Antefatto

Una quindicina di anni fa, quando ancora avevamo un prete, col mio amico Nicola S., una sera andai a trovare Don Mario M. ( da tutti sempre più rimpianto). Questi viveva in solitudine, nella completa indifferenza dei miei compaesani, che quando si mettono d'impegno, sanno essere vergognosamente egoisti ed irriconoscenti. Era un gelido inverno ed il brav’uomo, per riscaldarsi, bruciava nel camino i moccoli delle candele che recuperava dai candelabri dell’altare. Quella sera Don Mario accennò alla necessità di far restaurare un cassettone antico. L’indomani sarebbero arrivati alcuni tecnici della Sovrintendenza ai Beni Culturali e si doveva sgombrare il mobile da tutti gli oggetti che conteneva. Scendemmo in una stanza, da cui si accedeva direttamente in chiesa e lo aiutammo a riporre in alcuni scatoloni vecchie cotte, casule e tovaglie da altare. Tutta roba molto vecchia e molto deteriorata. Fu nel togliere l’ultima cotta di lino, logora ed ingiallita, che questa rimase impigliata in qualcosa. Don Mario cercò di liberarla senza strappare la stoffa, ma dopo qualche minuto di inutili sforzi, arrivò alla conclusione che, in fin dei conti, si trattava di uno straccio che avrebbe comunque dovuto buttare via e, quindi, le diede un vigoroso strattone. La cotta venne fuori, ma con essa si portò un pezzo di pannello di una ventina di centimetri di lato. Il legno era tutto tarlato e marcio, tuttavia il sacerdote cercò di metterlo al suo posto. Solo allora si accorse il pannello celava un incavo segreto, nel quale si intravedeva un fagotto. Per tirarlo ruppe un altro pezzo di legno, leggermente più grande del primo, il quale faceva da tramezzo tra il cassetto e l’intelaiatura del mobile, e finalmente, con molta delicatezza, recuperò l’oggetto. Lo liberò dall’involucro costituito da un panno di cotone ed apparve una cartella di cuoio, legata da lacci dello stesso materiale, in cui c’erano diverse pergamene e qualche foglio di carta. Tutti e tre rimanemmo sbalorditi del ritrovamento. Precipitosamente don Mario rinchiuse tutto e non volle che ci dessimo neppure uno sguardo, promettendoci, però, che ci avrebbe fatti visionare i documenti una volta accertato che non vi fosse scritto nulla che potesse nuocere a Santa Romana Chiesa. Io e Nicola ce ne tornammo a casa frustrati e stizziti.

Il religioso, però, mantenne la parola e non passò neanche un mese che, dopo un incontro casuale, mi portò in canonica e mi mise davanti i documenti. Erano antichissimi ed abbracciavano diversi secoli. Ma c’era dell’altro! Gongolante di gioia e certo dell’effetto che avrebbe provocato in me, mi porse un piccolo volume che teneva celato dietro la schiena. Rimasi senza parola era un codice miniato. Era l’ultima cosa che avrei pensato di trovare nel mio paese. Aprii con mano tremante la prima pagina …………….

  

omine Nostro J.C. gratus, Malachia Rhetinus in agro Tur.(illeggibile)

Item Ad Seraphinum Archiepiscopum
Presul precipuae atque uenerande
Culmen magnificum. aecclesiarum
Summus noster honor. Noster et altor
Luxque insigne decus. Digna salusque
Nostri sancte gradus. Ordinis auctor.
Quae digesta meo Suscipe sensu
Sacra tange manu Quae
.......

 

JERUSALEM DI TURRICELLA
Liberamente tratto dall' "Historia Domini Culumbarum" ("Historia tertia" del Codex Turricellanus di Martino da Rieti)

 

Ginulfo

 

Ginulfo, conte di Benevento, era un uomo sanguinario e malvagio, e se la sua anima era brutta il suo volto ne era lo specchio.

Piccolo di statura, con colorito giallognolo e malaticcio tipico di chi è avvezzo ad ogni vizio, aveva una folta barba corvina e radi capelli. Una bocca sogghignante racchiudeva denti grigi e marci.Non c’era al mondo un delitto che non aveva commesso o nefandezza che non avesse conosciuto.

Forte del terrore che esercitavano i suoi sgherri ed in assenza del Duca, suo signore, impegnato in una lunghissima guerra, affamava i propri sudditi con sempre nuove tasse e gabelle. Taglieggiava perfino le chiese poste sui suoi territori, pretendendo parte delle decime e delle offerte.

Serafino, vescovo di Benevento, uomo pio e generoso, era intervenuto molte volte per tentare di mitigarne l’animo, ma ne aveva avuto solo ingiurie e derisione.

 

 

Il conte amava molto la caccia e più di una volta aveva inseguito una preda per un’intera giornata, sfiancando cavallo e cani. Si fermava, poi, nelle case dei sudditi più facoltosi, pretendendo la più nobile delle accoglienze. Se la caccia non era stata propizia, sfogava la sua ira depredando delle cose migliori coloro che l’avevano ospitato.

Amava molto il vino e suo compagno di bevute era Egario, un prete originario di un borgo ai confini con la marca foggiana, che da tempo aveva anteposto vino e oro a nostro Signore Gesù Cristo.

Egario prestava i soldi ad usura a contadini ed artigiani, pretendendo a scadenza interessi tanto elevati che molti, per far fronte ad un piccolo debito divenuto enorme, avevano perso tutto, terre, case, botteghe e bestiame. Egario serviva il conte come informatore, traendone in cambio vino e protezione.

Ginulfo aveva fatto venire da Basilicæ, uno sperduto villaggio che si trovava nella parte settentrionale del ducato sannita, una strega di nome Dimonda esperta in filtri, fatture e veleni. Con lei passava giornate intere in un’ala del castello, compiendo riti innominabili ed evocando spiriti immondi.

In quelle sale avevano accesso solo la strega, Egario ed un servo del conte, un uomo senza scrupoli, spesso usato come assassino prezzolato. Questi aveva gli occhi che quasi gli fuoriuscivano dalle orbite, per la qual cosa era chiamato da tutti Occhidipecora.

Il conte divenne sempre più audace ed arrogante, tanto da pretendere perfino una tassa sul pane. Il popolo, già prostrato dalla sua ingordigia ed inferocito dal nuovo balzello, infine si ribellò ed una notte assalì in massa il castello.

Ginulfo, resosi conto che le guardie non avrebbero potuto sostenere l’impeto di quella marea umana, decise di fuggire per un passaggio segreto e con lui preferirono tagliare la corda il suo servo, Egario e Dimonda. Fu al prete che venne l’idea di passare, per la cattedrale, a quell’ora deserta ed incustodita prima di abbandonare la città,.

Forzarono facilmente la porta e si diressero in una cripta, di cui pochi erano a conoscenza dove trafugarono le veneratissime reliquie di San Bartolomeo ed il cospicuo tesoro della cattedrale. Misero tutto in un grosso baule che sistemarono su di un cavallo. Solo a questo punto si resero conto che mancava loro una cavalcatura. Dopo alcuni attimi di smarrimento e spaventato dalla prospettiva di cadere nelle mani dei rivoltosi, il conte fece un segno al suo servo che prontamente comprese il messaggio. Occhidipecora invitò Egario a montare sul suo cavallo e mentre questi infilava il piede nella staffa, lo pugnalò a morte. Compiuto quest’ultimo misfatto si allontanarono dalla città.

 Ginulfo aveva intenzione di raggiungere suo cugino Astolfo, duca di Bari e chiedergli un esercito. Il mattino dopo giunsero in un borgo fortificato, Turricella, dove si fermarono per riposare. Il conte pensò che era poco prudente fidarsi di suo cugino e che sarebbe stato meglio nascondere il tesoro perciò, dopo che si furono ristorati, presero a salire il colle e si portarono in un luogo selvaggio ed isolato chiamato il Bosco della Fajana. Si fermarono in una radura, ai piedi di una quercia maestosa, dove Occhidipecora cominciò a scavare una profonda fossa.

 

Quando ritenne che questa fosse adeguatamente profonda, si fermò per riprendere fiato. Il conte gli chiese se fosse disposto a rimanere lì a custodire il tesoro. Al servo brillarono gli occhi per la cupidigia ed accettò senza esitazione.  

"Appena questo vecchio imbecille sarà partito – pensò – disseppellirò il tesoro e me ne andrò a Napoli, dove nessuno mi conosce e farò il signore per tutta la vita".

Ginulfo allora gli disse: "- Custodisci questo tesoro per me o per chi viene in nome mio. Consegnerai la cassa solo quando saranno pronunziate queste parole

Sette vipere nel fosso
un villano hanno morso
Sette i diavoli furibondi
Chiusi in antri bui e profondi
Ma mille teste recise il moro
Rendimi, o servo, il mio tesoro".

Fece ripetere diverse volte la formula a Occhidipecora finché non l’ebbe imparata a memoria, poi , mentre questi gli dava le spalle lo trafisse con la spada da parte a parte. Sgranando incredulo gli occhi cadde a terra e mentre, annaspando nell’agonia mordeva la terra, la strega cantilenò un sortilegio. Come rese l’ultimo respiro, la sua anima si trasformò in un falco che volò verso il cielo, lanciando un grido di disperazione. Fu seppellito insieme alle reliquie ed al tesoro e così le ossa di un Santo si trovarono interrate insieme a quelle di un assassino.

 Serafino

Ma la natura non poteva sopportare tale assurda ed empia promiscuità e si ribellò.

Passarono alcuni mesi ed i beneventani rinunciarono a cercare le spoglie di San Bartolomeo, convinti oramai che fossero andate irrimediabilmente perse.

Di colpo cominciarono a mutare le stagioni e si abbatté una grave carestia prima ed una pestilenza poi.

E come sempre succede in questi casi la morte iniziò a mietere le sue messi, senza fare più distinzioni. Non risparmiava più nessuno, né vecchi ischeletriti né giovani vigorosi, né severe madri né gioiose fanciulle.

Andava a visitare i poveri nei loro tuguri ed i ricchi sotto i preziosi baldacchini, ricopriva di pustole maleodoranti gli assassini nelle prigioni ed i chierici nelle case del Signore. Bande di saccheggiatori passavano di casa in casa a ripulire le dimore abbandonate e dappertutto si sentiva solo il lamento dei moribondi ed il tocco funebre delle campane. Branchi di cani selvatici si contendevano brandelli di cadaveri frettolosamente seppelliti in fosse poco profonde. La gente disperata si riversava nelle chiese per implorare perdono e salvezza.

Il vescovo Serafino passava le sue giornate in preghiera, umiliando il suo corpo con frequenti e prolungati digiuni. Una notte, prostrato dalla mancanza di cibo e di sonno, mentre era in preghiera si assopì ed ebbe una visione che lo impressionò molto.

Sognò che una torma di diavoli trascinava l’anima di Ginulfo nel luogo dell’eterno dolore. Poi San Bartolomeo che si doleva che le sue ossa fossero frammischiate a quelle di un assassino e che nulla aveva tentato il suo gregge per recuperarle.

Il Santo indicava un paese arroccato su di una collina, dove volteggiavano decine di colombe, tortore e rondini. Da una foschia uscì giovane dai lunghi capelli castani, che con un fischio chiamava le colombe, le quali si fermavano ai suoi piedi e si facevano prendere e carezzare. Il ragazzo parlava con loro e guardava preoccupato verso oriente, dove si stavano addensando cupe nubi.

Il vescovo si svegliò di colpo, tremante e agitato. Cantò una laude in gloria a nostro Signore, ringraziandolo commosso del segno ricevuto. Si rese conto che era ancora notte fonda, tuttavia svegliò il suo servitore ed il suo assistente e diede disposizioni per un lungo viaggio. Partirono all’alba con tre muli, tenendo sempre il sole di fronte, alla ricerca del signore delle colombe

 Turricella

 

 

Turricella era un villaggio con meno di 500 abitanti, per lo più contadini ed artigiani. Aveva una struttura molto strana, differente dagli altri villaggi. Innanzitutto le abitazioni, anzicché arroccarsi nella parte più alta del colle, erano state costruite nella parte più bassa. Ma questo aveva una logica difensiva: difatti l’unica strada di accesso al paese era un viottolo strettissimo, che si incuneava tra due colline e costeggiava il Rivo Nantri (ora Nandri), un limpidissimo ruscello che nasceva e moriva nelle terre di Turricella ( il fiume di Noi Altri, contrattosi poi in Nantri). Un esercito, che avesse voluto attaccare il paese da quella parte, si sarebbe trovato in una strettoia dove a stento potevano manovrare due cavalli per volta. Guadato il corso d’acqua, ci si imbatteva in due sentieri : Uno stretto e scosceso, portava ad una dei tre ingressi del paese, Porta Nuova, l’altro largo tanto da poterci passare un piccolo carro, costeggiava la parte settentrionale del colle e portava alla seconda porta, il Varo del Castagno.

Porta delle Casaline era l’ultimo accesso al borgo ed era collocata sul lato sud orientale

.

Le case addossate l’una a l’altra facevano da cinta muraria. Le entrare delle abitazioni erano tutte collocate sulle vie interne, mentre solo piccolissime finestre e feritoie prendevano luce dalla parte esterna. Qualcuna aveva un piccolissimo varco, munito però di robusti cancelli in ferro, che per legge dovevano essere sempre chiusi prima del tramonto. Questi davano su minuscoli orti dove erano situati ripari per galline, maiali e pecore. Le tre strade di accesso erano sbarrate da porte, aperte le quali, si passava per un sottopassaggio di una decina di metri. L’entrata della Portanuova immetteva nella piazzetta del Vecchio Olmo, mentre quella del Varo del Castagno portava nei pressi della chiesa di San Nicola, anch' essa integrata nel sistema difensivo del borgo. Altre viuzze e sottopassaggi si diramavano dalle due principali. Un tunnel, che passava sotto quasi tutte le case della parte settentrionale del paese, portava dalla chiesa ad una piccola torre di difesa che proteggeva il lato nord. Una torre più grande e più munita era posta isolata in un luogo più alto a protezione del lato sud e di quello orientale. Ad occidente c’era una palude formata dal Rivo Nantri ed una foresta di noccioli. Il borgo era abitato da un centinaio di famiglie, per lo più dedite all’agricoltura. C’erano però anche valenti artigiani: un fabbri, sarti, vasai, scalpellini, calzolai, bottai.

I terreni vicini al villaggio erano poco fertili, per cui i contadini dovevano percorre diversi chilometri per andare ai Campi delle Filette o ai Campi dei Cerasi a coltivare i campi migliori. Le donne lavoravano piccoli appezzamenti negli Orti di Nandri, dove potevano anche lavare i panni. Le vigne davano un buon vino che i Turricellesi scambiavano con i villaggi vicini.

Nella piazza del Vecchio Olmo c’era la taverna dello Scudo Spezzato di Mastro Alberto. A sera, dopo il lavoro, gli uomini si trovavano a bere un boccale di vino o a giocare con gli astragali . Qualche viaggiatore isolato vi si fermava per ristorarsi e passare la notte al sicuro.

Le donne, al vespro, andavano a pregare nella chiesa di San Nicola, dove il buon Martino celebrava le funzioni religiose .

  

 Jerusalem

Jerusalem era un ragazzo di diciassette anni. Aveva lunghi capelli castani, ed era più alto della media. Era forte come un torello ed aveva una grande passione per la caccia, che praticava, ogni volta che ne aveva l’opportunità, nei boschi e nelle foreste dei dintorni . Le sue prede, però non erano mai tortore o colombe, animali che lui allevava ed amava moltissimo.

 

Cacciava con un arco molto potente di legno di tasso e conservava le frecce non in una normale faretra, bensì in un turcasso orientale, che aveva ereditato da suo padre.

Con quest’arma era molto bravo e spesso abbatteva lepri, volpi, tassi e cerbiatti. Per due volte era riuscito a sorprendere nel Bosco della Fajana un cinghiale e in entrambe le volte aveva dovuto chiedere in prestito un carro per trasportare gli prede, preziosissime riserve di cibo per l’inverno.

Era orfano e viveva con sua zia Genoveffa, che borbottava sempre come una pentola sul fuoco, ma che tutto sommato lo amava moltissimo. Avevano un campo nei pressi dei Boschi dei Grifi, che entrambi coltivavano con molta diligenza. Jerusalem passava ore ed ore con le sue colombe che chiamava con un fischio acutissimo. Queste venivano a becchettare le granaglie nelle sue mani, mentre le carezzava e parlava loro come se fossero esseri umani. Conosceva i suoi volatili uno ad uno e dava loro nomi di nobili cavalieri e dame, a secondo del colore del piumaggio o del portamento. Li chiamava Visconte, Principe Saltellante, Cavaliere grigio, Barone nero, Contessa Bellacoda, Principessa Occhioazzurri, ma la sua colomba preferita era Regina Bianca, che aveva un piumaggio di un candore immacolato. Questa sembrava che comprendesse tutto quello che il giovane le diceva. Spesso le stava su una spalla ed era sempre la prima a picchiare dal cielo, tutte le volte che il giovine lanciava il suo fischio.

Quel pomeriggio il ragazzo se ne stava seduto all’aperto a pensare ad Aurora, la figlia del mugnaio, una ragazza giovane e flessuosa come un giunco, mentre su di una roccia di fronte a lui Bianca si puliva le penne col becco. Vide arrivare da lontano tre uomini a cavallo, che lentamente costeggiavano il Nandri per prendere poi il sentiero che portava al Varo del Castagno. Da un paio di anni si vedevano sempre più persone aggirarsi nei dintorni spinti dalla fame e dall’epidemia. Quando i viaggiatori furono usciti dal suo campo visivo, egli continuò a perdersi nei suoi sogni, mentre la colomba continuò a guardare fissamente nella loro direzione.

Venanzio

 

Ginulfo non era riuscito ad ottenere un esercito dal cugino, che, già impegnato per conto suo in un'altra guerra, non aveva alcuna intenzione di inimicarsi nobili confinanti. Il conte allora decise di formare un proprio esercito; ma per questo occorreva oro, molto oro, per cui doveva assolutamente recuperare la cassa che aveva seppellito due anni prima. Raccolse un centinaio di sbandati e delinquenti comuni, ai quali promise oro e saccheggio e partì alla volta di Turricella in una fosca mattina d'estate.

"Prenderò il paese con un colpo di mano - pensava - e mentre questi tagliagola saranno intenti a saziarsi di donne e saccheggio, andrò a disseppellire il baule".

Con sé portò la strega Dimonda che gli era restata fedele in quegli anni.

 

Tre giorni dopo il cielo era cupo come non mai. I contadini, temendo di incappare in un diluvio non andarono nei campi, preferendo restare a casa. Ma dal cielo non una sola goccia d'acqua cadde.

A sera Fiorenzio andò nella canonica, portando con sé vino, miele di acacia ed anche un bel pezzo di maiale. Ma la cena non fu allegra. Serafino era meditabondo e parlò pochissimo durante il pasto e si ritirò subito dopo nella sua stanza per pregare. Martino e Fiorenzio restarono insieme ai due accompagnatori del vescovo a discutere.

Quella sera c'era molta gente allo Scudo Spezzato. Come al solito si parlava, giocava e beveva. In un angolo Malgino, un giovine musico, cantava accompagnandosi con un vecchio laud ed a stento riusciva a sovrastare il vocio dei clienti.

Venanzio, un contadino delle parti dei Campi dei Cerasi, quella sera aveva alzato un po’ il gomito e si era addormentato profondamente nell'angolo meno illuminato della taverna. L'ultimo dei clienti andò via e Mastro Alberto si accingeva a sbarrare le porte, quando si accorse del dormiente che russava placidamente. Lo svegliò senza complimenti e, quando si rese conto che era in grado di reggersi in piedi, gli mise il cappellaccio sulla testa e lo mise fuori della porta. A Venanzio occorse qualche minuto per raccogliere le idee e realizzare dove si trovava, quindi cantando si diresse giù a Porta Nuova. Questa era stata già chiusa. Sempre di buon umore e barcollando notevolmente, si diresse al Varo del Castagno. Ma anche questa porta era sbarrata. Dopo altri minuti di indecisione, decise di bussare alla porta di Massimino, un suo compare, che abitava lì vicino.

"Compareeeeee! Compare Massimininoooo"- urlò più volte fino a che questi, mezzo nudo e visibilmente seccato venne ad aprire, pregandolo di non gridare.

" Carissimo compare… il migliore compare del mondo ho io….." - continuò Venanzio alitandogli sul viso - "mi hanno lasciato dentro…..e non mi lasciano uscire".

"Fammi dormire con te !" - disse aggrappandosi a lui per non cadere. Massimino non aveva nessuna intenzione di ospitare il suo compare quella notte e gli aprì il cancello del suo orto. Venanzio prese un piccolo sentiero che lo portò su una strada, solo di poco più larga, che conduceva agli Orti di Nandri. Malfermo sulle gambe la percorse tutta, inciampando diverse volte a causa della profonda oscurità e finalmente arrivò al guado del Nandri. Il ruscello d'estate aveva una portata minima ed era possibile traversarlo senza bagnarsi camminando su sassi che affioravano dal suo letto. Riuscendo a mantenere un miracoloso equilibrio il contadino riuscì a passare il rivo senza cadere. Ora doveva solo prendere il sentiero che lo avrebbe portato ai Campi dei Cerasi. Ma aveva percorso sì e no un centinaio di passi quando sentì il nitrito di un cavallo. Sobrio abbastanza da intuire un possibile pericolo si nascose in una macchia di prugnoli selvatici. Giusto a tempo! Una schiera di cavalieri, preceduta da un esploratore, che appiedato cercava di seguire il sentiero per guidare gli altri, gli passò davanti. Erano tutti armati fino ai denti e silenziosi. Si stavano dirigendo silenziosamente alla volta del villaggio. Venanzio uscì cautamente dal suo nascondiglio e si mise a correre tra le spine. Riguadò il Nandri in un punto dove l'acqua gli arrivava al petto, (ma ora i vestiti bagnati erano l'ultimo dei suoi problemi) e dopo una corsa folle interrotta da numerose cadute, riuscì a passare il ponte di legno ed arrivare alla Porta Nuova. Prese un sasso ed urlando come un maiale scannato, si mise a percuotere le porte. Si accesero diverse lampade e poco dopo gli fu aperto. Con i vestiti strappati dalle spine, sanguinante, bagnato e tremante dalla paura raccontò tutto. Poco dopo il cupo richiamo della tofa risuonò, avvertendo tutti dell'imminente pericolo. Anche Ginulfo sentì il suono e capì che la sorpresa era oramai fallita.

 

Fiorenzio

 

 

 

Tutti avevano sentito la tofa. Il mugnaio e la famiglia con i contadini che abitavano nei pressi del borgo si precipitarono tra le sicure mura del borgo. Quelli che abitavano nelle fattorie lontane, non sapendo né la natura del pericolo né da dove provenisse, si misero al sicuro nei boschi. Nella torre grande c'erano solo cinque vecchie guardie del Signor di Montefuscolo. C'era pace e il presidio aveva più una funzione rappresentativa che difensiva. Come si diffuse l'allarme e le persone si riversarono in piazza del Vecchio Olmo e per i vicoli, interrogando i passanti sulla natura del pericolo, molte persone si riversarono nella chiesa di San Nicola. Parlò per tutti Fiorenzio.

" Non sappiamo chi sono questi cavalieri - disse - né a quale signore appartengano né qual’è la loro meta. Può essere che transitino solo per continuare verso Petra dei Fusi. Tuttavia gente che cavalca a quest'ora di notte non mi tranquillizza, per cui occorre stare in guardia. Si portino i bambini al riparo e le donne facciano rifornimento di acqua". Una decina di uomini fu inviata alla torretta piccola. Tutti si armarono alla meglio. Non c'erano armi difensive ma solo archi, picche, asce, daghe e coltellacci. I torresi nervosamente si disposero all'attesa, ognuno sperando in cuor proprio che la torma armata, una volta raggiunto il ponte di legno, deviasse nella direzione di Petra dei Fusi. Ma l'illusione durò solo una mezz'ora. All'improvviso si sentirono le urla di una donna che implorava di aprire Porta Nuova. Gli uomini di guardia, accertatosi che si trattava solo di un uomo e di una donna, aprirono un battente ed i due passarono per il sottopassaggio come un soffio di vento. L'uomo disse di essere un cavaliere pugliese, sorpreso con una serva di sua moglie, mentre era in viaggio da quelle parti da una banda di canaglie che li stavano inseguendo. Uno li accompagnò allo Scudo Spezzato. Dopo pochi minuti arrivarono altri cavalieri che prontamente iniziarono a colpire con le scuri Porta Nuova e la porta del Varo del Castagno.

I predoni, chi appiedato chi a cavallo, si ammassarono tutti in uno spazio angusto per questo quando dalle finestre e feritoie cominciarono a partire frecce sassi e acqua bollente, difficilmente mancarono il bersaglio. I dardi ronzavano come enormi zanzare e con il loro aculeo cercavano i corpi degli assalitori e delle bestie. Un paio di cavalli feriti s’imbizzarrirono portando ulteriore scompiglio e rovina tra i soldati. Questi non tardarono a capire che la loro posizione era insostenibile e si allontanarono in tutta fretta, lasciando tuttavia sul terreno una decina di persone ed un paio di cavalli.

Poco dopo le fiamme cominciarono a levarsi dai casolari vicini, dove i soldati sfogavano con il saccheggio e la devastazione la loro rabbia e frustrazione.

Ginulfo, intanto, insieme a Dimonda, aveva lasciato lo Scudo Spezzato e si era fatto aprire la Porta delle Casaline, dicendo di non sentirsi al sicuro e che preferiva, nonostante la notte, proseguire il viaggio verso Montemiletto, dove la guarnigione era più munita e la rocca più difendibile.

 

Bianca

 

" Una maledetta donnola o un barbagianni!" – pensò Jerusalem alzandosi dal letto di malumore e prendendo un attizzatoio dal camino. Le sue colombe come impazzite lo avevano svegliato da un sonno agitato. Salì la scaletta che portava nella colombaia, ma non trovò traccia della presenza di predatori. Tuttavia gli uccelli erano molto nervosi e si comportavano in maniera stranissima.

Bianca, la sua colomba preferita, saltellava in continuazione dalla sua spalla alla porta e viceversa. Il ragazzo restò interdetto. Mai i suoi animali si erano comportati in una simile maniera. Poi accadde qualcosa d’incredibile: di colpo tutti i colombi tacquero e si chetarono e in quel silenzio irreale, la sola Bianca volò su un posatoio di fronte a Jerusalem e cominciò a guardare il ragazzo dritto negli occhi. Per qualche istante l’uomo e l’animale si fissarono in silenzio, quindi Jerusalem sospirò " Ho capito… dammi il tempo di vestirmi".

Indossò precipitosamente un paio di brache, prese l’arco, il turcasso con le frecce, un coltello da caccia e silenziosamente, per non svegliare zia Genoeffa, uscì da casa.. La sua colomba lo attendeva fuori e lo guidò verso Porta delle Casaline. A quell’ora la porta era sbarrata e Jerusalem uscì dal suo orto e aggirò il villaggio portandosi a sud, verso il colle. Bianca lo portava verso San Mercurio. Quando vi ci arrivò sentì il richiamo della tofa. Si fermò di colpo: qualcosa di grave stava accadendo nel villaggio! Il suo primo impulso fu di tornare indietro, ma gli venne in mente il sogno di Serafino. Il vescovo era convinto che lui avesse qualcosa a che fare in quella storia. Fu, comunque, Bianca che, compiendo lo stesso rituale della piccionaia con i medesimi saltelli dalla spalla, che lo fece decidere. Pensosamente continuò a seguire il cammino che il volatile gli indicava.

Camminando lentamente a causa del buio, presero la strada del Bosco della Fajana e poco dopo la tofa fece risentire la sua roca voce.

Bianca lo guidò su un sentiero secondario, appena accennato che si dipanava tortuoso tra gli alberi. All’improvviso si alzò una brezza che spazzò via le nubi e la faccia placida della luna illuminò la foresta, rendendo più agevole il cammino. Jerusalen, poco prima, aveva sentito un rumore di zoccoli di cavalli provenire dal sentiero principale e si era fermato per ascoltare meglio. Tuttavia non aveva potuto stabilire quanti fossero né dove fossero diretti. Comprese, tuttavia, che non potevano essere amici. Nessun turricellano sarebbe andato in quel luogo in un'ora simile.

Dopo un altro miglio circa sentì chiaramente il suono di una voce. Cautamente e senza far il minimo rumore, si avvicinò ad una radura. Scorse immediatamente due cavalli legati ad un albero e poco lontano due figure, una delle quali stava scavando un fossa ai piedi di un maestoso albero.

Si avvicinò sempre di più, prestando attenzione a non pestare qualche ramo secco né di toccare qualche cespuglio, il cui fruscio avrebbe potuto tradirlo. Bianca, intanto, era sparita.

Quando fu ad una ventina di passi si rese conto che si trattava di un uomo ed una donna. " Un cavaliere –pensò osservando la foggia dei vestiti la pesante spada che gli pendeva al fianco. Ma perché mai un cavaliere stava scavando? Quando la fossa parve sufficientemente profonda l’uomo esclamò soddisfatto " Eccolo! ". Allora la donna, inginocchiatasi a terra e coprendosi la testa con un velo, iniziò a salmodiare un’incomprensibile litania e all’improvviso un falco, il più grande che avesse mai veduto, venne a posarsi sul ramo più basso dell’albero. Il cavaliere con voce risoluta e forte esclamò:

" Sette vipere nel fosso
un villano hanno morso
sette i diavoli……."

Jerusalem, incuriosito da tutto quel rituale misterioso, commise l’imprudenza di sporgersi dal suo nascondiglio per osservare meglio la scena ed il falcone, lanciando uno stridulo richiamo, gli si avventò contro. Il ragazzo si lasciò cadere terra, evitando cosi gli artigli del rapace che cercavano i suoi occhi. Anche la donna si mise a strillare indicando al cavaliere il posto dove si celava il ragazzo. Questi sguainò la sua spada. Il falco dopo una rapida virata si diresse di nuovo verso il volto del giovane, ma in volo fu intercettato da una chiassosa nuvola bianca: erano i colombi di Jerusalem che contro ogni logica assalivano il predatore. Il ragazzo si sollevò e si rese conto della minaccia ancor più grave rappresentata dal cavaliere che gli si avvicinava con la spada snudata. Non ebbe molto tempo per pensare; istintivamente e precipitosamente incoccò una freccia e la scagliò senza mirare. Prima che questa raggiungesse il bersaglio ne era partita già una seconda. I due dardi, scagliati da una distanza così breve e da un arco tanto potente, trapassarono da parte a parte il corpo di Ginulfo e lo inchiodarono ad un tronco in una posizione che ricordava molto quella di un burattino appeso ad un gancio. La strega strillando fuggì via.

Intanto la strana lotta tra falco e colombe continuava nel cielo in un turbine di penne che cadevano come fiocchi di neve.

Jerusalem incoccò la sua terza freccia. Questa volta tese l’arco con molta cura e prese attentamente la mira. Quando lasciò andare la corda con un secco schiocco, questa volò ronzando verso la luna ed intercettò il corpo del falcone, che cadde in una lenta spirale.

Prima che il ragazzo avesse il tempo di riprendersi vi fu un altro prodigio: con un boato la grande quercia si spaccò in due e, dalla fossa che stavano scavando i due, emerse un baule sul quale stava adagiato uno scheletro.

 

Epilogo

 

All’alba non c’era più traccia degli assalitori, che dopo aver incendiato alcune case isolate e dopo aver lasciato una decina di loro sul terreno erano fuggiti via.

Jerusalem era rimasto nel bosco per ore, completamente frastornato e atterrito per il senso di colpa. Non aveva mai ucciso un uomo. Quando si fece chiaro andò a bussare alla porta della canonica. Come Martino lo vide, capì che era successo qualcosa e chiamò subito il vescovo che con un nutrito gruppo di paesani andò a riprendere la preziosa cassa, mentre un messo partiva alla volta di Benevento per dare l’annuncio del ritrovamento delle reliquie. I due cadaveri furono sotterrati, ma della strega non si seppe più nulla. Serafino passò molte ore col ragazzo per placarne i rimorsi. Il giorno dopo vennero un centinaio di cavalieri beneventani, con splendidi vestiti e armi sfavillanti. Serafino tenne una messa di ringraziamento ed pretese che Turricellani giurassero di non cacciare mai più per il futuro né colombe né tortore. Quindi alzando le mani al cielo disse " Io vi benedico tutti voi figli miei, ma benedico due volte te, giovine Jerusalem, signore delle colombe".

 

 

Nota del curatore

Spesso mi sono chiesto che fine avranno fatto Bianca e tutte le altre colombe di Jerusalem? Probabilmente se ne sono andate in un altro luogo per sfuggire una torma di imbecilli, che armati di potentissimi fucili le hanno tormentate per anni.

Eppure io sono convinto che, da un posto sicuro sotto la collina di Montemiletto, ci spiano attente e silenziose, aspettando che il nostro paese si popoli di persone migliori. Sta di fatto che, qualche volta, subito dopo il tramonto, si può vedere un volo di colombe che parte dai Nucilli e si dirige verso il Bosco Fajano . Se si presta un po’ di attenzione, si può aver la fortuna, talvolta, di vedere in quello stormo una colomba bianchissima, che quasi brilla negli ultimi bagliori del giorno che muore.