diversa. Tra loro era cambiato qualcosa. I suoi sentimenti per Samantha gli apparivano sempre più nitidi.

PRIMA PARTE – PRIGIONIA

CAPITOLO 4 - Un faro nell'oscurità

"Ho bisogno di te, Scully.
La mia mente è un groviglio di parole e immagini.
Senza di te che rimetti ordine nei miei pensieri sono un naufrago.
Un naufrago alla deriva che naviga su una zattera alla ricerca della terraferma.
La tua voce mi dice dove andare.
Sei tu a guidarmi nella confusione, attraverso la pazzia, riconducendomi alla superficie.
Vedo la luce di un faro nell'oscurità: non so dove mi sta conducendo, ma sento che è la direzione giusta".

La fiamma crepitava nervosa.
"Il fuoco mi mangerà", aveva pensato. Scosse la testa per togliersi dalla testa quel pensiero assurdo. Doveva agire, e in fretta.
Con le braccia legate lungo i fianchi dello schienale, sapeva che la posizione era favorevole per una sola manovra. Portando in avanti il capo più che poteva, fino a toccarsi il petto con il mento, si fece un virtuale segno della croce e si buttò indietro, perdendo l'equilibrio e cadendo a pancia all'aria. Lo schianto fu rumoroso, ma fortunatamente quasi indolore. Il pavimento di legno aveva attutito la caduta, come aveva sperato, e ora aveva soltanto un gran dolore alla schiena.
Senza perdere tempo, aveva cominciato a far scivolare avanti e indietro le caviglie nella stretta fasciatura fatta da Henry qualche ora prima. Se solo avesse potuto immaginare che la sua meticolosità stava ora diventando il suo più grande errore, che stava per portarlo verso una fine inesorabile!
- Avanti, avanti! -, supplicava a denti stretti.
I nodi erano veramente stretti, aveva poco gioco con i piedi. Continuava comunque con la sua manovra. Intanto cercava di allentare anche la morsa agli avambracci, eseguendo lo stesso movimento.
Gli sembrò di impiegarci delle ore. Deglutiva a fatica, quasi dolorosamente, come se avesse le pareti della gola fatte in velluto.
Ora le fasce intorno alle caviglie si erano allentate notevolmente. Fece un tentativo. Il piede destro scivolò via dalla gamba della sedia. Una piccola vittoria.
Dopo un paio di strattoni, anche quello sinistro fu libero.
Aveva spostato gli avambracci all'interno dello schienale, in modo da non schiacciarsi il braccio sinistro nella manovra successiva.
Spinse con tutto il peso del proprio corpo da un lato, buttando le gambe a terra. Da quella posizione, appoggiò i piedi sul sedile in paglia della sedia, spingendo quanto poteva verso il basso. Non andò come sperava, ma non faceva differenza. La sedia, sotto la pressione delle sue spinte, si spezzò alla base dello schienale.
- Ah, le vecchie sedie di una volta! -, borbottò, mentre si trascinava faticosamente a sedere.
Si alzò in piedi. Aveva ancora le braccia legate dietro la schiena, ma, per il momento, andava bene così.
Sapeva dove si trovava la finta parete dell'armadietto di Henry. Cominciò a dare delle energiche spallate proprio in quel punto, sentendo fitte terribili dove i muscoli si schiacciavano al pezzo di sedia che ancora rimaneva saldamente ancorato al suo corpo.
La parete si spezzò sotto i suoi colpi, e lui si ritrovò con la parte superiore del busto nella cucina di Henry. Si rimise in posizione, questa volta dando colpi con i piedi.
Ora il varco era abbastanza largo da permettergli di passare. Si buttò subito su Henry, che era rovinato a terra.
Sentiva il fuoco sempre più vicino. Lo chiamò a gran voce. Ma l'uomo non si alzava.
Allora fece l'unica cosa che gli venne il mente.
Tese le braccia il più possibile, allontanando il pezzo di sedia dal proprio corpo. Quindi, con uno scatto, richiuse la braccia intorno ai fianchi, lasciando che ciò che rimaneva della sedia si schiantasse contro la propria schiena. Il dolore fu lancinante, ma sentì il legno spezzarsi e, a quel punto, liberarsi della fastidiosa imbracatura non fu difficile. Intanto Elsa si era svegliata. Un po' intontita, non capì subito cosa stava accadendo.
- Elsa, presto, dobbiamo uscire di qui. La casa sta andando a fuoco! -.
L'espressione del viso della donna cambiò da incredulità a terrore, quindi ad una più rassicurante determinazione.
- Mi aiuti a sollevare Henry -, urlò l'uomo, tossendo e respirando a fatica. Il panico si stava impadronendo di lui sempre di più.
Elsa si avvicinò a lui ed Henry.
Lo presero, lui a destra, lei a sinistra, e lo trascinarono in sala. Lì il fuoco aveva già cominciato ad attizzare.
Il giovane si sentì mancare il fiato nei polmoni, li sentiva piccoli e leggeri come palloncini sgonfi.
Tutto quel fuoco, un muro insormontabile, una minaccia visibile. Fu tentato di rannicchiarsi a terra, come un preda ferita a morte che aspetta solo il colpo finale del suo predatore. Portarsi le mani davanti agli occhi, per non vedere quello spettacolo raccapricciante, e poi coprirsi le orecchie per non sentire il rumore che faceva il fuoco mentre divorava ogni cosa con denti aguzzi.
Cercò di ritornare padrone della propria mente, pensando al presente, pensando a ciò che sapeva.
- Elsa, lei ed Henry siete stati cosparsi di benzina. Non possiamo passare di qui -.
- La finestra delle cucina! -, gridò la donna.
Si gettarono attraverso il vetro, procurandosi parecchie ferite. Rovinarono tutti e tre a terra, sul pavimento della veranda. Ormai il fuoco stava inghiottendo ogni cosa.
- Andiamo al furgone -, disse infine Elsa, tra i colpi di tosse, dopo aver dato un ultimo sguardo malinconico alla propria casa in fiamme.
Una volta dentro la cabina, Elsa si lasciò andare senza potersi impedire di piagnucolare come un bambina.
- Sono felice che Henry non sia sveglio per vedere questo spettacolo terribile -.
- Siete vivi, questo è l'importante -.
Seguirono attimi di silenzio, in cui contemplarono silenziosi gli ultimi istanti di vita della casa che Henry aveva iniziato a costruire, aiutato da amici, quaranta anni prima, quando si erano appena sposati e il loro primogenito non era altro che una creaturina irriconoscibile nel ventre di Elsa.
La donna, sospirando rammaricata, tornò alle faccende pratiche.
- Dobbiamo andare in ospedale… -, non fece nemmeno in tempo a finire che già ricominciava a tossire.
Ci fu uno schianto terribile. Il tetto era crollato, schiacciando ciò che rimaneva della scala e trascinando il piano superiore nel piano inferiore.
- La mia camera da letto, le mie foto! -; si girò verso il giovane, con gli occhi pieni di lacrime.
- Il corredo lo avevo fatto io. Ci avevo impiegato un anno, il periodo di tempo in cui io ed Henry siamo stati fidanzati. Per un periodo avevamo vissuto a casa dei miei suoceri, ma poi, appena io rimasi incinta, Henry aveva deciso che era ora di mettere su casa per conto nostro. Era falegname, da ragazzo, si fece dare una mano dai suoi colleghi alla segheria -.
Poi il suo sguardo vagò per la piccola radura formata dal fiume.
- Avevo deciso io il luogo. Mi ero innamorata di questo posto: era qui che io ed Henry ci incontravamo da ragazzi, di nascosto dai nostri genitori! -, rise sommessamente, un riso amaro, pieno di nostalgia.
L'uomo le strinse le mano, sperando di frenare la piena dei sentimenti che sembrava incombere sulla fragile diga che stava tra il rimpianto e la disperazione.
- Andiamo. Abbiamo bisogno di cure. Almeno le ferite fisiche possono guarire -.
Sorrise. Ed Elsa, guardandolo in viso, rispose al sorriso.
Rincuorato, mise in moto e partì.


Una bollicina si staccò dal bordo del bicchiere e risalì tremolante verso la superficie. E poi un'altra e un'altra ancora.
Era ancora legato su una sedia. Ma questa volta non era prigioniero, perlomeno non per le persone che lo avevano curato e bendato.
Le fasciature erano strette da impedirgli quasi di respirare. Il braccio sinistro ben assicurato al busto, tanto che gli sembrava di avere addosso una camicia di forza. Fu scosso da un tremito e si dovette alzare per impedire alle sue gambe di ricominciare a tremare nervosamente.
Trasalì alla voce dell'infermiera dietro alle sua spalle.
- Sig. McKennah, sua madre sta bene. Se vuole vederla… -.
Si girò verso la ragazza e fece cenno con il capo.
- Mi segua -.
La prima cosa che gli infermieri avevano chiesto appena arrivati al pronto soccorso, erano state le loro generalità. Elsa, senza esitare, aveva detto che lui era suo figlio Ted e che era arrivato appena in tempo: se fosse giunto anche cinque minuti più tardi, lei ed Henry sarebbero morti.
Questo lo rendeva ancora più nervoso: e quando il vero Ted fosse venuto a sapere che i suoi genitori erano in ospedale? Elsa lo aveva guardato con sguardo amorevole, non c'era finzione in quegli occhi; gli stava dicendo di non preoccuparsi, che avrebbe pensato lei a sistemare le cose con i suoi figli.
- Els… Mamma, come stai? -, disse, esitante, guardandosi intorno per vedere se qualcuno aveva notato la sua incertezza. Nessuno sembrò accorgersi del suo errore.
- Ora sono più tranquilla. Tuo padre? -.
- Sta meglio. Si era risvegliato. Ora sta riposando -.
- Voglio vederlo -.
Fece per alzarsi dal lettino.
Un'infermiera accorse per trattenerla.
- Signora McKennah, non è il caso di alzarsi… -.
Elsa divincolò il braccio dalla stretta della donna, per poi guardarla dritta negli occhi.
- Voglio vedere come sta mio marito, se non le spiace -.
L'infermiera guardò il giovane, imbarazzata. Lui ricambiò il suo sguardo, facendole capire che non aveva alcuna intenzione di fermare Elsa o di mettersi in mezzo.
A quel punto la ragazza sbuffò impotente, arrendendosi, e le porse il braccio.
- Si appoggi a me -.
- No, grazie, mi faccio accompagnare da mio figlio -, disse, guardandolo sorridente.
Gli infilò la mano sopra il gomito destro e lo condusse fuori dalla stanza.
- Henry sta dormendo qui dentro -, disse l'uomo, indicando la stanza in fianco.
Appena dentro, si fece loro incontro un'altra infermiera, più anziana di quella che si era presa cura di Elsa, che subito si parò davanti, risoluta.
- Solo i parenti -.
- Sono la moglie. Lui è mio figlio -.
Una fitta lo colpì al fianco. Gli sembrava di sprofondare sempre di più in un baratro scuro e senza fondo ogni volta che insistevano nel perpetuare quella presa in giro.
Il donnone si spostò, non togliendosi però il piacere di fare loro un ammonimento.
- Sta riposando. Non lo svegliate -.
Elsa si girò, uno sguardo carico d'odio galleggiava nei suoi occhi scuri e fiammeggianti.
"È mio marito, so meglio di lei come prendermi cura di lui!", sembrava voler dire quello sguardo.
L'infermiera, rossa in volto, abbassò il capo e uscì dalla stanza.
L'uomo sorrise, compiaciuto. Questa mania che hanno le infermiere di dirti sempre quello che puoi o non puoi fare!
Aveva la netta convinzione che, per certe, non fosse il desiderio di prendersi cura del prossimo a spingerle ad intraprendere quella professione, ma un più subdolo intento, la brama di poter dare ordini a destra e a manca, come dei dittatori, avvalendosi del loro ruolo di lenitrici di dolori come alibi.
"Se potessi scegliere che madre avere", pensò, "sceglierei una donna come Elsa".
Se potessi scegliere... Ma qualcun altro aveva scelto al posto suo.
Henry era stato sistemato tra lenzuola candide. Stava composto, con le grandi e rugose mani giunte sopra l'addome, che si alzava e si abbassava con regolarità.
Come a loro due poco tempo prima, gli stavano somministrando una flebo di soluzione salina, per reintegrare i liquidi persi.
Elsa si sedette in fianco a lui, e cominciò ad accarezzargli la fronte, sistemando un brizzolato e ribelle ciuffo di capelli che gli era ricaduto sul volto.
Ora si sentiva in più. Si guardò intorno, alla ricerca di un'altra sedia. La trovò vicino alla finestra. Si avvicinò e si sedette, nell'ombra, lontano dal capezzale di Henry.
E guardandoli, sapeva che Henry sentiva che la moglie era lì vicino. Rimase a contemplarli, scivolando piano, piano nel sonno, mentre immagini presenti e passate si mescolavano davanti ai suoi occhi. Gli sembrò, poco prima di sprofondare nell'oscurità, di vedere il volto di Elsa sorridere teneramente.
Ma non era Elsa.

"Sei riuscito a trovare quello che cercavi?"
"No…no. Ma ho capito qual è la cosa più importante da fare: continuare a cercare".

Un'altra alba, un altro giorno che cominciava. E altre ombre che si staccavano dal fondo nebuloso della sua memoria, arrivando a galla confuse e opache.
Si ritrovò a contemplare la leggera condensa sul vetro della finestra, mentre le prime luci del nuovo sole facevano capolino per le strade della cittadina e i lampioni si spegnevano uno a uno.
Erano a Kellogg, nell'Idaho, informazione più o meno inutile per lui, dato che non sapeva nemmeno da dove veniva.
Durante la notte qualcuno doveva averlo visto arrampicato su quella sedia vicino alla finestra, doveva aver pensato che si sarebbe preso sicuramente un accidente, perché adesso era avvolto in una calda coperta che sapeva di disinfettante.
Elsa si era addormentata con la testa posata sulla spalla di Henry. Anche lei era semi nascosta da una coperta simile alla sua.
"Continuare a cercare".
Preso da un senso di ansia, quasi un impellente bisogno di movimento, si alzò, lasciando che la coperta scivolasse sul pavimento, e letteralmente corse nel corridoio.
Si ritrovò davanti al distributore di vivande e bevande automatico.
- Scusi, ha mezzo dollaro? -, chiese alla ragazza alla reception.
La ragazza, senza alzare lo sguardo dal giornale che stava leggendo, allungò una moneta oltre il bancone, che lui prese diligentemente.
- Grazie -, disse, cercando di guardarla in faccia, chinandosi e sorridendo. Lei scrollò la mano, "Non c'è di che", rimanendo sempre china sul giornale.
Una rapida occhiata al "menù", tanto alla fine sapeva che avrebbe preso un caffè.
Si sedette, con il bicchierino fumante in mano, sui sedili in plastica che arredavano la sala d'aspetto. Quel caffè non prometteva niente di buono. Lo annusò diffidente, quindi ne trangugiò metà. Beh, era un po' annacquato, ma in qualche modo doveva darsi la carica quella mattina.
"Due cucchiai di panna, niente zucchero".
- Cosa? -, fece l'uomo voltandosi verso la reception.
- Sta parlando con me? -, chiese la ragazza, alzando finalmente la testa dalla lettura.
- E' stata lei a parlare, poco fa? -, chiese, disorientato.
- Io non ho emesso un fiato! -, rispose la ragazza. - Si sente bene? -, chiese poi, preoccupata.
- Si, si, probabilmente mi sono sbagliato -, rispose sorridendo.
Si guardò furtivamente intorno, smettendo istantaneamente di sorridere.
Eppure gli era sembrato di sentire una voce, una voce di donna, che gli parlava, come fosse lì vicino.
- Probabilmente sono pazzo sul serio! -, borbottò tra sé, tentando di sorridere ancora. Una battuta per sdrammatizzare, ma già si stava chiedendo se fosse vero.


Non stava scappando, ne era sicuro, anzi, probabilmente voleva proprio farsi raggiungere. O voleva essere seguito fino... fino a dove?
E una volta che lo avesse raggiunto?
Beh, voleva sapere cosa faceva in ospedale. E' un luogo pubblico, c'è sempre un gran via vai di gente, ma quell'uomo non lo convinceva. Gli era sembrato sospetto. Subito si era dato del paranoico, aveva i nervi tesi come corde di violino, vedeva possibili assassini e incendiari ovunque, ma poi, appena i loro sguardi si erano incrociati, quello aveva iniziato a tentennare e quasi subito era uscito, cercando di non dare troppo nell'occhio.
Ora che ci pensava non stava cercando di non farsi notare, anzi, voleva che lui lo vedesse bene mentre si allontanava. Ma solo lui.
Cercava di studiarlo, di scorgere qualche particolare familiare.
I capelli a spazzola erano neri e sembrava che non se li lavasse da mesi.
Qualcosa nel suo modo di camminare non era del tutto convincente. Sembrava avere qualche impedimento fisico.
Ogni tanto si girava, ma per pochi attimi, non aveva il tempo di catturare il suo viso, di metterlo a fuoco, capire se gli era familiare.
Sembrava si accertasse che lui gli fosse ancora dietro.
Si infilò in un vicolo. Quando anche lui vi fu arrivato vide una porta di ferro chiudersi lentamente in fondo alla strada chiusa.
Si avvicinò e si mise in ascolto. Non sentiva niente. Appoggiò la mano sulla maniglia, che si abbassò pesantemente. Aveva tutta l'aria di portare in qualche magazzino abbandonato pieno di topi.
Istintivamente trattenne il respiro nell'aprire la porta.
- Mi hai seguito, ma ancora non ricordi chi sono, vero? -.
Il fiato gli si fermò in gola.
La voce dell'uomo era alle sue spalle. Sentì la porta chiudersi cigolando, con un tonfo reso ancora più spaventoso dall'eco del magazzino vuoto.
Le mani si alzarono sopra alle sue spalle, ben aperte e in vista, comandate da un impulso che non riuscì a frenare. Lo aveva fatto senza rendersene conto.
- Ti conosco? , chiese, senza impedirsi di lasciar trapelare speranza tra le parole.
- Si, certo. Abbiamo lavorato insieme. Siamo grandi amici -.
Fece una pausa che lo riempì di ansia. Lo immaginava con una pistola in mano, puntata verso la sua schiena. Una mossa falsa e sarebbe morto. Ma, nel silenzio ovattato, si rese conto che quell'uomo ansimava. Era forse stanco? O semplicemente nervoso.
- Ti porterò da lei, Mulder, avrai tutte le risposte. Te lo devo -.
La voce si spense: sembrò soprappensiero.
- Mulder! Sono io? E' il mio nome?!?-.
Non serviva che gli rispondesse. Era lui, ora lo sapeva.
- Girati. E abbassa quelle mani: non sono armato! -.
Lentamente eseguì. Nella penombra del magazzino non riuscì a vederlo in viso. Strizzò gli occhi e cercò di mettere a fuoco.
L'uomo si portò sotto la luce.
Non era armato, questo era vero. E gli era familiare, molto più di quanto si era immaginato… o aveva osato sperare. Ma il suo istinto gli diceva che non si era fidato di lui in passato.
- Ho sentito che vi hanno ritrovato, in una radura, vicino a Spokane. Quando sono arrivato, i poliziotti non hanno voluto dirmi niente, ma ho capito subito che non ti avevano preso. Chi ci riesce, capisce che genere di uomo ha tra le mani! -.
Ora che aveva modo di guardarlo meglio, capiva cosa non andava nei suoi movimenti. Era il braccio, il braccio sinistro. O meglio, la protesi che aveva al posto del braccio sinistro.
- Ah, quell'incidente! Per poco non ce lo rimettevi anche tu, sai? -, sogghignava, uno sguardo complice si dipingeva sul suo viso.
Intuì dalla sua espressione che si sentiva colpevole… o che lo era.
Cercava di leggere fra le labbra e gli occhi di quel volto, ma non riusciva a dire perché gli fosse così difficile credere alle sue parole. Parlava un linguaggio che non riusciva a comprendere fino in fondo.
Ma capiva che ciò che diceva non era nemmeno una parte di ciò che non gli diceva.
- Devo darti retta, contro ogni buon senso. Ti riconosco, ma dubito che fossimo amici -.
Lo sguardo del ragazzo si indurì. Si chiese se avesse fato bene ad essere così franco.
L'uomo senza nome (perché lui ora un nome ce lo aveva) lo scrutò per circa trenta secondi, poi sorrise compiaciuto, un sorriso appena accennato.
- Krycek -, disse, allungando la destra.
Gli sembrava insolito, inadeguato. Pensava di non avere bisogno di lui.
Ma questo era, ovviamente, stupido: era chiaro che aveva bisogno di lui, sapeva che lo avrebbe condotto alla verità.

Si lasciava alle spalle Elsa ed Henry. E si lasciava alle spalle Kellogg, Idaho.
A bordo di un maltenuta Rolls Royce decappottabile del '56, di colore verde, gli sembrava tanto di essere dentro un film, un road movie con gli interpreti sbagliati.
Il tettuccio sbatteva precario, e Mulder immaginava che, da un momento all'altro, si sarebbe rilassato proprio sopra le loro teste, Krycek avrebbe perso il controllo dell'auto e sarebbero finiti fuori strada.
I sedili erano scomodi e puzzolenti, il riscaldamento probabilmente guasto.
Si sentiva meno al sicuro in quell'auto che fuori in una foresta, di notte.
- Dobbiamo raggiungere Salt Lake City. Lì prenderemo un aereo per Washington -.
- Chi c'è a Washington? -.
- La tua vita, Mulder -, rispose Krycek, accennando un sorriso.
Gli era difficile guardare in quel sorriso e vedervi sincerità.
Gli era più facile immaginare che stesse ridendo di lui, piuttosto che credere che volesse davvero aiutarlo. Krycek non faceva niente per niente.
La sicurezza con cui formulò quel pensiero lo lasciò per un attimo interdetto. Si chiese se fosse stato prudente, dopotutto, accettare il suo aiuto.
- Sai, Mulder, ti conosco da un po' di anni, e so che quando fai quella faccia c'è qualcosa che non va. Ancora non ti fidi di me? -.
Ancora quel ghigno irritante. Probabilmente era vero, era paranoico.
Ma avvertiva i suoi sguardi, le sue parole, come qualcosa di viscido e umidiccio, qualcosa di malsano. E non era una semplice impressione dovuta al fatto che non ricordava ancora perfettamente chi fosse stato quell'uomo che si professava suo amico.
Il fatto era che, lo sapeva, Krycek non era mai stato suo amico.


"Tu ci credi all'esistenza degli extraterrestri, Scully?"
"La scienza offre tutte le risposte, basta sapere dove cercare!"

Ora guardarsi allo specchio non era più così traumatico. Era la seconda volta che vedeva la sua immagine riflessa. Cominciava ad acquistare familiarità con quel viso che era il suo, ma che doveva fare uno sforzo per ricordare.
Lasciò le mani sotto il getto caldo dell'acqua più di quanto fosse necessario. Aveva le dita come pezzi di ghiaccio. Ora la barba ricominciava a crescere, dando al suo volto un'aria vissuta e trasandata.
- La mia vita… -. Si guardò le mani, chiedendosi che lavoro facesse, se era sposato, se aveva figli.
Si toccò la spalla sinistra. Il giorno prima, facendo il bagno a casa di Henry, aveva visto una cicatrice in quel punto. Si rese conto, ridendo fra sé, che il suo corpo ricordava molto più della sua mente chi fosse stato.
- Chi sono! -, si corresse ad alta voce, ricordando che, volente o nolente, aveva lasciato che Krycek decidesse di riportarlo a casa.
Stese le braccia e si appoggiò a dita aperte sul bordo del lavandino, abbassando la testa, esausto. Si sforzava di trovare un filo logico, una certa continuità nei sogni che faceva, mentre dormiva o mentre era sveglio. Aveva sempre un'immagine ricorrente, una figura sempre presente, vicina, amica.
Ma non capiva se erano solo sogni o ricordi veri.
La porta si aprì in un tonfo. Krycek l'attraversò senza apparentemente toccare terra con i piedi.
Mulder alzò la testa, dapprima riluttante, quindi, rendendosi conto di ciò che accadeva, allarmato.
Sulla porta, una sagoma enorme si intravedeva appena nella penombra del lampione che illuminava la piccola area di servizio. Veniva da chiedersi se non fosse un gioco di luci e ombre a farla sembrare così imponente.
Guardandolo, Krycek sembrava sinceramente spaventato.
Si appoggiò alla parete opposta alla porta, portando la mano destra avanti, ansimando.
Stava implorando una tregua.
Mulder lo studiò attentamente e vide che era stato evidentemente malmenato: aveva le labbra gonfie e rotte, un bozzo sull'occhio sinistro.
Riportò l'attenzione sulla figura alla porta.
- Ok, Duca, ok, ho capito -, cominciò Krycek, che ancora non sembrava aver preso fiato.
- Hai lasciato il lavoro a metà -, tuonò l'uomo. Mulder ebbe un brivido e si rizzò in piedi, indietreggiando impercettibilmente. Ma l'omone non sembrava essersi accorto di lui.
- Si, hai ragione, sono un pezzo di merda -, disse, continuando a respirare a fatica e non abbassando la mano.
- Ma ascoltami: vedi questo mio amico? -, e così dicendo lo aveva indicato, chiamandolo pericolosamente in causa. Ora Mulder si sentiva come un soldato in prima riga, armato solo di un fucile, mentre avanzano i cingolati. Si irrigidì, dapprima guardando Krycek con aria stupefatta, quindi fissando il Duca spalancando gli occhi dalla paura, mentre questi si avvicinava a lui.
- Chi sarebbe? -, chiese, accorgendosi in quel momento di lui e cominciando a studiarlo dall'alto verso il basso. Mulder, per un attimo, credette di vederlo sollevare la gamba e schiacciarlo con la scarpa come si fa con uno scarafaggio o un altro insetto fastidioso e indesiderato.
A parte la mole spaventosa, comunque, non c'era altro nel suo aspetto che potesse incutere timore. Adesso gli sembrava più umano, ora che lo vedeva in faccia, sotto la fioca luce della lampadina. Ma bastava vedere come aveva ridotto Krycek per capire che il rispetto presso le persone con cui aveva a che fare se lo era guadagnato in ben altro modo.
- Sarei venuto io da te appena avessi finito con lui -.
"Finito cosa?!?", si domandò Mulder, riportando lo sguardo sul ragazzo e corrugando la fronte dubbioso.
- Cosa avevi da fare con il tuo amico? -, chiese il Duca con voce potente, tranquillo, quasi amorevole.
- Devo dargli una mano a tornare a casa. Capisci, è nei guai. E quando un amico chiama… -.
Non finì la frase. Certo, pensò Mulder, cosa ne sa lui degli amici che chiamano? Probabilmente quando qualcuno gli chiedeva aiuto lui rispondeva sempre occupato.
Il Duca, ora, lo stava studiando ancora più attentamente, quasi con interesse. Si poteva immaginare fosse stata la parola "guai" ad attirare la sua attenzione.
Quindi riportò gli occhi su Krycek, che sembrava aver riacquistato un po' della sua faccia tosta, di nuovo in piedi, con la schiena diritta, il braccio destro lungo il fianco. Aveva persino smesso di ansimare.
- Dove hai nascosto la merce? -.
- La mia squadra ha avuto dei problemi. Siamo stati costretti ad abbandonare il camion lungo la statale. Ma… -, L'omone sembrò gonfiarsi e alzarsi di qualche centimetro. Si avvicinò a Krycek, tirando un profondo respiro, lasciando intuire che stava facendo un enorme sforzo per trattenersi dal pestarlo a sangue.
- … ehi, Duca, calma… -, balbettò Krycek, alzando di nuovo la mano, indietreggiando fino quasi a chiudersi nel primo dei tre servizi infilati uno accanto all'altro in fianco alla porta.
- Sappiamo dove l'hanno portato! Solo che, appunto, poi m'è capitato questo imprevisto… -.
Era stupefacente: da amico da salvare, ora era diventato un imprevisto!
- Io non voglio farti del male, Alex, voglio solo che tu porti a termine questo piccolo e facile incarico -.
Il tono era quello di un padre affettuoso col figlio scavezzacollo: carezzevole, suadente, quasi rassicurante. Ma questo non rendeva certo la situazione migliore; anzi, se era possibile, aumentava la tensione.
- Non so dove sia quel camion, ma la Signora lo vuole -. Il tono ora era cambiato, era diventato duro e tagliente. Il che rese la scena un attimo più realista.
- Quindi vedi di portarlo a Detroit il più in fretta possibile, senza altri "imprevisti". Immagino tu non abbia altri amici da salvare, non è così?", e così dicendo scoccò un'occhiata a Mulder, difficile da decifrare. Sembrava uno sguardo di rimprovero, che spostava da lui a Krycek, come fanno certi padri che fanno la ramanzina ai figli.
Fino a quel momento, Mulder non si era sentito realmente chiamato in causa, ma ora capiva che avrebbe dovuto seguire quei due fino nel Michigan.

PRIMA PARTE - PRIGIONIA

CAPITOLO 5 - Da qualche parte, fuori di qui

"Tu mi ricordi qualcosa che era prima di me, qualcosa che non conosco ancora, ma se chiudo gli occhi e prendo un profondo respiro, mi passano attraverso i suoni e le voci dell'infanzia.
Se solo potessi tornare indietro, saprei di trovarti là"


- Jeff…? -.
Samantha stava ancora parlando nel sonno.
Il ragazzo, che non si era ancora addormentato, si girò verso il letto della sorella. Non sembrava il solito incubo. Non era agitata, non piangeva, non urlava.
- … sei mio fratello? -.
Jeff ebbe un brivido. Possibile che Sam fosse sveglia?
La vide muoversi sotto le coperte. Avvertì il frusciare delle lenzuola e sentì un formicolio alla testa.
- Sam, dormi? -, chiese, chinandosi in avanti, pronto ad uscire dal letto in un balzo se lei gli avesse risposto di no.
- No, tu non sei mio fratello… -.
Gli si gelò il sangue nelle vene. Cominciò a tremare. Un castello di carte che cade al suolo buttato giù da un soffio di vento: che differenza c'era fra un mazzo di carte francesi e i suoi muscoli tesi, in quel momento?
- .. io ce l'ho, un fratello… quello vero -.
Rimase in ascolto, trattenendo il fiato nei polmoni. Il cuore sembrava rotolargli nella cassa toracica, da una parte all'altra, avanti e indietro. Sperava che Sam dicesse qualcos'altro, possibilmente qualcosa di rassicurante.
Ma Sam taceva.
Si sforzò di ricominciare a respirare.
Gettò via le coperte e si avvicinò al letto della ragazza. Dormiva supina, il viso disteso, quasi sorridente. Provò una grande vergogna, scoprendosi ad odiare quel rinnovato momento di serenità della sorella, ben sapendo a cosa lei stesse pensando. Stava pensando al suo vero fratello, quello che lui sperava non esistesse.
Perché sentiva che avrebbe occupato il gradino più alto nel cuore di lei.
La mano destra era stretta a pugno, accanto al viso. Il braccio sinistro sopra la testa, sul cuscino.
Si sedette sulla sedia di fianco al letto, e rimase a contemplarla. I suoi capelli avevano dei riflessi quasi blu nella luce argentata della luna.
Scoprendo un inaspettato spirito audace che non pensava di possedere, allungò una mano fino ad accarezzarle la nuca con il dorso delle dita, passandola sul viso, sulla fronte.
Lei mugugnò infastidita, corrugando la fronte e voltando la testa verso la finestra.
La mano destra le ricadde sul seno.
In quella posizione poteva vedere la curva del suo collo, fino all'attaccatura dell'orecchio sotto il lobo. Lo scollo a U del pigiama rivelava la curva del suo sterno, così dolce e morbida, a vedersi.
Il petto si sollevava e abbassava con regolarità, indice di una tranquillità che invidiava.
Stava dormendo, stava semplicemente e stupendamente dormendo.
Si chinò a posarle un bacio sulla tempia.
Stava pericolosamente attentando al suo riposo, e lo sapeva.
Sam ebbe un altro moto di fastidio, ritornando a girare il viso verso di lui. Il movimento gli accarezzò le labbra sensibili, come se la pelle fosse inesistente.
Un altro bacio, sulla fronte.
Prima di rendersi conto che non era più in grado di fermarsi, le stava baciando il naso, la guancia, le palpebre.
Si scostò per guardarla, e si rese conto che Sam era sveglia, i suoi grandi occhi azzurri fissi su di lui.
Non sembrava spaventata o infastidita. Era seria, il suo sguardo domandava cosa stesse facendo.
- Sc… scusa… -, borbottò frettolosamente Jeff, rendendosi conto che qualcosa si era svegliato dentro di lui.
Non riusciva a spiegarsi cosa gli impediva di riprendere il controllo delle proprie azioni. Gli sembrava che una forza più grande di lui lo stesse governando, e lottare era inutile.
Ma non voleva che Sam lo odiasse. E sapeva che se avesse perseverato in quella direzione, la reazione della ragazza sarebbe stata devastante e definitiva.
Si voltò, vergognandosi di se stesso e dei suoi sentimenti. Ma non erano quelli da biasimare.
Erano le intenzioni. Che intenzioni aveva? Il suo sguardo, in quel momento, era lo stesso di Brad il giorno prima, nella prateria, quello sguardo che aveva odiato?
Sentendo che Sam non diceva una parola, ritornò a guardarla.
Era ancora lì, con i suoi occhi che gli scavavano dentro, imperscrutabile, incomprensibile.
Aveva finito le munizioni, mentre Sam aveva tutte le armi cariche.
A volte proprio non la capiva. Si chiedeva se le sue azioni fossero comandate da un impulso conseguente agli esperimenti o se facesse tutto parte di un tacito accordo, un contratto non scritto in cui si diceva che, comunque, ragazzi e ragazze si amano senza capirsi; anzi, proprio perché non si capiscono, si amano ancora di più.
Sam lo stava baciando. Dapprima si era avvicinata con timidezza, quasi esitando.
"Non fare la finta tonta con me, Sam, so benissimo che sai quello che vuoi!", si ritrovò a pensare, ma subito cacciò via quel pensiero: Sam era diversa.
Jeff le aveva stretto le spalle con entrambe le mani, tenendola vicino a sé, prevedendo qualsiasi suo tentativo di staccare le labbra dalle sue.
Allora lei aveva smesso di tremare.
Jeff fece scivolare le sue mani dietro la schiena di Sam, cingendola con dolcezza e fermezza, senza osare di più.
Sentì le braccia di lei distendersi sulle sue spalle, le dita affondare nei suoi capelli.
Allora il formicolio alla testa si fece più intenso, si sentì mancare.
La stanza cominciò a girare, fino a scomparire del tutto.
Il mondo si confuse e si accorse che anche loro si stavano confondendo.


Erano passate due settimane e la mamma ancora non tornava.
Jeff era in ansia: tutto andava in un modo troppo diverso dal solito. Quel fatto spezzava la routine a cui si era abituato da quando era un bambino.
Espirò il fumo dalle labbra, sentendosi come una appendice monca del padre: anche lui era sparito, ma questo non lo aveva mai preoccupato più di tanto.
L'assenza di vento quella mattina fece si che la nuvoletta si espandesse uniformemente, dilatandosi e assottigliandosi, fino a sparire del tutto.
Si era finalmente deciso a fare un po' di pulizia nella camera dei suoi il giorno prima, quasi a volersi disfare di suo padre una volta per tutte. Aveva buttato all'aria cassetti e armadi, dividendo le cose di sua madre da quelle di lui, quelle che ancora servivano da quelle che non servivano più.
Se fosse tornato a cercarle, gli avrebbe risposto che avrebbe potuto farsi vivo prima.
Era stato in fondo ad uno dei cassetti del suo comodino che aveva trovato un pacchetto delle sigarette che era solito fumare. Le aveva prese, ben intenzionato a buttare anche quelle, ma poi le aveva dimenticate sulla credenza della cucina.
Svegliandosi, troppo presto quella mattina, le aveva viste e le aveva aperte. Sapeva che se Sam lo avesse sorpreso a fumarle, si sarebbe arrabbiata. Ma Sam si sarebbe svegliata solo fra due ore e una sigaretta per consumarsi ci impiega cinque minuti. Statisticamente poteva fumarne almeno una ventina, il che significava finire il pacchetto prima che lei arrivasse in sala e lo vedesse.
Questi gli elementi di colpa.
Se poi avesse dovuto fornire alla giuria il movente, cosa avrebbe risposto?
Beh, probabilmente che era talmente nervoso e ansioso da un mese a questa parte che aveva cominciato a credere alle voci secondo cui, fumando, ci si rilassava.
"Signore e signori della giuria, il mio cliente è si colpevole, su questo non ci sono dubbi, ma ha anche un alibi di ferro!"
Certo che ce lo aveva un alibi, il migliore, il più ovvio, ma anche il più doloroso: era innamorato di Sam. A ben pensarci, era l'unica persona che amava.
Ogni volta che, svegliandosi, apriva gli occhi, doveva sforzarsi di mantenere la calma, convinto com'era che anche lei sarebbe sparita e non avrebbe più fatto ritorno.
Ma erano stati discreti, bravi e discreti. Non era uno stupido, sapeva che le loro visite notturne e diurne continuavano. La prelevavano per qualche ora, la portavano alla base, dove c'erano gli uffici e i laboratori di ricerca sperimentale avanzata, e la riportavano apparentemente indenne.
In genere questo avveniva durante la notte, o mentre lui era al lavoro.
Appoggiò la nuca contro il bianco stipite della finestra, esalando un'altra nuvola di fumo, guardandola mentre ascendeva verso l'alto, galleggiando e fluttuando.
Tese la gamba indolenzita per la posizione scomoda che si era costretto ad assumere sul davanzale, la lasciò penzolare, mentre le dita dei piedi sfioravano il pavimento. Quel contatto freddo e reale gli fece venire la pelle d'oca. Guardò quello che rimaneva della sigaretta, quindi gettò il mozzicone nell'erba, come faceva da ragazzino, un lanciatore professionista sulla pedana di lancio.
Il movimento gli fece urtare il pacchetto. Stava per chinarsi a raccoglierlo, quando un movimento in corridoio lo fermò. Sapendo che era Sam, diede uno schiaffo alla scatola che scivolò sotto il divano.
Quando alzò la testa, Sam era davanti a lui.
- Che cosa stai facendo? -, chiese la ragazza, per nulla insonnolita.
- Non riuscivo a dormire; mi sono messo qui ad aspettare che faccia giorno -.
- No, intendevo: che cosa fai chinato per terra -, precisò.
- Ah, …. -, un alibi per l'alibi.
- Cercavo le ciabatte. Ma devo essermele dimenticate in camera -.
La studiò sospettoso, mentre lei girava gli occhi sul pavimento della sala, convinta di doverle cercare.
- Qui non ci sono. Vuoi che vado a prendertele? -, chiese, mentre già si stava allontanando.
- No, no, fa lo stesso -, rispose, mentre allungava una mano a stringerle il polso e, quasi contemporaneamente la attirò a sé.
Sam non oppose resistenza.
Ma Jeff non aveva alcuna intenzione di continuare ciò che era rimasto in sospeso quella sera di due settimane prima. Appoggiò la testa sulla sua spalla sinistra, sfiorandole con la punta del naso la morbida pelle del collo, sentendo il flusso del sangue che pulsava nelle vene, il respiro farsi impercettibilmente irregolare.
Iniziò a dondolare la mano, lasciando che le dita gli scivolassero nel palmo di lei.
Allora Sam appoggiò la guancia sulla fronte di Jeff, un bacio, quindi il silenzio.
Solo i raggi del sole li sorpresero quella mattina.


- Voglio venire a scuola oggi, Jeff -.
Il ragazzo alzò lo sguardo dalla tazza che aveva davanti, preso alla sprovvista. Vide che la ragazza era seria, sicura, non era una richiesta, o un tentativo di convincerlo. Lo stava informando sulle sue intenzioni. A quel punto opporsi sarebbe stato inutile.
- Ok -, fu la sua laconica risposta, prima di tornare al suo latte e biscotti.
Sam, un po' disorientata dalla docilità con cui il fratello aveva preso la notizia (si ostinava a chiamarlo fratello, quando ormai era più che evidente che non lo erano, nemmeno nei sentimenti), rimase in piedi a fissarlo con il piatto a mezz'aria. Quindi, riavutasi, lo mise nel lavello e andò in camera.
- Bene, vado a vestirmi -, disse, uscendo dalla cucina.


Davanti a lui, Brad correva eccitato, urlando e ridendo come un pazzo.
- Che cavolo è successo, Brad? Si può sapere cosa avresti scoperto? -
- Io non ho scoperto un bel niente, uomo, ma, a quanto pare, qualcun altro è a conoscenza del tunnel di scolo! -, urlò il ragazzo, saltellando davanti a Jeff che faticava a tenergli dietro.
Jeff si fece preoccupato: più persone sapevano di quel tunnel, meno probabilità aveva Sam di scappare. Rallentò facendosi pensieroso.
Brad non sembrò accorgersene e continuò a correre per un bel tratto.
Si finse stanco.
- Brad, rallenta, mica siamo alle olimpiadi! Non la vinci la medaglia d'oro! -.
Brad rallentò, voltandosi per accertarsi di quanto aveva distanziato l'amico.
Jeff stava piegato, con le mani appoggiate sulle ginocchia, ansimante.
Brad lo aveva catturato sul portone della scuola quella mattina, mentre entrava con Samantha.
La ragazza si era girata verso di lui, corrugando la fronte, sospettosa. Lui allora aveva alzato la mano per assicurarle che l'avrebbe raggiunta più tardi, nella pausa pranzo.
Lei si era voltata, leggermente scocciata ed esasperata dalle sue promesse da marinaio, andando in classe.
Accidenti, aveva pensato Jeff, Brad hai un tempismo perfetto, come al solito: riesci sempre ad entrare in scena al momento sbagliato!
Ma Brad ci godeva a seminare zizzania fra lui e la sorella.
- Che c'è, pappamolla, sei stanco? Se non ci muoviamo ci perdiamo tutto il divertimento! -.
- Quale divertimento?! -, aveva chiesto Jeff, senza alzare la testa.
- Beh, il tunnel è nostro. Dobbiamo difendere ciò che è nostro -, concluse il ragazzo. C'era sempre stato un che di primitivo e animale nel suo modo di fare, proprio come certi lupi che attaccano in branco gli intrusi che penetrano nel loro territorio di caccia. Brad non avrebbe mai affrontato da solo i nuovi arrivati, ma con lui al fianco si sentiva un uomo invincibile!
Rise sommessamente, con i polmoni intrappolati nella posizione in cui si era costretto. Ciò che ne risultò fu più un rantolo faticoso che una risata.
- Hai paura che ti scappino? -, aveva chiesto.
- Sono certo che non ci staranno tanto a lungo -.
Jeff si ricompose, esagerando un po' con i mugolii di dolore, stiracchiandosi la schiena.
Non era quello che si erano aspettati. Non c'era nessuno da malmenare, purtroppo per Brad.
Quello più grande aveva sicuramente qualche anno più di loro; l'altro sembrava più piccolo, ma non sarebbero riusciti a torcergli un capello. Se ne stavano composti davanti all'imboccatura, con i mocciosi che facevano corona intorno a loro, con l'intento di metterli probabilmente a disagio, ma, dall'esterno, sembravano la banda che aspetta le istruzioni del capo.
Quando fu ad una distanza sufficiente a farsi sentire, Brad sbraitò un "Ehi!", tentando di essere minaccioso. Ovviamente fallì miseramente.
- Secondo me è straniero! -, bisbigliò quindi a Jeff.
- Da cosa lo deduci?-
- Guardalo! Grosso, biondo con gli occhi di ghiaccio. Sembra tedesco! -, ridacchiò a bocca chiusa, come faceva sempre quando voleva fare il duro.
Jeff non fece alcun commento; tanto il cervelletto di Brad non ascoltava repliche: si chiudeva a riccio, come fosse un riflesso incondizionato, come fanno le palpebre quando qualcosa ci finisce dentro gli occhi.
La sua intelligenza emetteva stupidità chiudendosi ad ogni possibilità di ricevere saggezza.
Lui, al contrario, era incuriosito dai nuovi arrivati. Quello grosso sembrava un po' ostile, ma non pericoloso, almeno non se gliene si dava una ragione: doveva tenere Brad al guinzaglio.
Quando si furono avvicinati, i bambini si aprirono a ventaglio, permettendo loro di portarsi ancora più vicino agli "ospiti".
- M…Mi chiamo Jeff e questo è il mio amico Brad -, disse, porgendo la mano al maggiore; aveva dedotto fossero fratelli, data la somiglianza. Contemporaneamente, aveva appoggiato una mano sulla spalla di Brad, che già cominciava a scaldarsi.
- Bill Scully jr. Questo è Charles, mio fratello minore -, rispose l'altro, da perfetto soldato.
- Ciao Charles -, sibilò Brad.
Jeff gli scoccò un'occhiata piena di panico, quindi tornò con lo sguardo su Bill.
- Siete nuovi di qui?-
- Siamo arrivati ieri sera. Stiamo sul lato ovest della base -.
"Vicino a casa mia", aveva pensato Jeff.
- Da dove venite, esattamente? -, aveva domandato Brad.
Bill lo guardò con sospetto. A quanto pare non gradisce la curiosità. Jeff era felice fosse stato Brad a fargli quella domanda, e non lui.
- Veniamo dal sud della California -.
- Starete qui molto? -.
L'amico perseverava con le su domande indiscrete. Jeff si sentì attraversare da un brivido gelido. Gli occhi di Bill erano due fessure, taglienti e insondabili.
Sperò che Brad la facesse finita.
- Siamo solo di passaggio… -, borbottò Charles, aggrappandosi alla manica della giacca del fratello, come volesse implorarlo a restare calmo. Bill abbassò lo sguardo su di lui, infastidito. Vedendo il panico che trapelava dal fratello e da Jeff, si costrinse ad uno sforzo di autocontrollo.
Jeff ne approfittò per dare una gomitata a Brad, che subito mugugnò.
- Piantala di fargli tante domande e lascia che se ne vadano…-, gli sussurrò piegandosi su un lato, cercando di non darlo troppo a vedere. In cuor suo sperava che, disturbati dalla loro presenza, se ne andassero, per tornare più tardi, magari, quando lui fosse riuscito a trascinare Brad a scuola.
- Charles, che ci fai qui? Le lezioni sono già cominciate! -.
Jeff trasalì. Si girò, notando una ragazzina, all'incirca dell'età di Sam, che si avvicinava a lunghi passi verso di loro, guardando bene dove metteva i piedi.
I capelli biondo rame le dondolavano intorno al viso, cullati dalla sua camminata energica.
In mezzo alla desolazione del paesaggio era come un pugno in un occhio.
Si girarono tutti verso i fratelli Scully, con negli occhi la stessa espressione che pretendeva spiegazioni. Charles sembrava il più disposto fra i due a giustificare quella "apparizione".
- E' nostra sorella, Dana -.
La ragazza fu presto davanti a loro.
Non assomigliava affatto ai fratelli: era minuta e graziosa, il viso era delicato, roseo, una spruzzata di lentiggini gli ricopriva la morbida curva del naso.
Gli occhi erano enormi e profondi, di un colore incerto, non sapeva dire se azzurri o verdi.
Gli ricordava tanto una bambola di porcellana che aveva regalato a Sam per il suo compleanno, esattamente un anno prima. Era rimasto davanti alla vetrina per un buon dieci minuti a fissare gli splendidi occhi di quella bambola, rapito dalla loro dolcezza, chiedendosi come avessero fatto a renderla tanto reale da sembrare quasi viva. Aveva speso tutti i suoi sudati risparmi per acquistarla, ma sapeva che Sam sarebbe andata in visibilio se l'avesse visto arrivare con quel fantasmagorico regalo.
La dolcezza dei suoi occhi, però, si dileguò in un attimo: si scambiò con il fratello maggiore uno sguardo duro e freddo. Jeff intuì che c'erano vecchie e profonde discordie, probabilmente, fra loro.
E, forse, risentimento per aver trascinato il fratello minore lontano dal suo dovere.
Era arrivata a rimettere ordine.
E con ordine, a piccoli gruppetti, si erano piano, piano dileguati, tornando a scuola.


- Ciao. Mi chiamo Samantha. Tu come ti chiami? -, le disse, sedendosi accanto a lei, sullo scalino della scuola, mentre tirava fuori il pranzo dalla sacca.
- Dana -, rispose la ragazza, deglutendo il boccone che aveva in bocca: era chiaro che l'aveva colta alla sprovvista.
- Scusa -, disse Sam, accorgendosi della gaffe.
- Non preoccuparti… -, la guardò per qualche secondo, aggiustandosi il ciuffo di capelli che le ricadevano folti sulla fronte.
- Anzi, sono felice. Qui nessuno sembra voler rivolgermi la parola! -, aggiunse, sorridendo e portandosi una mano davanti alla bocca.
Samantha l'adorò istantaneamente.
L'aveva notata appena era arrivata a scuola. Aveva salito la breve scalinata principale stringendosi forte i libri al petto, quasi avesse paura che scivolassero dall'elastico di punto in bianco, facendole fare una pessima figura proprio il primo giorno.
Aveva una gonnellina scozzese che le arrivava alle ginocchia, da cui partivano un paio di calze bianche, come andava di moda nei college inglesi. Il gilè era in tinta con la gonna, rosso con ricami verdi, mentre sotto portava una camicia bianca, chiusa al colletto da un cravattino verde scuro.
Nella sua scuola non c'era l'obbligo dell'uniforme, ma probabilmente quello era il suo stile.
Invece che conformarla a qualche ordine particolare, questo abbigliamento la rendeva distinguibile, anche se Sam era convinta non ne avesse bisogno. Anche se sembrava una ragazza come le altre, percepiva da lei una certa sicurezza, padronanza di sé, forza di carattere.
Tutte le persone apparentemente indifese custodiscono un cuore di leone. E Dana, piccola e indifesa in mezzo alla marmaglia di adolescenti urlanti che popolavano la sua scuola, era una mosca bianca.
Non erano nella stessa classe, e di questo Sam si rammaricò. Dana era più vecchia di lei di un anno, quindi era in classe con Barbara.
Anzi, lo sarebbe stata, dato che Barbara aveva traslocato senza preavviso qualche giorno prima, lasciandole un laconico bigliettino nell'albero.
Sperava in cuor suo che non fosse la fretta di sostituire Barbara, ma un reale interesse, a spingerla così precipitosamente a fare amicizia con Dana.
E forse il particolare che con la sua famiglia si era trasferita proprio nella vecchia casa dell'amica non era poi così rilevante.
- Sai, siamo figli di militari. Chi più chi meno, ma in fondo siamo tutti un po' diffidenti verso i nuovi arrivati -, le rispose, addolcendo il più possibile il tono di voce.
Ma presto il tono si fece canzonatorio.
- Per esempio: li vedi quelli? -, disse, indicando senza farsene accorgere il gruppo di Brad e Josh dall'altra parte del cortile.
- Si -, rispose Dana, ampliando il sorriso.
- Quelli sono i ragazzi da evitare. Prima di rivolgerti la parola devono sapere il tuo cognome, il nome e il grado di tuo padre, quante medaglie ha vinto, di quanti e quali elementi è composta la tua famiglia e se sei disposta ad una folle notte d'amore con uno di loro, che alla fine si rivelerà un vero e proprio fiasco! -.
Risero, divertite.
- E quello chi è? -, chiese Dana, indicando la panchina da dove Sam l'aveva notata cinque minuti prima.
- Quello è Jeff mio fratello… -, rispose, lasciando che la voce le si spegnesse in gola.
- Avrei detto che era il tuo ragazzo! -, esclamò Dana, ingenuamente.
- Beh, non siamo proprio fratelli, ma viviamo nella stessa casa, quindi… -, si affrettò a puntualizzare.
- Ah… -, sussurrò Dana, con un leggero velo di curiosità negli occhi. Ma non era indiscreta e non voleva sapere altro. Quando sarebbe stato il momento, se mai ci fosse stata l'occasione, Sam le avrebbe spiegato.


Jeff li notò ai margini del cortile: vestiti scuri, occhiali da sole. Andavano sempre in giro in coppia.
Si guardavano intorno, poi tornavano a fissare Sam che, ignara, continuava a chiacchierare con la nuova arrivata.
Quando si accorsero che li stava guardando, si scambiarono un paio di parole e quindi si dileguarono, inosservati.
Sorrise amaramente nel sentire le risate di Sam.
Sperava solo che tutto questo finisse in fretta.


Non voleva aprire gli occhi, non voleva vedere quello che le stava intorno. Già sentirlo era un supplizio.
Accanto a lei doveva esserci un bambino molto piccolo: piangeva e chiamava la mamma.
"Beato tu che la ricordi!", pensò Sam, stringendo gli occhi.
Tutt'intorno si sentivano le voci degli altri bambini, alcuni più piccoli, più numerosi quelli più grandi.
"Cosa ci faccio qui? E' qui che mi portano tutte le volte? Come mai non me lo ricordavo?".
Nel formulare quella domanda a se stessa, Sam aveva aperto gli occhi.
La stanza era completamente bianca. Avvertì freddo, istantaneamente. Si accarezzò le braccia nude. Indossava solo una vestaglia da ospedale, verde, probabilmente l'ultimo modello d Valentino o Armani. I piedi erano scalzi e gelati.
Si mise seduta e si guardò intorno.
Era stata sistemata su una specie di tavolo da sala operatoria. Anche gli altri erano nella sua stessa situazione. Erano soli. Alcuni dormivano ancora, altri si stavano svegliando in quel momento, come lei.
Nella stanza non c'erano finestre. Probabilmente si trovavano sottoterra.
Si sentì tirare per il camice. Un bambinetto con gli occhi gonfi di disperazione era accanto a lei, la guardava supplichevole. Capiva perché si era rivolto a lei: era la più grande lì dentro.
Senza dire una parola lo prese in braccio e lo strinse, capendo che non voleva altro da lei.
E mentre gli accarezzava i capelli arruffati, capì che quel bambino era lì per la prima volta.
E anche lei era stata lì, anni prima, dopo che l'avevano portata via da casa sua.
Li avevano presi tutti, li avevano divisi in gruppi, i bambini da una parte, gli adulti dall'altra. E lei aveva pianto tutto il tempo, chiamando suo fratello. E c'era stato qualcuno che si era preso cura di lei proprio come stava facendo adesso con quel bambino terrorizzato.
Ed era stato allora che aveva incontrato Cassandra Spender per la prima volta, quando era ancora giovane e bella, e quando suo marito aveva deciso che era arrivato il momento di contribuire "concretamente" al Progetto.
Fu percorsa da un brivido: ricordare tutte quelle cose, tutte insieme, le aveva succhiato via le energie.
Credette di perdere l'equilibrio e rovinare a terra, trascinando con sé il ragazzino, ma fu proprio lui a impedire ad entrambi di cadere, aggrappandosi alla sponda opposta del lettino.
Lo guardò, placando il suo sguardo preoccupato con un sorriso un po' imbarazzato.
Entrarono i "dottori".
E Sam sapeva di averli già visti, anzi, le erano talmente familiari che, se si fosse sforzata un po' di più, sapeva che avrebbe persino ricordato i loro nomi. Come ricordava il limpido sentimento di odio che aveva sempre associato alle loro facce.
Furono sorpresi e un po' disorientati nel trovarla sveglia. "Spiacente, ragazzi, pensò, il sonnifero o qualsiasi altra schifezza mi iniettiate nel corpo comincia a non fare più effetto!".
Hanno paura di me. Hanno paura di pensare quando ci sono io, quando sono sveglia. Se li guardo negli occhi distolgono lo sguardo.
Non lo intuiva o ipotizzava, lo sapeva e basta.
Uno di loro la fece uscire dalla stanza, la precedette lungo corridoi porte anonime e pesanti, stanze deserte, in cui stavano altri lettini in acciaio, sedie spoglie, mensole vuote.
Le fredde e bianche luci al neon rendevano tutto irreale e onirico, come in un incubo. Un incubo a lei molto familiare. Avvertiva chiaramente la certezza che, se l'avesse abbandonata lì, in quel momento, avrebbe trovato da sola la strada per uscire.
Dietro l'ennesima porta il panorama cambiò d'improvviso: moquette sul pavimento, riproduzioni di miniature famose alle pareti, luci soffuse e calde, vetrate luminose, scaffali popolati da libri e riviste mediche e scientifiche, piante vivaci e colorate. Lì non c'era mai stata.
Un lungo corridoio, una porta solitaria e anonima. Era la stanza riservata ai presidenti delle grandi compagnie, al capo di "Mission: Impossibile" in televisione. L'uomo che la scortava aveva paura di entrare in quella stanza. Allora, come mai lei non ne aveva?
L'uomo aveva bussato, erano entrati. Lui si era subito spostato sulla destra, lasciando libero il suo campo visivo, perché vedesse e fosse vista dalle persone che occupavano la stanza.
Un uomo anziano, così sembrava ai suoi occhi giovani, stava seduto dietro la scrivania, su una poltrona di pelle nera; un uomo di qualche anno più giovane stava in piedi affianco a lui; altri uomini stavano, in piedi o seduti su poltrone, sul lato sinistro della stanza, in grappolo intorno ad un tavolino da caffè. Non ne riconosceva nessuno.
La sua attenzione si concentrò sull'uomo accanto al "presidente": non aveva lo sguardo spietato e ruffiano degli altri, ma soprattutto, era l'unico lì dentro che non aveva paura di lei. Anzi, c'era solidarietà e compassione nei suoi occhi, nel suo modo di piegare la testa da un lato.
Dall'uomo seduto sulla poltrona di pelle nera veniva disappunto. La guardava con occhi acquosi e spietati. Le sue labbra a cuore si sporgevano in fuori, come di un moccioso che tiene il broncio.
Era scontento di lei. Non vedeva alcun progresso.
Una fredda sensazione le arrivò dal gruppo di uomini nella penombra del salottino. Seduto sul divanetto stava un terzo uomo, silenzioso, che non l'aveva degnata di uno sguardo da quando era entrata: a quanto pare le preferiva la sua cravatta a righe blu e argento. Stava prendendo tempo: come fanno gli scimpanzé quando si grattano la testa, indecisi sul da farsi. E, al momento giusto, avrebbe fatto la sua entrata.
Non ho paura: forse dovrei averne, ma non la cercherò: è quello che loro si aspettano.
- Samantha… -, disse il capo, invitandola con la mano ad occupare la sedia che stava davanti alla scrivania. Sam lanciò uno sguardo di assoluta indifferenza alla sedia, ma non si sedette.
Il secondo uomo sorrise impercettibilmente.
Allora il capo si fece ancora più ostile.
- Immagino tu sappia, o intuisca, ciò che succede qui, ciò che succede a te -, iniziò, guardandola fisse negli occhi. Non temeva quello sguardo e lo sostenne.
Al silenziò ostinato di Sam, il primo uomo si spazientì visibilmente. Gli altri si avvicinarono, tutti, tranne il terzo uomo.
- Potremmo domandarle qualcosa, per saggiare le sua capacità -, fece uno, timorosamente.
- Si, potremmo iniziare con i test di verifica -, incalzò un altro, più sicuro.
Il primo li zittì con un gesto della mano; sembrava pensieroso.
Tornò a guardarla.
- Tu che ne pensi Sam? Ti senti pronta? -, le chiese, sinuoso e viscido come un serpente.
Sam non parlò.


- Rifiuta di collaborare: non sappiamo quanto ricordi. E non sappiamo nemmeno quanto sappia, attualmente -.
- Siamo di fronte ad un fallimento, signori, bisogna ammetterlo. Il soggetto ci è sfuggito di mano -.
- La chiami soggetto, come se non l'avessi mai tenuta sulle ginocchia durante le grigliate del quattro luglio quando aveva appena tre anni! -, lo rimbrottò l'uomo che era dietro alla scrivania finché Sam era stata in quella stanza.
- Ora le cose stanno in modo diverso; il Progetto è ad una svolta. Abbiamo già due soggetti sotto osservazione; altri ne verranno. Non sono così pessimista come tu sostieni -, concluse l'uomo che tanto amava la sua cravatta.
Non si chiamavano mai per nome: la prudenza non era mai troppa.
- Non avevamo previsto questo. Con lo sviluppo puberale e l'inizio della produzione di ormoni, il soggetto ha cominciato a reagire in modo inaspettato ai medicinali inibitori. In più, l'azione combinata di estrogene e progesterone rende il soggetto instabile e quindi imprevedibile -.
- Dottore, -, il giovane si girò verso il terzo uomo. Non era uno degli uomini che Sam aveva riconosciuto nel laboratorio. Ma il suo camice bianco lasciava intuire che l'avrebbe riconosciuto se lo avesse visto.
- Lei ha seguito il soggetto dall'inizio … -.
- Si, sono ormai sei anni -, puntualizzò, senza nascondere un certo rammarico. Come se provasse vergogna e fosse pronto al pentimento.
- Come mai non aveva previsto questo? Voglio dire, era inevitabile che la ragazzina iniziasse a diventare donna, prima o poi! -, esclamò, guardandosi intorno con un sorriso stupito. Lo stava ridicolizzando, e provava un piacere indescrivibile nel farlo.
- Se leggete con attenzione la breve relazione che ho steso e sviluppato -, disse, scoccando un'occhiata gelida all'uomo che lo aveva appena deriso, - potrete capire i motivi che ci hanno reso impossibile prevedere questo sviluppo inaspettato. Contro di noi lavoravano anni di ricerche su soggetti femminili presi in età già matura sessualmente e che non avevano dato che riscontri positivi, sebbene gli interventi siano poi risultati fallimentari a causa di altri imprevisti. Comunque, non esistevano avvisaglie dell'impossibilità pratica di lavorare su soggetti allo stadio pre-adolescenziale. Gli ormoni prodotti da un soggetto femminile adulto sono minori e meno instabili di quelli prodotti da un'adolescente. Questa è la prima ipotesi che possa giustificare …-, rimase a corto di parole.
- … il vostro errore -, concluse ancora il terzo uomo, con lo guardo perso tra le righe dell'opuscolo.
- Già…-, mormorò il giovane, pensieroso.
- Volete dire che, fino ad adesso, non avete mai portato un soggetto allo stadio pre-adolescenziale? -, chiese uno di quelli che si perdeva nel gruppo.
Il giovane rimase in silenzio, come se soppesasse le parole e valutasse le migliori da usare.
- Eravamo sempre stati sfortunati. I precedenti test con i bambini si erano rivelati inattendibili e non è mai stato possibile portarli a termine…-, sembrava non voler finire la frase, non spiegare oltre.
- Cosa intende dire? -, insistette l'uomo.
Faticosamente ricominciò a parlare.
- I bambini tendono a diventare apatici e rifiutano di collaborare. Non reagiscono agli stimoli esterni e piano, piano si lasciano andare -, disse, in un soffio.
- Non capisco -, esclamò un altro, perplesso.
- Si lasciano morire -, concluse faticosamente il ricercatore.
Un silenzio di tomba piombò nella stanza, come una colonna d'acqua in una nave che affonda.
"Si, " pensò, "si lasciano morire. Quando capiscono cosa stanno diventando, preferiscono smettere di esistere. Capiscono che non rivedranno più mamma e papà, forse, o, peggio, sentono che stanno cambiando e ne hanno paura. Hanno paura che i loro genitori vedano cosa sono diventati".
Fino ad ora, solo Sam non aveva fatto quella triste scelta. Probabilmente perché, con lei, aveva adottato un metodo diverso, inibendo la sua memoria con l'ipnosi e l'azione combinata di alcuni farmaci sperimentali.
Ma adesso, a metà del processo di ibridazione, Sam aveva cominciato a ricordare.
Non se la sentiva, comunque, di essere così pessimista.
Sapeva che Sam avrebbe lasciato il laboratorio, prima o poi, e di questo era quasi felice, anche se era stato il suo primo, vero successo.
"Devi cominciare a muoverti con le tue gambe, Sam".
Non vedeva Sam come un fallimento, ma come la sua occasione di riscatto.
"Da qualche parte, fuori di qui, c'è tutto un mondo per te, Sam. E tu puoi mettertelo in tasca.".

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PRIMA PARTE - PRIGIONIA

CAPITOLO 6: Se qualcosa dovesse andare storto

- Venti anni fa l'energia rinnovabile era generalmente prodotta ad un costo molto alto e in un modo inefficiente.
L'avanzato potere del sistema di distribuzione dei componenti e i materiali superconduttori delle alte temperature ancora non esistevano, e il settore dei carburanti alternativi era davvero immaturo.
Abbiamo fatto tanta strada da allora -.
Dan Reicher fece una pausa, nella quale sembrava calibrare con gli sguardi quanto il suo discorso introduttivo avesse colpito i presenti.
Ricevendo un profondo ed eloquente silenzio, sorrise impercettibilmente, autocompiacendosi delle sue capacità oratorie, e ricominciò a parlare, ripercorrendo la storia dell'energia elettrica prima, e dell'etanolo poi.
L'uomo in fondo alla sala si allontanò non visto, dirigendosi nel salone del buffet, dove altri partecipanti la convention attendevano l'inizio della premiazione finale.
Ormai la manifestazione si avvicinava alla conclusione. La relazione di Reicher rappresentava l'ultimo, grande appuntamento per i presenti e quindi ci sarebbero state le premiazioni finali, la consegna dei vari riconoscimenti (e sapeva che Reicher aveva già trovato il posto per il suo sulla mensola del camino).
La persona che voleva incontrare non stava tanto distante da lui, ma l'aveva astutamente aggirata non visto per tutta la durata del meeting, aspettando il momento giusto per rivelarsi e rivelare anche le sue intenzioni. O almeno una parte.
Ora la sua "vittima" era sola.
- Takeshi! -, esclamò, portandosi dall'altro lato della stanza, protendendo le braccia come di chi si aspetta un abbraccio e allargando il viso in un ampio, costosissimo sorriso.
L'industriale si sentì disorientato, sentendosi chiamare per nome, convinto com'era che nessuno sapesse che lui era lì.
Si girò e la sua sorpresa aumentò nel vedere chi si trovava davanti.
- Cliff…. -, cominciò, ma nel panico non sapeva cos'altro aggiungere.
- E' dall'Aprile '99 che non ci si vede. Da quella noiosissima conferenza di Dan sui costi dell'energia solare. Tutti quei numeri e quelle statistiche mi avevano ubriacato! E pensare che aveva persino ricevuto un riconoscimento per le sue ricerche! -.
Sorrideva apparentemente noncurante del velo di terrore che scendeva sul viso di Totoki. Aveva la ferma intenzione di spremerlo come un limone.
- Come prosegue il tuo team di ricerca? Stanno ancora lavorando con l'olio di semi di grano? -.
Conosceva già la risposta, ma voleva che fosse l'avversario a decretare il proprio fallimento ad alta voce.
- Beh, abbiamo avuto dei contrattempi, ma stiamo tamponando le perdite con grandi risultati, direi. Non posso nascondere che nel mio centro di ricerca e sviluppo sono entrati alcuni tra i più grandi ricercatori e studiosi del mondo… -, abbassò lo sguardo e si guardò intorno. Bastò quel gesto per annullare tutto l'ottimismo delle sue affermazioni.
Hassani sorrise senza riuscire ad impedirselo. Sapeva che Totoki aveva avuto una soffiata a Dallas a proposito di alcuni scavi e che era stato estratto dell'olio di semi di grano che aveva risvegliato l'interesse della Roush e persino delle autorità. Incosciente e impulsivo, alla ricerca di sponsor per la sua campagna ecologica, aveva fatto di tutto per riuscire ad impadronirsi di quelle autocisterne: era convinto, in un'era in cui si faceva a gara per chi sarebbe riuscito per primo a sintetizzare il biocarburante meno costoso e più potente, che le sue quotazioni sarebbero andate alle stelle e lui avrebbe avuto risorse sufficienti per altri progetti, altre ricerche.
Non si era nemmeno chiesto quale fosse l'origine di quell'olio.
E ora tutti i membri del suo staff stavano morendo.

- Ti interessano davvero i costi dei metodi per ricavare energia elettrica dall'azione del vento, Krycek?-, chiese Mulder, osservando il cartellone che illustrava i temi e gli ospiti della conferenza che, ormai, era agli sgoccioli.
- Da qualche parte dovremo pur cominciare, non ti pare? -, rispose Krycek, laconico, senza dare ulteriori spiegazioni.
Mulder ebbe l'impressione che in passato la situazione fra loro due fosse ben diversa, quando entrambi indossavano completi giacca e cravatta e andavano in giro a fare domande.
Si era fermato ad osservare una mappa barometrica degli Stati Uniti. Denver risultava zona ideale per gli esperimenti col vento effettuati dai team di studiosi che venivano citati nelle varie foto che tappezzavano il salone della hall dell'albergo.
Quando aveva sollevato lo sguardo, si era accorto che Krycek era sgattaiolato nella sala successiva, separata dalla precedente solo da una pesante tenda in velluto rosso. Si accostò alla tenda.
Nella sala era stato allestito un buffet ricco, ormai completamente saccheggiato. Si scoprì affamato, ma capiva che non era ancora il momento di mescolarsi alla gente. Le persone, per lo più uomini di mezza età, si raccoglievano a piccoli gruppetti e chiacchieravano sommessamente fra loro. Discreto e silenzioso, Krycek scivolava lungo la parete destra della stanza, inosservato e pericoloso.
Una lucertola.
Mulder capì che la persona che stava cercando non era in quella stanza, ma che probabilmente c'era stata poco prima.
Qualcosa attirò la sua attenzione: un uomo, sicuramente un orientale, aveva notato Krycek avvicinarsi e si era subito tirato in disparte, come se volesse scomparire nel muro dietro di lui. Sembrava stesse parlando con qualcuno solo pochi secondi prima.
Gli era capitato che, parlando con qualcuno, questi gli dicesse:"Ehi, guarda chi c'è?" e dopo essersi voltato per vedere chi stava arrivando, si accorgesse che la persona con cui stava parlando fosse sparita nel nulla.
Mulder spostò lo sguardo su Krycek per vedere se anche lui aveva notato lo strano comportamento dell'uomo.
Krycek ebbe con lo spaventato industriale giapponese un dialogo breve e affettato. Capiva che quest'ultimo aveva paura del suo compagno: muoveva la testa per assentire o dissentire, gli occhi sbarrati, le mani penzoloni lungo i fianchi.
Krycek sembrava nervoso per ben altri motivi: si guardava intorno furtivo, sospettoso, e quindi tornava a fissarlo come se avesse intenzione di divorarlo se avesse detto qualcosa di sbagliato.
Alla fine era tornato verso di lui, attraversando la sala.
- Alla reception sapranno sicuramente dove si trova -.
- Il chi e il perché sono particolari superflui che avrai cura di spiegarmi più tardi, immagino -, disse Mulder, sarcastico. Il non sapere cosa stesse succedendo lo rendeva cattivo.
Krycek lo guardò con disgusto per la battuta, quindi si era avvicinato al bancone.
- Mi scusi, il sig. Hassani in quale stanza alloggia, per favore? -, chiese alla signorina, sfoderando un sorriso e una voce che non gli calzavano affatto.
La ragazza li aveva guardati per un attimo, come inebetita, quindi si era curvata a studiare il registro.
- Mi spiace, non c'è nessuna stanza registrata a nome Hassani -.
Krycek si era voltato, dando le spalle alla impiegata.
- Quel bastardo ha usato un altro nome. Allora è qui di sua iniziativa, non lo manda la Roush! Beh, avrei dovuto immaginarmelo -.
Parlava più tra sé che con Mulder, che sembrava sempre più spaesato.
- Beh, vediamo se ricordo uno dei suoi nomi più usati… -.
Si era voltato, tornando a prestare tutta la sua attenzione alla ragazza.
- E sotto Holmes c'è niente? -, questa volta il tono era un po' meno gentile di quello precedente.
- Holmes… niente signore, mi spiace -.
- Petersen? -
La ragazza sembrava meno propensa a cercare anche quest'ultimo possibile ospite. Ma lo fece, era il suo lavoro.
- Eccolo, qui. Petersen, Gabriel. Stanza 575 -.
Si era voltata per vedere se il pass era appeso al suo posto.
- Il Sig. Petersen è salito in camera, signori. Volete che vi faccia annunciare? -, e già stava prendendo il citofono.
- No, grazie, non serve -, si era affrettato a rispondere Krycek, mentre già si stava avviando verso gli ascensori.
Quando furono sufficientemente distanti, Mulder lo punzecchiò di nuovo.
- Questo sig. Hassani/Holmes/Petersen deve essere un tuo caro amico se sparisce appena ti fai vivo! -.
- Stai a guardare come si accoglie un vecchio amico! -.

- Bussa. Se ti chiede chi sei, diglielo -.
- Caspita, se non me lo avessi detto tu, non so se ci sarei arrivato! -.
- Piantala Mulder, e fai come ti dico -.
Si era reso conto che quella sosta doveva essere qualcosa di più che un giro turistico per Denver.
Stavano ascoltando il notiziario alla radio (non avevano ascoltato altro. Sembrava che Krycek cercasse proprio quella notizia). Al sentire che a Denver c'era il WindPACT Industry Workshop, Krycek aveva improvvisamente deciso che dovevano farci un passaggio. E da quel momento l'umore dell'uomo era cambiato radicalmente. Sembrava proprio che qualcosa fosse andato storto.
Aveva bussato, ma non c'era stata risposta.
Aveva bussato di nuovo. Uno scatto, e la porta si era socchiusa.
Con un secco colpo delle dita l'aveva spalancata, ma se n'era rimasto indietro, prudente.
La stanza era immersa nell'oscurità.
Ovazioni venivano dall'auditorium dell'albergo.
Vide che Krycek infilava il braccio nella tasca interna della giacca. "Allora sei armato", aveva pensato Mulder, con un sorriso amaro appena accennato.
Potevano rimanere cristallizzati in quella situazione, fermi come erano in quel momento per sempre, ma Mulder voleva vedere la conclusione della storia.
- Signor Hassani, sono Fox Mulder. Posso entrare? -, solo lui si accorse del tremolio della voce, o almeno così sperava.
Sentì un sospiro. Quindi una voce.
- Si, prego -.
Sapeva che non c'era di che fidarsi, ma cosa poteva fare?
- Non sono armato. Non abbia paura -.
"Non io, almeno. Ma qui c'è qualcuno che lo è senza sapere di esserlo, a quanto pare".
Allungò un passo fino al vano, lasciando lì il piede per qualche secondo.
Non percependo alcun movimento sospetto, si era proteso anche con il resto del corpo, lasciando indietro la testa.
- Io non ho paura, ma a quanto pare lei ne ha, Sig. Mulder -, disse una voce dal fondo della stanza.
Nella penombra si intravedeva la sagoma di qualcuno seduto su una poltrona, probabilmente in pelle.
- La ragazza è coscienziosa e diligente, non le pare? -.
Mentre Mulder cercava di mettere a fuoco nella sua mente questa ultima informazione, Krycek sgattaiolò nell'entrata, portandosi con le spalle al muro.
La figura nell'ombra si alzò bruscamente, fulminea fu su Mulder, che emise un verso strozzato quando Hassani lo prese per un braccio.
Si sentiva in dovere di giustificare la sua disattenzione a se stesso con la mancanza di allenamento. E subito si ritrovò a chiedersi che genere di allenamento fosse.
- Sei docile e arrendevole come un topolino, Mulder. Mi aspettavo qualcosa di più da te-.
- Mi spiace deluderla, vedrò di guardare più puntate di Miami Vice!-.
Dopo un attimo di smarrimento, Hassani sembrò capire cosa era successo a Mulder. Rise sommessamente.
- Krycek, a quanto pare non hai proprio niente di valido in mano! -
Mulder si voltò, pensando per un attimo di poter vedere il volto del ragazzo e quindi capire a cosa Hassani faceva riferimento. Ma Krycek si era infilato in un angolo buio e se ne poteva solo sentire il respiro affannato. Era ancora più nervoso di prima.
- Credo tu stia sottovalutando la sua capacità di recupero! -.
Mulder capiva che stavano parlando di lui.
Ci fu un lungo interminabile momento di silenzio, in cui nemmeno si potevano distinguere i diversi respiri.
Fu Krycek il primo a parlare.
- Dov'è? -.
- Non lo so. L' hanno fatta sparire in fretta dopo il tuo passaggio -; quindi aggiunse:
- Totoki è nei guai, Krycek, molto più di quanto dia a vedere. E' nervoso, agitato. Non è detto che vada dai federali, o addirittura da Scully, per risolvere i propri problemi. -.
- Cosa ti fa credere che andrà proprio da lei?-.
- Lei sa come comportarsi di fronte al virus -.
- Non sono ancora riusciti a sviluppare il vaccino. Sono io quello che ha tutte le carte buone in mano -.
- Ah, si, quel lavoretto per i russi … Tu lavori troppo, Alex Krycek. Mi ricordi tanto un giocoliere che cerca di tenere in equilibrio tanti oggetti, di diversa forma e dimensione. Solo che non mi sembri molto abile -, disse, quasi sogghignando. Mulder poteva sentire il suo sorriso fra le pieghe delle parole.
- E poi, la tua merce di scambio è in mano mia, ora -.
- Non sai nemmeno quali siano le sue reali potenzialità, Hassani. Non bluffare con me, io sono qui da molto più tempo di te -.
- Beh, sulle sue capacità rimane tutto da vedere -.
- Hai intenzione di andare avanti per molto, o ci vuoi dire dove si trova l'auto? -, esclamò Krycek, all'improvviso. Sembrava che stesse perdendo la pazienza. E Mulder era convinto di ricordare che, quando Krycek perdeva la pazienza, diventava veramente poco simpatico.
Un sospiro. Un secondo di silenzio.
- E' in viaggio, Alex. E' partita da Dallas a bordo di un autotreno. Sta tornando ai legittimi proprietari -.
- Bene, se ora vuoi lasciare andare il braccio del mio partner… -.
La presa di Hassani sulla spalla si allentò. Anche la canna della pistola si allontanò dal suo fianco.
- Tanto mi sembra che non faccia molta differenza -.
Mulder si girò verso l'uomo, ancora l'oscurità ad impedirgli di vederlo in volto. Ma probabilmente non lo conosceva. Probabilmente.
Troppe persone lo conoscevano senza che lui si ricordasse di averne mai incontrata qualcuna.

- E' pretendere troppo chiedere una spiegazione per le pistole, le frasi a metà, e i riferimenti nemmeno troppo velati alla mia persona?!? -, chiedeva Mulder, mentre, di nuovo in macchina, ripartivano per non si sa dove.
- Totoki è un industriale che, senza saperne niente,si è messo a produrre bio-combustibile. Sfortunatamente per lui, ha usato del materiale altamente tossico e ora tutti i membri della sua equipe stanno morendo -.
Mulder dimenticò per un attimo le sue richieste.
- Morendo? Che razza di sostanze hanno usato? -.
- Diciamo che si tratta di olio vegetale scaduto -.
Krycek accennò un sorriso. Mulder ne era disgustato.
- L'auto che devo recuperare è un'auto sperimentale, non ancora sul mercato, e che brucia combustibile altamente innovativo. Se entra in commercio e la General Motors inizia a produrla in serie, sbaraglieranno la concorrenza, sia per quanto riguarda le auto, che per quanto riguarda la ricerca -.
- Cos' ha di particolare quest'automobile? -, chiese Mulder, incerto.
- Vale un milione di dollari -, rispose Krycek, con una punta di autocompiacimento.
Mulder lo studiò per forse tre secondi, in silenzio, sbattendo le palpebre come chi non crede ai propri occhi.
- Tu l'avevi rubata. E' questa la merce di cui parlava il Duca, non è vero? -.
Krycek non rispose, ma a Mulder non servivano altre conferme.
Ma cosa se ne poteva fare un tipo così di un' auto da un milione di dollari?

Krycek salutò l'uomo alla pompa di benzina e rientrò in auto.
- Cavoli, sono stati furbi. Non avrei mai sospettato che avrebbero riportato l'auto all'ovile! Si trova a Detroit, in un magazzino non ben identificato. Ma riusciremo a sapere quale -, rise compiaciuto.
Mulder si chiese come mai sembrava così soddisfatto.
- Cosa ti fa credere che non sia una trappola? Una auto del genere deve far gola ad una sacco di gente-.
- Non lo credo affatto. Anzi, in effetti, è una trappola. Ma ce la caveremo alla grande, vedrai! -, concluse, dandogli una pacca sulla spalla.
Mulder non si sentiva così ottimista.
- E adesso cosa facciamo? -.
- Ho saputo da fonte certa che stasera c'è una specie di gala alla General Motors, proprio per illustrare le prestazioni della nuova auto ai maggiori azionisti, prima che venga presentata alla stampa entro la fine del duemila. Noi saremo là, giusto per far vedere a Waganer che siamo da queste parti! -.
- Non capisco perché ami tanto metterti così in mostra! -, sibilò Mulder, inquieto.

"Forza Cenerentola, corri alla festa. E ricorda: a mezzanotte la carrozza si trasformerà in zucca!".
Aveva perso un po' della sua manualità in quei giorni? Mesi? … che era stato "fuori dai giochi" e allacciare quella dannata cravatta si rivelava più difficile che correre nella foresta inseguito dai poliziotti.
- Siamo in ritardo! -.
Krycek aveva socchiuso appena la porta infilando dentro la testa.
Poi, un po' imbarazzato, entrò nella stanza reggendo la propria cravatta nella mano e facendo cenno di porgergliela.
- Una cosa che non ho ancora imparato a fare con una mano sola -, disse grattandosi la testa.
Mulder, altrettanto imbarazzato, prese la cravatta e aiutò l'uomo.
- Come è successo? -.
- Eravamo in Russia, io e te. Alcuni ragazzi erano convinti che bastasse tagliarsi un braccio per sfuggire agli esperimenti! -.
Una risata liquida e amara gli scivolò tra le labbra socchiuse. Mulder si sorprese dispiaciuto. Capiva che Krycek non ne voleva parlare.
Finì di sistemargli la cravatta.
- Cosa in questa auto vale così tanto? -.
Krycek si sedette sul letto. Lui si girò di nuovo verso lo specchio, non ancora soddisfatto del proprio lavoro.
- Beh, con questa auto siamo avanti rispetto ai giapponesi di almeno dieci anni. Già la Toyota ha dotato le proprie auto con un sistema di monitoraggio del traffico, detto Monet. Ci sono auto che "dialogano" fra loro e si informano sullo stato del traffico, sulla presenza di ostacoli, cose così. Ma non si era mai visto niente come questa nuova automobile fin'ora. E' dotata di un computer di bordo altamente sofisticato, collegamento internet, sistema di auto-parcheggio e pilota automatico che entra in funzione da solo appena vengono rilevati pericoli, nel caso in cui il guidatore non abbia avuto la prontezza di sterzare o frenare. Ma queste sono alcune delle cose. Non sono un tecnico, non so tutto quello che quell'auto è in grado di fare -.
- E quante sono le persone che ti hanno commissionato il furto? -.
Mulder si era girato, il nodo alla cravatta, ora, era perfetto.
Krycek sembrò per un attimo disorientato.
- Sono venuti da me in tre: Hassani, Totoki e La Signora -.
- Li hai fregati tutti e tre, non è vero? Ecco perché sei così nervoso: nessuno di loro avrà quell'auto, non da te, per lo meno. E per questo ti stanno incollati al culo: per impedirti di dartela a gambe -.
Krycek incurvò un lato della bocca verso l'alto, compiaciuto.
- Bidibi Bodibi bu! -.

- Né motori né carburanti alternativi: troppo costosi. Da qui al 2010 solo l' 1% dei mezzi di trasporto utilizzerà carburanti alternativi. E' questo il commento di Paul Leiby dell' Oak… -.
Mulder sprofondò la testa nelle spalle, rivolgendo il viso dalla parte opposta rispetto al telecronista.
- Ci sono i giornalisti! Ma sei pazzo a portarmi qui? E se la mia foto finisse si giornali? E se qualcuno mi riconoscesse?!? -.
Krycek non capiva il motivo di tanta agitazione.
- Qualcosa ti turba, Mulder? -, fece, con un atteggiamento tutt'altro che premuroso.
- Qualcuno mi sta dando la caccia. Non so chi sia, non l' ho nemmeno visto in faccia. Ma sono pronti ad uccidere per prendermi, questo è certo -.
- La tua fedina penale è pulita. Chiunque ti voglia non è dei buoni, Mulder, e sicuramente sa dove ti trovi -.
- Mi hai tranquillizzato, grazie -, esclamò l'uomo, sarcastico.
La folla di gente "che conta" si era raccolta davanti all'entrata dell'albergo, in paziente e rumorosa attesa che gli uomini della sicurezza supervisionassero inviti e documenti.
- Parlami del tizio che ci ha procurato gli inviti -.
Krycek sorrise divertito.
- Falsario di professione. Lavora alla Roush da parecchio tempo: si occupa di falsificare i documenti per gli altri dipendenti. Ovviamente mi doveva un favore -.
- Sembra sempre di più una puntata di "Mission: impossibile"! -, disse Mulder fra i denti.
- Quanto tempo dovremmo rimanere qui? -, chiese poi, studiando di soppiatto gli altri invitati.
Krycek rispondeva sempre senza guardarlo.
- Il minimo indispensabile perché si accorgano di noi e decidano di correre ai ripari. A quel punto ce ne andremo di corsa -.
- Vuoi smuovere le acque, spingerli a portarsi allo scoperto, non è così? -.
Ancora quel sorriso compiaciuto.
- Quando mi vedranno, manderanno qualcuno a prendere l'auto per allontanarla da Detroit. Quando la merce è in viaggio è più facile da intercettare -.
- Quindi andrai in giro a porgere mani, ops! Scusa, mano, e salutare tutti come fossero tuoi vecchi amici -.
Krycek lo guardò, divertito.
- Avanti, Mulder, non essere timido! -; il sorriso di Krycek si fece insopportabilmente ampio.
- Oh, ecco le ragazze! -, bisbigliò avidamente.
Mulder si girò nella direzione dello sguardo di Krycek. Un paio di ragazze, probabilmente sui venticinque anni, si stavano avvicinando a loro.
Si girò verso il suo compagno, preso alla sprovvista.
Lui, prontamente, diede spiegazioni.
- Due uomini soli suscitano sospetti. Con delle donne al fianco daremo meno nell'occhio -.
- Ma non era tua intenzione farti notare, stasera? -.
- Si, ma come e quando lo decido io! -, rispose, mentre si allontanava di un paio di passi, andando incontro alle ragazze.

- A me sembra una automobile come le altre! -.
Mulder si girò verso Amanda, sconcertato.
- A me sembra tutto il contrario, invece! -.
La ragazza sembrava quasi infastidita dalla sua affermazione e, riluttante, cominciò a spiegare il suo punto di vista.
- All'inizio di quest'anno sia l'Europa che il Giappone si sono imposte per le loro recenti scoperte e gli investimenti sul mercato delle automobili. In molti saloni, in giro per il mondo, si sono tenuti convegni, mostre e prove di automobili cosiddette "intelligenti", perché vanno da sole, hanno il collegamento internet, leggono la posta elettronica e dialogano con le altre auto sulla strada. Pensa che ci sono dispositivi particolari in grado di avvertire l'officina di un guasto, di leggere il traffico o di sapere quanti posti ci sono disponibili in un parcheggio! Quest'auto non fa niente di più o di meno rispetto a quelle progettate e in corso di test in Germania, Francia e Giappone. Se non per il prezzo: quelle giapponesi costano la metà -.
- Probabilmente questa raccoglierà la migliore tecnologia tutta in un veicolo solo -, rispose prontamente Mulder.
Capiva lo scetticismo di Amanda, ma se si faceva tutto questo baccano per una vettura, c'era sicuramente un motivo.
Iniziò a studiare l'opuscolo che gli avevano consegnato all'entrata della sala. Un lungo discorso introduttivo, in cui si spiegava che le ricerche per la nuova generazione di auto intelligenti erano iniziate venti anni prima, e quindi una interminabile celebrazione per illustrare le prestazioni e le innumerevoli dotazioni dell'auto che era stata ribattezzata banalmente (o semplicemente, come sottolineava il coupon) Digital.
In effetti, nulla di nuovo all'orizzonte, cosa che comunque non si erano disturbati ad indicare nel fascicolo.
Ma nulla avviene per caso, tutto ha una spiegazione. Se quell'auto valeva tanto, le risposte dovevano essere altrove, non nella tecnologia delle dotazioni.

"Niente avviene in contraddizione con la natura: avviene in contraddizione con quanto ne sappiamo noi".
"Ciò che può essere immaginato, può essere anche raggiunto".

- Avevo pronosticato che te ne saresti rimasto come un baccalà, invece vedo che ti si è sciolta la lingua e che chiacchieri amabilmente -, gli bisbigliò Krycek all'orecchio, una volta che le ragazze li avevano lasciati soli per avvicinarsi al buffet.
- Sono davvero così imbranato con le donne? -, chiese Mulder, incuriosito più che infastidito.
- Con alcune -, fu la sua risposta laconica, prima di tornare a sorseggiare lo champagne dal flute.
Stava già per chiedere ulteriori spiegazioni, ma Amanda e la sua amica furono di ritorno con una tartina in mano.
- Allora, signore, avete trovato interessante il discorso di Waganer? -.
- Patetico! -, irruppe Cinzia.
- Mi sono quasi commossa a sentire tutti i sacrifici, i bocconi amari e le delusioni che il suo staff ha subito nel lungo e difficile cammino verso un sicuro successo. Ancora un paio di parole e vomitavo, giuro! -.
Le ragazze risero sommessamente, Krycek e Mulder accennarono un sorriso.
- E' arrivato il momento di fare quello per cui siamo venuti qui -, disse Krycek, dopo un ultimo sorso di champagne e porgendo il bicchiere vuoto a Cinzia.
Salutò le ragazze e fece segno a Mulder di seguirlo.

Waganer ero intento ad intrattenere belle e ingioiellate signore con simpatici racconti su aneddoti particolari in cui lui e il suo capace staff erano incappati nel corso degli anni di ricerca.
Da quello che intuiva della conversazione, Mulder dedusse che il concetto che aveva Waganer del divertimento era molto al di sotto del suo standard.
Ma Krycek era impaziente.
- Richard, finalmente ti ho trovato! -.
Il presidente della General Motors sembrò molto sorpreso di vederlo.
- A.. Alex, che piacere…. Ti è piaciuto il mio discorso? -.
Dopo un primo colpo d'occhio incerto, Waganer iniziò a far vagare lo sguardo alle estremità della sala, pensando forse che nessuno si accorgesse del panico in cui sembrava sprofondare attimo dopo attimo.
Ma Krycek gli era addosso, nessuno poteva ancora intuire quello che stava succedendo. Mulder si parò tra Waganer e l'entrata principale, dove si affollavano la maggior parte degli uomini della sicurezza.
- La tua auto è una bellezza, complimenti, non vedo l'ora che sia sul mercato per prenotare la mia! -.
- Beh, uscirà inizialmente in versione limitata: non abbiamo ancora i mezzi per produrne più di un certo numero …-.
Continuava la sua ricerca di rinforzi. Mulder intuì istantaneamente che non si trattava semplicemente di una trappola. Waganer sapeva che Krycek sarebbe venuto lì quella sera e aveva dato disposizione ai suoi uomini perché non lo facessero entrare, o, alla peggio, che lo tenessero lontano da lui. E se lo avessero beccato ad importunarlo….
Un uomo sulla parete a est della sala si era portato una mano all'orecchio, quindi si era dileguato in un corridoio secondario.
- Krycek…. -, fece Mulder, interrompendo il compagno nel suo discorso disturbatore.
L'uomo si girò, senza bisogno di ulteriori spiegazioni lesse negli occhi di Mulder quello che stava succedendo.
- Beh, ora ci dobbiamo proprio salutare, Richard. Stiamo facendo aspettare le nostre signore! -.
I due attraversarono la sala per raggiungere l'uomo misterioso che tanto in fretta si era allontanato dal gala.
- Che aspetto aveva? -, chiese Krycek.
- Normale. Alto più o meno come me, moro, abbronzato. Sembrava italiano o spagnolo. Vestito di scuro, cravatta. Il classico agente di sicurezza, insomma -.
Due nerborute guardie del corpo si pararono loro davanti e quasi Mulder era andato a sbattere loro addosso.
- Spiacente, questa zona è inaccessibile agli ospiti della conferenza -.
- Stavamo cercando la toilette -, si affrettò a precisare Mulder.
- E comunque il signor Waganer ci ha assicurato che…. -, intervenne Krycek.
- Il Signor Waganer ha palesemente richiesto che veniate allontanati dall'albergo, immediatamente -.
- Abbiamo dei regolari inviti. Non potete allontanarci contro la nostra volontà -, insistette Krycek.
- O uscite con le vostre gambe, signori, o saremo costretti ad accompagnarvi -.
- Un uomo che sta partecipando alla conferenza si è appena allontanato in quella direzione! -, disse Mulder.
- Credo che vi stiate confondendo, signori. Vi preghiamo di seguirci -.
Uno a testa, li presero per gli avambracci e li portarono di peso fino all'entrata dell'albergo.
Là c'erano decine di reporter e giornalisti che aspettavano l'uscita dei primi ospiti per intervistarli e fare alcune foto.
Un flash illuminò la scena di Mulder spinto al di là della porta dall'agente di sicurezza.
- Questo si che è farsi notare, eh? -, esclamò acido.
- Sarà il caso di comprare il giornale di domani, che ne dici? -, commentò Krycek.
Si allontanarono assediati dai reporter che continuavano a scattare, mentre i cronisti tentavano invano di strappare dichiarazioni.
- Non mi è mai piaciuto essere popolare…. Dove sarà andato quell'uomo? -.
Quasi in risposta alla domanda di Mulder, un'auto si allontanò in tutta fretta e indisturbata verso l'uscita del parcheggio.
I due si misero a correre attraverso il prato che circondava l'albergo.
Il vialetto di accesso all'albergo girava tutto intorno al giardino per poi dirigersi verso nord, in direzione porto.
Nella concitazione della corsa, Mulder non si era reso conto di aver estratto la pistola.
- Mira alle ruote! -, gli aveva urlato Krycek.
Rispondendo ad un istinto che non pensava di sentire così suo, Mulder si era fermato, aveva preso la mira e, sorprendentemente, aveva colpito la ruota anteriore destra.
L'auto aveva perso il controllo ed era andata a sbattere contro il albero.
Scattò l'airbag.
- Bel colpo! -, esclamò Krycek, una volta raggiunto Mulder, dandogli l'ennesima pacca sulla spalla.
- Ora muoviamoci! Io lo tiro fuori, tu va a prendere la nostra auto -, aggiunse, mentre Mulder, ancora incredulo, guardava l'arma che aveva in mano.
- Viene da chiedersi che razza di lavoro facessi prima! -, pensò ad alta voce.

- Sei tutto intero? -.
L'uomo scosse la testa e sbatté le palpebre.
- Sei svenuto per pochi minuti. L'airbag è scattato, non ti sei fatto niente -. Krycek fece una pausa, per dar modo all'uomo di capire cosa era successo.
Questi si era guardato intorno, aveva studiato i due, quindi si era riaccasciato sul sedile posteriore, portandosi il braccio sulla fronte.
- Cosa avete intenzione di farmi? -, chiese, in un sospiro.
- Ti lasceremo al pronto soccorso se ci dirai dove stavi andando così di fretta -.
L'uomo spalancò gli occhi e fu allora che si accorse che Krycek aveva una pistola e che la stava puntando su di lui.
Di nuovo li chiuse e si abbandonò sullo schienale.
- Vale la pena morire per una risposta che non vuoi darmi? -, chiese Krycek.

"Lei, dov'è?"
"Vale la pena morire per una risposta, è questo che vuoi?"

- L'auto sta viaggiando su un treno merci verso Washington -, disse, arresosi.
- Così mi piaci! -.
Krycek si girò sorridente verso Mulder.
- All'ospedale, James! -.

- E' questa? -, chiese Mulder.
Krycek, torcia in mano, studiava ogni minimo particolare dell'auto che aveva davanti.
- Sembra in tutto e per tutto una normale Ford Taurus, non è così? -.
- Mi sembra da incoscienti lasciarla viaggiare attraverso il Paese in questo modo -.
- Tu ti aspetteresti mai che un'auto da un milione di dollari viaggi in seconda classe? -.
- Tanto seconda non mi pare: vagone singolo tutto per lei, coperto da occhi indiscreti. Ma è rischioso comunque -.
- Meglio per noi -.
Uno scossone improvviso fece ruzzolare la torcia di Krycek sotto le ruote.
- Il treno sta ripartendo -.
Krycek si chinò a raccogliere la torcia che era rimasta accesa.
- Con l'allarme inserito sarà davvero difficile tirarla fuori di qui -, osservò Mulder.
- No, se si ha il passe-partout! -, esclamò Krycek divertito, estraendo dalla tasca del giaccone une tessera magnetica.
- Vedi questa tesserina? Ha un duplice modo d'uso: interrompe il passaggio di energia elettrica che scorre nel lettore e disattiva così l'allarme primario -.
- Allarme primario? -.
Krycek tirò fuori dalla solita tasca un cacciavite.
- Quando te lo dico io, stai pronto a sollevare il vetro del fanale anteriore sinistro -.
- Agli ordini, Mary Poppins! -, fece Mulder, alzando la mano sulla fronte come un militare e portandosi davanti all'auto.
Krycek inserì la tessera nel lettore, che stava all'altezza della serratura di una qualsiasi altra auto.
- Ora! -.
Mulder fece forza col cacciavite sul bordo del fanale. Il vetro si staccò non proprio facilmente.
- Fatto! -.
- Estrai la lampadina. Così facendo si disattiva un pulsante interno che inserisce l'allarme vero e proprio -.
Mulder sogghignò divertito: bella trovata!
- Dovranno rifare tutto l'impianto. Non è la sola auto che ha questo tipo di antifurto. Un ladro esperto potrebbe anche riuscire a rubarla! -.
- Come te! -, aggiunse Mulder.
- Scendete subito dal treno! -.
Al sentire quella voce alle loro spalle, i due uomini si gettarono a terra, scivolando sotto l'auto.
- Merda! E questo chi è? -, imprecò Krycek, spegnendo la torcia.
- Disattivando l'antifurto dell'auto, avete inevitabilmente attivato una bomba che si trova sotto il vagone -, continuò la voce.
- Puttanate! -, sibilò Krycek.
Dopo un attimo di silenzio, la voce riprese.
- Fate come vi pare. Non so quanto tempo vi rimanga -.
Si aprì lo sportello scorrevole del vagone.
Krycek e Mulder uscirono da sotto l'auto.
- Perché credi ci abbia raccontato questa storia della bomba? -.
- Per spaventarci, è chiaro! -, rispose Krycek.
Mulder si portò allo sportello. Si sdraiò sul pavimento e si sporse in fuori, quel tanto che bastava per vedere sotto il vagone.
- Beh, Krycek, ho due ipotesi per te: potremmo stare qui sopra e scoprire troppo tardi che quell'uomo aveva ragione, o fare un balzo e fare finta che quella cosa che sporge da sotto il vagone e che normalmente non avrebbe alcun bisogno di stare lì e tanto meno di lampeggiare di rosso, sia una bomba -.
Un movimento sopra la sua testa gli fece capire che Krycek aveva data per buona la seconda ipotesi.
Si alzò, studiando velocemente il paesaggio. C'era un leggero dislivello tra il selciato su cui correvano le rotaie, e il campo, ma l'erba sembrava soffice nell'oscurità e se non avesse saltato in fretta non avrebbe più potuto farlo: più avanti le rotaie erano costeggiate da un filare di alberi.
Si allontanò di qualche passo dall'uscita. Un paio di passi veloci e un balzo.

Mark non ci aveva pensato due volte ed era corso quando Sara gli aveva telefonato per avvisarlo che i suoi non erano in casa quella sera e che sarebbero rientrati molto tardi, o magari sarebbero rincasati la mattina seguente, trattenuti al gala a cui erano stati invitati e da cui era impossibile sottrarsi.
Aveva preso il furgone di suo padre e aveva attraversato la città con la mente persa in mille pensieri e fantasie, in cui Sara aveva il ruolo di protagonista.
Poi, improvvisamente, una luce all'orizzonte lo svegliò dai suoi sogni ad occhi aperti.
Fermò il furgone sul bordo della strada. Al lampo seguì un boato assordante. Si chinò istintivamente, portandosi le braccia davanti al viso.
Un nuvolone di fumo si alzò, mentre brandelli di lamiera, lingue di fuoco e altri oggetti non ben identificati si sollevavano da terra, sospinti dalla violenza delle detonazioni che si susseguivano a distanza ravvicinata. Dalla posizione stimava che l'esplosione doveva essere avvenuta lungo le rotaie.
Dimenticò Sara e i suoi sogni, tirò fuori il cellulare e compose un numero.
- Pronto, sono Mark Donnelly. Sto viaggiando sulla 224 in direzione Akron. C'è stata un'esplosione sulla linea ferroviaria. Mandate subito delle ambulanze: potrebbero esserci dei superstiti -.

Continua...