di Elso Simone Serpentini
Cola di Bervicaccio era tra i teramani che avevano
partecipato alla lotta contro i Camplesi per il possesso della Montagna di
Melatino. Invece di agire per le vie giudiziarie i magistrati teramani
avevano deciso di occupare militarmente la montagna, attaccando i
Camplesi. I magistrati avevano ordinato che si suonasse la campana a
martello e che tutti accorressero alle armi e Cola aveva risposto all'appello.
Aveva diciannove anni allora, e da cinque mesi era venuto
a Teramo a lavorare come apprendista fabbro dalla terra di Sant'Atto. Il
castello dove era nato, tra Fiumicello, il Tordino e Fosso Grande, era stato
distrutto e lui se ne era venuto in città, dove però dopo cinque mesi ancora non
era riuscito ad ambientarsi. E così aveva risposto al richiamo delle armi
in quel 1369 ed era stato tra quelli che avevano spiegato le bandiere teramane
ed erano andati a devastare il territorio di Campli. Lì erano rimasti per
tre giorni a rubare e a saccheggiare, prima di andare ad occupare la Montagna di
Melatino, che veniva anche chiamata di Santa Vittoria e che a ricordo di quelle
giornate si sarebbe chiamata da allora “di Battaglia”.
Cola di Bervicaccio era stato in quei giorni uno dei più coraggiosi nelle file
teramane e si era distinto per determinazione e temerarietà. Così quando
il 10 dicembre del 1371 la controversia con i Camplesi era stata chiusa con un
trattato di pace, che aveva costretto i teramani a pagare un parziale
risarcimento dei danni arrecati e a rinunciare ad ogni pretesa sulla Montagna di
Battaglia, Cola capì che non si sarebbe sentito più sicuro a Teramo.
Alcuni tra i più facinorosi dell'università di Campli, lo avevano minacciato
apertamente di morte il giorno stesso della stipula dello strumento di pace
davanti alla Chiesa di Sant'Angelo di Castrogno, Così Cola aveva deciso di
lasciare Teramo per aggregarsi allarmata di Antonio di Acquaviva, quando nel
giugno del 1376 il Conte aveva chiesto che i teramani gli fornissero uomini e
armi per andare a soccorrere l'Albomoz, contro cui era insorta Ascoli.
La Regina Giovanna aveva esonerato i teramani
dall'obbligo di rispondere affermativamente alla richiesta del Conte di
Acquaviva, ma Cola aveva deciso di andare. Era l'occasione buona per
lasciare Teramo, diventata per lui troppo pericolosa per la più che probabile
vendetta dei facinorosi Camplesi. Ma nel giugno dell'anno successivo Cola
si era lasciato indurre dal Conte ad aggregarsi ad una delle “comitive" che si
erano formate da qualche anno e che battevano le campagne e le montagne tra
Ascoli e Teramo, quella di Giovanni di Pasquale, più noto come Giovanni della
Montagna. Sia la “comitiva" di Giovanni della Montagna che quella di
Matilonno di Mosciano, un altro capo-banda assai temibile, venivano
sfacciatamente protette dallo stesso Conte d'Acquaviva, che se ne serviva come
“bravi” e offriva loro in cambio sicuri rifugi nelle sue tenute e nei suoi
castelli. Ma, avendo bisogno di un suo uomo fidato all'intemo delle
“comitive”, il Conte aveva indotto Cola di Bervicaccio ad aggregarsi ad una di
esse, quella di Giovanni della Montagna.
I teramani
avevano chiesto ed ottenuto di poter usare le armi contro le due bande, ed
avevano inviato alla Regina precise informative sulla protezione che veniva loro
accordata nelle loro terre e nei loro castelli da persone come Antonio di
Acquaviva, Amelio di Agoto, signore di Colonnella, Giorgio Ciantri, barone di
Poggio Ramonte. Ma i teramani solo in parte erano riusciti a difendersi
con le proprie armi da omicidi, violenze, incendi e saccheggi, avvenuti un po'
ovunque sul loro territorio. Che i teramani non potessero uscire né per
coltivare la terra, né per altri negozi, senza esporsi al pericolo di essere
depredati o uccisi, i Sindaci non avevano potuto tollerarlo, così quando la
Regina aveva consentito che i ladroni fossero ammazzati se presi, i teramani non
si erano certo tirati indietro e qualcuno delle “comitive” era finito sulle
forche.
Quando la banda di Giovanni della Montagna si era
dissolta, Cola di Bervicaccio era passato, sempre come uomo di fiducia del Conte
d'Acquaviva, alla gente di Cola Orsini, Conte di Manoppello, che appoggiava la
fazione angioina nella guerra con i durazzeschi, a difesa dei quali si erano
schierati sia i teramani che il Conte Antonio d'Acquaviva. E sia i
teramani che l'Acquaviva avevano avuto i loro vantaggi dal fatto di avere scelto
il partito che aveva finito con il prevalere. Quando però Carlo 111
Durazzo era morto, nel 1386, la fazione angioina era risorta contro quella
durazzesca, capeggiata dalla reggente Margherita in nome del figlio minore
Ladislao e la lotta fra le due contrapposte fazioni che era dilagata per tutto
il Regno aveva favorito il sorgere e l'esasperarsi di lotte cittadine a Teramo e
nel territorio circostante, sul quale spadroneggiava la gente del Conte di
Manoppello.
Stando in mezzo a quella gente lo stesso Cola
era venuto più volte a imprigionare e taglieggiare i teramani sorpresi fuori le
mura cittadine. Approfittando della debolezza del governo centrale, a
Teramo si era cominciato a non riconoscere più l'autorità dei capitani regi e a
contendersi il primato da parte di due fazioni cittadine, capeggiate
rispettivamente da Antonello de Valle, fratello del Vescovo Pietro, e da Roberto
de Melatino. Dai loro nomi le due fazioni, che si sarebbero affrontate in
una guerra cruenta, destinata a durare nei decenni successivi, si erano subito
chiamate “Antonellisti” e “Melatinisti”.
Era il 1388 quando Antonello
era riuscito a prevalere sul rivale e a scacciarlo dalla città insieme con tutti
i suoi figli, Errico, Gentile, detto “Tuzzillo”, Nicola, Corrado e
Beatrice. Erano stati esiliati anche tutti i famigliari e i componenti
delle famiglie imparentate con i Melatino, tra cui Giovanni Paladini, che aveva
sposato nel 1379 Beatrice Melatino, e Berardo Paladini, nipote di quel Cola che
aveva sposato anche lui una Melatino, Costanza.
Antonello, diventato signore e tiranno di Teramo, aveva fatto uccidere molti
altri esponenti e sostenitori della fazione avversa che avevano cercato di
resistere ai suoi soprusi. Cola di Bervicaccio, che aveva lasciato la
compagnia dell'Orsini, era tornato tra la gente del Conte Antonio d'Acquaviva ed
era diventato una delle sue più fidate e attente guardie del corpo. Cola
allora aveva trentotto anni ed era nel pieno delle sue forze. Alto, scuro
di capelli, con lunghi baffi neri e folti, incuteva timore a chiunque gli si
trovasse di fronte. Determinato e temerario, era anche furbo e molto
attento in ogni circostanza. Per questo l'Acquaviva, che non teneva in
alcun conto né gli angioini né i durazzeschi, e puntava solo ad accrescere i
propri domini, ne aveva fatto uno dei suoi uomini più fidati. E' a lui che
il Conte aveva fatto ricorso per le trattative segrete che erano fin lì
intercorse con l'esiliato Errico de Melatino, figlio di Roberto, che gli aveva
offerto il proprio aiuto per cacciare Antonello e diventare al suo posto Signore
di Teramo, vendicando così i Melatino.
Luigi Il d'Angiò
aveva assegnato al proprio sostenitore Conte di Savoia la contea di San
Flaviano, ma l'Acquaviva continuava ad essere e a considerarsi il signore
effettivo di quel territorio e ambiva apertamente a farsi Signore di Teramo,
così che l'offerta di aiuto dei Melatino erano state per lui subito
allettanti. Ma ci si poteva fidare completamente di loro ?
Era stato
proprio Cola che aveva avuto dal Conte l'incarico di trattare segretamente con
Errico de Melatino, ma anche quello di saggiarne le reali intenzioni. Si
era incontrato con lui segretamente più di una volta, poi verso la metà di
ottobre ebbe con lui un ultimo incontro dal quale sarebbe dovuta scaturire la
decisione definitiva. Dove e quando tendere l'agguato mortale ad Antonello
de Valle ?
L'incontro avvenne presso la rocca di
Fornarolo. Fatta edificare da Matteo V di Melatino nel 1371, la rocca,
situata a poco più di cinque miglia di Teramo, era subito diventata un luogo
ideale per gli incontri segreti che gli Acquaviva avevano a quel tempo con
personaggi dall'oscuro passato. Cacciati i Melatino, gli Acquaviva si
servivano del Feudatario di Fornarolo, Jannofrio di Aquilano, come mediatore per
intese e alleanze di ogni tipo. Anche gli uomini delle bande di Matilonno
di Mosciano e di Giovanni della Montagna erano state più volte segretamente
ospitate a Fornarolo per sottrarsi all'inseguimento o alla cattura dei cittadini
teramani.
Ora Cola di Bervicaccio, che era stato in
qualche occasione a Fornarolo con la banda di Giovanni d'Acquaviva, sfruttava la
sua conoscenza della zona per incontrare, con più che sufficiente sicurezza di
potersi sottrarre ad ogni tipo di agguato, Errico di Melatino.
Errico era, tra i Melatino, il più deciso alla vendetta
contro Antonello de Valle. Più di tutti i suoi fratelli e più del padre
Roberto, era fermamente convinto che l'alleanza con il Conte d'Acquaviva fosse
la scelta più giusta per la loro famiglia e per la loro fazione, così tanto
umiliate dai de Valle.
Tuzzillo, uno dei fratelli di
Errico, aveva osservato, quando Errico aveva proposto per la prima volta di
ricorrere all'aiuto dell'Acquaviva e di invitarlo cacciare l'odiato rivale, che
una volta fattosi Signore di Teramo il Duca avrebbe potuto assumere nei
confronti dei Melatini un atteggiamento altrettanto sprezzante e ostile di
quello degli Antonellisti.
Ma Errico aveva elencato tutte le doti di
generosità dello stesso Duca e le ragioni di opportunità e di convenienza.
Aveva anche accennato alla necessità che avevano gli Acquaviva di continuare a
contare sull'aiuto della fazione dei Melatino, per difendere poi la loro
signoria su Teramo dal quasi certo tentativo di vendetta degli Antonellisti.
- Quel che è assolutamente importante - ribadì Errico nel
suo ultimo incontro di Fomarolo con Cola di Bervicaccio - è che non si deve
uccidere solo Antonello, ma tutti i suoi sostenitori che risiedono a
Teramo. Quelli che stanno fuori Teramo non oseranno più avvicinarsi e non
saranno un problema.
Errico non era solo. Si era
fatto accompagnare da due dei suoi, di cui Cola conosceva soltanto il più
giovane, un brutto ceffo dal corpo corto e tarchiato, che aveva il soprannome di
“Trombetta”.
- Quello lo conosco. - disse Cola - L'altro
chi è ?
- E' Antonio Palmerii. - rispose Errico Melatino
- Suo padre, Giacomo, ha una taverna proprio sulla piazza grande, dove si trova
il palazzo di Antonello. E' lui che ci ha dato tutte le informazioni utili
e altre ce ne darà.
Il quadro che fece Antonio Palmerii
fu assai scoraggiante, ma quello che fece Trombetta fu addirittura
deprimente. Affrontare Antonello in campo aperto era impossibile.
- Antonello - spiegò il Palmerii - si contorna di un vero
e proprio esercito di suoi uomini, familiari e servi, e se ne sta quasi sempre
arroccato nel suo palazzo. C'è una fune che esce dalla sua finestra ed è
collegata direttamente alla campana dei Canonici. Al minimo sospetto si
mette a suonare la campana.
- Dunque - concluse Cola -
non resta che attaccarlo nel suo stesso palazzo. - Bisogna prenderlo di sorpresa
- propose Errico Melatino - e per sorprenderlo bisogna attaccarlo di
notte. Dobbiamo pagare il maggior numero dei suoi uomini...
- A questo penso io. - assicurò Trombetta - Vengono tutti
a bere nella mia taverna e i più si lamentano della paga. Duemila ducati
dovrebbero bastare.
Errico Melatino si cavò una grossa
borsa, gonfia di monete, e la porse a Trombetta, che se la cacciò sotto il
mantello.
- E gli altri ? - chiese poi - Come facciamo
per gli altri e per quelli della sua famiglia ?
- Ho
un'idea. - disse Cola di Bervicaccio - Ho sentito dire che i più fidati tra i
suoi e quelli della sua famiglia amano tanto la caccia quanto la odia lui.
Faremo organizzare da una persona che lui non sospetta una grossa partita di
caccia e quando all'alba tutti saranno partiti con i cani attaccheremo il
palazzo, contando sull'aiuto di quanti tra i suoi uomini avremo comprato.
Ma dovrà essere un'azione fulminea e decisa.
Errico
Melatino approvò l'idea.
- Ho la persona che fa
allo scopo, - disse - uno che non parrà per nulla strano che organizzi una
partita di caccia in onore degli Antonellisti.
Il
pensiero di Errico era corso a Berardo di Monticello, un suo antico famiglio,
fattosi poi censuario del Capitolo Aprutino per un podere nelle pertinenze di
Teramo, nella contrada di San Vitale. Berardo era solito organizzare
partite di caccia e altre allegre spedizioni a beneficio dei nobili e delle
famiglie patrizie del territorio teramano e così come era vicino alla fazione di
Antonello, ma per pura convenienza, così era anche devoto a Errico per trascorsi
servigi resigli dai Melatini. Berardo di Monticello si sarebbe prestato
sicuramente a tendere una trappola a regola d'arte e una partita di caccia sulla
montagna di Battaglia sarebbe stata una attrazione troppo allettante per la
corte dei famigliari e dei servi che circondavano Antonello. E questi
certamente non sarebbe andato anche lui, un po' perché non aveva mai amato la
caccia e un po' perché si era impigrito negli ultimi tempi ed anche
insospettito. Non si sarebbe fidato ad allontanarsi da Teramo, dove invece
si sentiva certamente più protetto. E' vero, avrebbe sbraitato e
protestato perché i più sarebbero partiti per la caccia, ma lui non sarebbe
andato e alla fine si sarebbe acconciato a starsene per qualche ora della notte
e per la metà del giorno successivo con un ridotto numero dei suoi, ma sempre
ben guardato. Né avrebbe mai sospettato che molti tra quelli restati a
proteggerlo in realtà erano stati pagati proprio perché non lo proteggessero e
anzi aiutassero i Melatino e l'Acquaviva a entrare nel palazzo per sorprenderlo
ancora a letto.
Quando Antonio il taverniere ebbe
avvertito che un buon numero di famigli e della guardie di Antonello era stato
corrotto, Berardo di Monticello fissò definitivamente la data della partita di
caccia sulla montagna di Battaglia, magnificando con tutta la corte e anche
presso altre famiglie teramane della fazione antonellista il numero e la qualità
della selvaggina che lui personalmente, così informava, si era premurato di
liberare sui territori di caccia.
La caccia era per il 22
novembre del 1390. Alle tre del mattino erano già tutti partiti e
albeggiava appena quando gli uomini del Melatino e dell'Acquaviva si
avvicinarono alle mura di Teramo. Le guardie di Porta Reale aprirono
subito al segnale convenuto e cento uomini perfettamente in arme puntarono sul
palazzo di Antonello. Anche qui un segnale ottenne l'apertura del grosso
portone e un manipolo guidato da Errico Melatino e Cola di Bervicaccio salì
rumorosamente le scale fino alla porta dell'odiato nemico. Qui delle
quattro guardie due erano state comprate e fecero la loro parte per eliminare le
altre due e uccidere altri famiglia che, svegliati al rumore, stavano
accorrendo.
Il primo ad entrare nella stanza di Antonello
fu Errico, seguito da Cola. Antonello si era svegliato e stava seduto sul letto,
sgomento e sorpreso. Lo colpì per primo Errico, che per la foga gli
inferse una dritta di spada che lo ferì al fianco in un punto non vitale, e
quello si piegò su se stesso premendosi la ferita con la destra. Ma Cola
fu assai più preciso con il suo pugnale e lo feci mortalmente più volte al petto
e alla gola e le coperte del letto di Antonello divennero zuppe di sangue,
sgorgato abbondante da quelle ferite profonde e numerose. Errico lo finì
infilzando il corpo all'altezza del cuore, poi prese Antonello, ormai morto, per
i capelli e lo trascinò giù dal letto.
Aiutato da
Cola, che aveva capito l'intenzione del Melatino, Errico prese il corpo e lo
issò sul davanzale della finestra della camera e lo spinse fuori. Il
corpo precipitò con un tonfo sul sottostante cortile e rimase piegato in una
posa raccapricciante. Tutt'intorno al cortile gli uomini del Melatino e
dell'Acquaviva uccidevano altri armati accorsi dalle stanze interne, mentre
sulla piazza quanti accorrevano a difesa venivano sgozzati senza pietà. Il Duca
d'Acquaviva, che non aveva voluto prendere personalmente parte alla spedizione,
fu subito avvisato dell'esito felice della stessa, ma non volle venire a Teramo
che nel primo pomeriggio, quando ormai la situazione era tornata più tranquilla
e si trepidava nell'attesa del ritorno di quanti avevano preso parte alla
caccia.
Ma non si scommetteva sul loro ritorno, perché
certamente la parte avversa avrebbe trovato il modo di far pervenire fin sulla
montagna di Battaglia qualche avvertimento. E così fu. Quando fu
chiaro che non sarebbero tornati a Teramo, qualcuno pensò di sfogare la propria
rabbia sul corpo di Antonello. Marchetto di Cola, un falegname scacciato
da Teramo che Trombetta si era portato appresso dalla sua tenuta di Sorlata,
trascinò il corpo di Antonello dal cortile del palazzo sulla Piazza Grande, poi
con una pesante sciabola gli troncò la testa, la infilzò su una pertica e
cominciò, sghignazzando, a portarla in giro per le strade, gridando come un
banditore:
Questa è la testa del tiranno Antonello,
che ancora ieri pensava fosse poco essere Signore, Governatore e Magistrato di
Teramo Il tronco invece fu trascinato invece per i piedi da alcuni uomini di
Tuzzillo Melatino fino alla Carvonara, vicino alla porta di Santo Spirito, dove
si era soliti portare gli asini e i cavalli morti. Qui fu lasciato fino al
giorno dopo, quando cominciarono a venire ad azzannarlo i cani e Roberto
Melatino ordinò che venisse finalmente sotterrato. La testa, invece, dopo
che Marchetto l'aveva lasciata, non fu più trovata.
La settimana successiva Errico Melatino ordinò che in buon numero si partisse
verso la montagna di Battaglia e verso un castello disabitato che si trovava nei
pressi di Chiarino, nella Valle Siciliana, dove sembrava che i famigliari e gli
uomini della fazione antonelliana si fossero rifugiati. La ricerca diede i
suoi frutti, perché ne furono trovati e uccisi tantissimi. Il Duca d'Acquaviva
badava non tanto ad eliminare quanti erano ancora vivi e fuggitivi tra gli
Antonellisti, quanto a rimuovere ogni segno visibile del potere di Antonello e
ordinò che si distruggesse dalle fondamenta il Palazzo dell'ucciso Signore di
Teramo, poi chiese ai teramani che cosa volessero che si costruisse al suo posto
e si sentì proporre che sul posto dove esso sorgeva si costruisse il macello
delle carni venali. Cosa che fu poi successivamente fatta e quando il
macello fu abbattuto per essere costruito altrove, il Magistrato ordinò che in
quel luogo si costruisse un castello di legname e che ogni anno, nell'ultimo
giorno di carnevale, i macellai facessero dei combattimenti con le interiora e
con lo sterco degli animali.
Dopo l'uccisione di Antonello de Valle a Teramo fu Signore
della città il Conte Antonio d'Acquaviva, il quale però non si accontentò di
essersi impadronito della città con la forza delle armi, ma se ne volle
assicurare il possesso chiedendo al Re di poterla comprare, insieme con
Atri. Il Re Ladislao acconsentì e cedette sia Atri che Teramo il 6 maggio
1393 per 35 mila ducati d'oro, e riconoscendo al Conte d'Acquaviva il diritto di
trasmetterne il possesso alla sua morte.
In quello stesso
anno Cola di Bervicaccio prese moglie. Aveva conosciuto in Ascoli, in una
delle visite che vi aveva fatto al seguito del Conte Antonio, una giovane di
buona famiglia, che si chiamava Caterina Crollo, e, ottenuto il permesso del
Conte, la sposò. Aveva 43 anni Cola e riteneva che fosse giunto il momento
di mettere su famiglia. Il Conte lo riteneva tra i suoi uomini più fidati
e gli assicurava continue elargizioni oltre che una completa protezione.
Così Cola restò con Caterina nel palazzo del Duca, dove gli fu accomodata per sè
e per la sua giovane moglie una stanza al piano terreno.
L'anno dopo Cola ebbe un figlio al quale mise il nome di Angelo e gli parve che
la sua vita ora potesse considerarla la migliore che potesse condurre. Ma
il destino era in agguato anche per lui e verso la fine di novembre del 1395 il
suo protettore, il Conte Antonio d'Acquaviva, mori all'improvviso, gli
succedette il figlio Andrea Matteo, che si insignì del titolo di Duca.
Tutti i Melatinisti intanto erano tornati a Teramo e in
capo a qualche anno tutti i sostenitori di Antonello erano stati uccisi o
costretti in esilio, lontani dal territorio teramano. La famiglia Melatino
ebbe non solo il piacere della vendetta, ma riconoscimenti concreti che ne
accrebbero il peso politico. Roberto, padre di Errico, fu fatto Regio
Capitano della Terra di Campli; Corrado, fratello di Errico, fu creato Vescovo
di Teramo quando il fratello di Antonello, sconvolto a causa della tragica morte
di Antonello, mori pazzo nel 1396.
Cola di Bervicaccio
alla morte di Antonio d'Acquaviva passò al servizio del Duca Andrea Matteo e lo
seguì, insieme con la moglie Caterina e il figlio Angelo, ad Ascoli. Il
Papa Innocenzo VII aveva dato la città in feudo al Duca e questi ne prese
possesso e vi trasferì la propria residenza. Quanto poi il Duca partecipò,
chiamato da Re Ladislao, all'assedio di Taranto Cola lo seguì ancora e fu ancora
al suo seguito quando l'Acquaviva tornò a Teramo sul finire del 1406.
Il figlio di Cola, che aveva allora 13 anni, mostrava la
stessa propensione per le armi e per la vita avventurosa che aveva sempre avuto
anche il padre e che Cola si sentiva ancora dentro, nonostante avesse ormai
raggiunto i 56 anni. Sebbene la madre avesse tentato, a più riprese, di
indurre Angelo ad una vita diversa, il ragazzo trascorreva la maggior parte del
proprio tempo tra armi ed armati e tutti avevano cominciato a chiamarlo, dal
cognome della madre, Angelo Crollo, o Angelo di Cola Crollo. Era robusto,
determinato a diventare un soldato, cocciuto e invincibile nella corsa e nella
scherma. Cola si sentiva fiero di lui. Ma non era invece molto
soddisfatto del rapporto con il Duca Andrea Matteo.
Il
Conte Antonio lo aveva fatto sempre sentire una persona importante, un amico
devoto di cui fidarsi per imprese rilevanti o delicate. Era stato per il
Conte l'uomo fedele da infiltrare nella "comitiva" di Giovanni della Montagna,
il mediatore e artefice dell'alleanza con Errico Melatino.
Ora il Duca Andrea Matteo lo trattava con alterigia e
soprattutto lo impiegava per servigi non proprio onorevoli, per intessere
tresche con femmine di taverna, per far recapitare futili biglietti d'intesa a
questa o a quella mal maritata. Sempre inganni da tramare alle spalle di
ignari e ingenui mariti. Cola non aveva alcuna stima del Duca, un
perdigiorno sempre in vena di scherzi, anche pesanti, ai danni di servi e
cortigiani, e sempre alla ricerca di avventure più o meno facili. Ma a
volte si incaponiva anche a voler le grazie di donne di buona famiglia,
incaricava Cola di farsi mezzano e lo strigliava a dovere quando qualche impresa
non aveva l'esito che egli desiderava e ne incolpava Cola per la sua presunta
imperizia. Altre volte gli dava l'incarico di minacciare qualche marito
riottoso di cui si doveva ottenere o comprare un complice silenzio.
Quello che dava fastidio soprattutto a Cola era
l'abitudine che il Duca aveva preso di ridere e scherzare oltre il lecito con la
moglie di Cola Melatino. Questi era un giovane assai innamorato della moglie,
Allegrezza, di cui tollerava una forse eccessiva familiarità con il Duca, che
d'altro canto era intimo frequentatore di tutta la famiglia dei Melatino, della
loro casa e dei loro casini di campagna. Sia Errico che Tuzzillo, così
come Cola e Roberto, il padre dei tre fratelli Melatino, erano a loro volta
assidui frequentatori della corte del Duca, sia ala Cittadella, nel centro di
Teramo, sia a Morro, nel palazzo in cui dimoravano la moglie e i figli del Duca,
anche quando questi se ne restava a Teramo per giorni e giorni, magari per stare
accanto all'ultima fiamma.
Errico e Tuzzillo avevano spesso tenuto bordone
al Duca nelle sue avventure amorose ed erano soliti motteggiare, ridendo di
gusto, sulle sue smanie erotiche. Ma quando avevano incominciato a notare
che il Duca, il quale si era perfino compare di Errico, si prendeva troppa
confidenza con la moglie di Cola, il terzo e più giovane dei fratelli, avevano
cominciato a ridere di meno e a risentirsene con amarezza, sia pure non dandolo
apertamente a vedere. Ma avevano ugualmente continuato ad invitare assai spesso
il Duca a fermarsi nella loro casa, a bere, a mangiare e perfino a dormire.
Ogni volta che la familiarità tra il Duca d'Acquaviva e
Allegrezza, la moglie di Cola, aveva fatto registrare un aumento di grado e di
intensità, Errico aveva avvertito l'ingenuo fratello:
-
Cola, bada che con il compare tua moglie non abbia a tenere troppa fede al suo
nome.
Il riferimento di Errico al nome di Allegrezza
traeva motivo anche dal carattere della donna: giovane, allegra e vanesia,
vogliosa di danze e di divertimenti. Ma Cola era, come abbiamo detto,
innamoratissimo della moglie e aveva riposto di essere sicurissimo della sua
fedeltà e che la sua disponibilità ad essere tanto familiare con il Duca
dipendeva dal suo temperamento. Errico però non si era accontentato di
questa assicurazione e, masticando amaro ad ogni scambio di risate tra
l'Acquaviva e la cognata, aveva preso a uscirsene con qualche palese richiamo
alla donna, in presenza del Duca. Né lei né lui tuttavia avevano dato peso
ai suoi richiami, anche quando avevano cominciato a diventare più frequenti e
pesanti e il Duca aveva continuato a familiarizzare sempre più apertamente con
Allegrezza, sia durante i conviti sia durante i balli.
Cola di Bervicaccio se ne era fatta una questione personale. Aveva
simpatia per il più giovane dei Melatino, che portava il suo stesso nome, e non
tollerava che il suo Signore si approfittasse della sua buona fede e di quella
di sua moglie. Anche a lui Allegrezza sembrava tanto giovane e bella quanto
ingenuamente disponibile a familiarizzare con il Duca, accettandone le battute e
gli scherzi, ma senza malizia. Egli però sapeva che il Duca aveva
l'intenzione di insidiare veramente la virtù di Allegrezza, per averglielo
sentito dire più volte che prima o poi avrebbe finito per possederla quella
giovane che, lui diceva, “lo faceva impazzire”.
Quando
poi, una sera, il Duca aveva fatto un apprezzamento alquanto audace anche su
Caterina, sua moglie, Cola di Bervicaccio aveva cominciato a pensare seriamente
a quanto il Duca fosse meritevole di una punizione. Tuttavia aveva
continuato a fare per lui alcuni piccoli servigi, dei quali veniva incaricato e
di cui egli si occupava mal volentieri.
Cola cominciò a
spiare Allegrezza, a seguirla per vedere dove andasse. Le portava dei
biglietti del Duca, le riconsegnava qualche oggetto che l'Acquaviva si divertiva
a sottrarle di nascosto durante i balli o le feste e poi le rimandava fingendo
di averlo trovato. Una sera, mentre ballava con Allegrezza, il Duca
riuscì, senza che lei se ne avvedesse, a sfilarle dal dito un anello di gran
valore. Poi, quando la donna cominciò a disperarsi per averlo perso,
costrinse i servi a cercare anche sotto i tappeti. Infine si trasse
l'anello dalla tasca e glie lo restituì con una risata assai divertita, con la
quale si pigliava gioco delle sue lacrime.
Ma mentre
Allegrezza, tratto sollievo dall'accorgersi di non aver perduto l'anello, smise
di piangere e corrispose divertita anche lei, così come il marito Cola, alle
risate del Duca, non rise affatto Errico, il quale anzi trasse dall'episodio un
ulteriore motivo per odiare l'Acquaviva ed esserne geloso al posto del fratello
Cola, che mostrava invece di non essere per nulla turbato dall'accaduto.
Allegrezza era figlia del signore di Fermo, Antonio
Aceti, e sorella del Conte di Monteverde. Errico e Tuzzillo Melatino
avvertirono i famigliari della scalpitante cognatina di questa sua eccessiva
familiarità con il Duca Andrea Matteo d'Acquaviva. Quelli fecero sapere
che se ci fosse stato bisogno di dare una lezione al Duca per la sua
improntitudine, essi non si sarebbero certamente tirati indietro. Non
c'era che da avvisarli ed essi sarebbero corsi al primo avviso.
Così quando il Duca si prese un'altra licenza,
inaccettabile agli occhi dei Melatino, il padre e il fratello di Allegrezza
furono subito avvertiti. Andando a caccia il Duca si era avvicinato ad
Allegrezza ed aveva osato prenderla in groppa al proprio cavallo e, postala di
traverso davanti a sé, aveva speronato la bestia per involarsi insieme con la
donna, a gran galoppo, verso un bosco. Sia Errico che Tuzzillo avevano
masticato amaro, mentre Cola continuava a giustificare con loro il comportamento
della moglie, che era sembrata reagire con divertito stupore e con squillanti
risatine all'iniziativa del Duca.
- Tutta questione di
temperamento. - diceva Cola - Non c'è alcuna malizia in quello che fa.
Ma Errico e Tuzzillo non gli credevano. E poi quale
che fosse la vera disposizione della cognata, essi non giustificavano l'ardire
del Duca. Bisognava dargli una lezione. Anzi, bisognava eliminarlo.
Anche questa volta, come nei confronti del progetto di
ammazzare Antonello de Valle, il padre, Roberto, sconsigliò agli irruenti figli
di tendere un agguato al Duca d'Acquaviva, ma Errico e Tuzzillo non si curarono
degli inviti alla prudenza del padre e, senza dar niente a vedere a Cola,
studiarono un piano per eliminare il Duca e chiesero aiuto anche al padre e al
fratello di Allegrezza. Essi confermarono senza titubanza alcuna la loro
intenzione di partecipare direttamente alla uccisione di Andrea Matteo.
Fu studiato un piano che riuscì alla perfezione. Il
Duca aveva in quei giorni come amante una popolana teramana che si chiamava
Vittoria Paglia. Era la sorella di un avanzo di galera che si chiamava
Lello. Questi fu avvicinato da un emissario di Errico e ricevette un
invito allettante: avrebbe avuto un buon numero di ducati se...
La mattina del 17 febbraio 1407, partendo per una partita
di caccia, il Duca Andrea Matteo disse a Vittoria:
-
Guarda di non alloggiare stasera in casa del compare, perché mi è stato detto
che mi vuole ammazzare. Lello Paglia non aveva mantenuto a lungo il
segreto. Ricevuti i ducati da Errico e Tuzzillo Melatino, aveva avvertito
il Duca per averne degli altri e gli aveva rivelato il piano. Proprio lui,
Lello, gli aveva detto, avrebbe dovuto colpirlo a morte mentre dormiva in casa
dei Melatino, dove quella sera sarebbe stato invitato a restare a dormire al
termine della caccia.
Vittoria aveva proposto al Duca: -
Se sapete questo, andiamocene a Morro.
Il palazzo di
Morro era ben munito e sarebbe stato sicuramente ben difendibile anche nel caso
di un attacco aperto. Ma il Duca non aveva accettato il consiglio della
donna.
- Non voglio che sospettino che io so qualcosa. -
aveva spiegato il Duca. poi, senza rivelarle di aver saputo che chi doveva
ammazzarlo in casa dei Melatino era proprio il fratello di lei, Lello, aveva
continuato:
- L'importante è che non si resti a dormire
in casa del compare, perché è li che mi vogliono ammazzare. Se questa sera
ci inviterà a cenare a casa sua, noi andremo, ma appena aver dopo cenato tu
dimmi subito, davanti a tutti, di voler andare a passare la notte alla
Cittadella e avvìati. lo verrò qualche tempo dopo di te.
Così facendo il Duca pensava non solo di sottrarsi alla morte, ma anche di
coprire Lello Paglia, che non sarebbe stato così costretto a inventarsi qualcosa
per giustificare la sua mancata uccisione. Ma il Duca non conosceva
abbastanza l'animo perverso di Lello Paglia. Convinto di poter guadagnare
facilmente ancora altri ducati, Lello aveva avvertito Errico Melatino.
- Ho saputo - era andato a rivelargli - che il Duca non
si fida completamente di voi e che se lo inviterete a restare a dormire nella
vostra casa non accetterà. Se ne andrà invece con mia sorella Vittoria a dormire
alla cittadella.
- E chi te lo ha detto ? - aveva chiesto
Errico.
- Mia sorella.
- E'
necessario cambiare piano.
- Niente di più facile. -
aveva assicurato Lello Paglia - La porta di ferro della sua stanza alla
Cittadella non gli servirà a nulla. Faremo allontanare con una scusa
Diotajuti e prepareremo al Duca una trappola mortale.
Diotajuti era il servo più fidato del Duca, quello
che aveva preso il posto che una volta era stato di Cola di Bervicaccio.
Furbo come una volpe e svelto come un fulmine, Diotajuti sarebbe stato un
ostacolo insormontabile senza Cola di Bervicaccio, l'unico che poteva
allontanarlo da Teramo e dalla Cittadella e potere così preparare la trappola
che Lello aveva in mente e che spiegò ad Errico Melatino.
- Segheremo i cardini della porta di ferro della
stanza del Duca alla Cittadella e poi riaccosteremo e chiuderemo la porta.
Non si vedrà nulla. Quando il Duca e Vittoria saranno andati a dormire
sarà uno scherzo forzare la porta e sorprenderli nel sonno.
- E le guardie ? - chiese Errico.
- A questo penserà Cola, così come a Diotajuti.
Lello Paglia aveva saputo dallo stesso Errico Melatino
che anche Cola di Bervicaccio era della partita e, quando aveva parlato con lui,
aveva concordato il da farsi. Diotajuti sarebbe stato spedito all'Aquila,
per consegnare un messaggio del Duca al Vicerè e sarebbe stato assente per tutto
il tempo il giorno prescelto per far scattare la trappola. Cola non
avrebbe avuto fatica a indurre Diotajuti ad andare all'Aquila di persona; gli
avrebbe parlato della estrema segretezza del messaggio che doveva
recapitare. Poi lo stesso Cola avrebbe parlato con il Capitano della
Cittadella e si sarebbe assicurato che tutti gli uomini di guardia fossero stati
tra quelli comprati con un centinaio di ducati ciascuno. Non ci sarebbero
state difficoltà di alcun genere a sorprendere il Duca Andrea Matteo indifeso
nel proprio letto.
Lello aveva così avuto da Errico
Melatino altri ducati per sé e altri ne aveva avuto per comprare le guardie. Ma
Tuzzillo era altrettanto scaltro di Lello Paglia e soprattutto non si fidava di
lui. Sapendolo capace di qualunque impresa, ma anche di qualunque
tradimento, aveva studiato un altro piano per servirsi di lui, ma anche per
sbarazzarcene. Era stato proprio lui a capire la disponibilità di Cola di
Bervicaccio a tradire il suo padrone. Aveva intuito che Cola era allettato
non tanto da una buona ricompensa quanto invece disgustato dal riprovevole
comportamento del Duca e motivato dal ruolo inferiore al quale l'Acquaviva
l'aveva ridotto. Gli aveva così proposto con successo di prendere parte a
quella che gli aveva prospettato come una mortale, ma giusta punizione di un
dissoluto. Lo aveva convinto portandolo sempre di più dalla sua parte e
ripetendogli spesso che la sua troppa familiarità con Allegrezza il Duca avrebbe
dovuto pagarla a caro prezzo. Quando Cola aveva accettato di far parte del
complotto aveva sentito la necessità di precisarlo per bene:
- Non lo faccio per denaro. Questo deve essere
chiaro.
E Tuzzillo lo aveva gratificato in questo
suo sentimento:
Lo so, Cola. So che per denaro non
lo avresti fatto mai. So che non stimi il Duca perché è così diverso dal
padre. Il Conte Antonio era tutt'altra pasta di uomo. E così Cola al
riferimento del suo più antico Signore, al cui ricordo egli si sentiva ancora
legato da fedeltà più che certa, aveva definitivamente accettato di diventare il
perno attorno al quale tutta la congiura sarebbe ruotata. Proprio lui
avrebbe dovuto, secondo il preciso incarico di Tuzzillo, indagare per
controllare che Lello Paglia avesse veramente speso il denaro affidatogli per
comprare le guardie della Cittadella, che avesse veramente fatto segare i
cardini della porta della stanza dove sarebbe andato a dormire il Duca insieme
con Vittoria. Ma oltre a questi incarichi, pure determinanti, e oltre a
quello di allontanare Diotajuti, Cola aveva ricevuto da Tuzzillo un altro
compito: quello di uccidere Lello Paglia dopo il suo delitto.
Vittoria Paglia era incinta e aspettava un figlio dal
Duca. Questo non faceva certo piacere alla moglie e agli eredi legittimi
di Andrea Matteo Acquaviva: i figli Antonio, Pier Bonifacio e Giosia.
Questi consideravano il futuro figlio di Vittoria una minaccia alla loro eredità
e alla loro successione al Duca. Essi avrebbero certamente tentato di
vendicarsi degli uccisori del padre, ma avrebbero forse attenuato il loro
spirito di vendetta se insieme col Duca fosse stata uccisa anche Vittoria Paglia
con la sua ingombrante gravidanza.
Così l'infame Lello
Paglia aveva avuto da Errico Melatino l'incarico di fingere di voler
accompagnare la sorella Vittoria al Palazzo degli Acquaviva di Morro subito dopo
l'uccisione del Duca, ma di ammazzarla lungo la strada. E senza titubanze,
in cambio di un altro buon numero di ducati d'oro, Lello aveva accettato
l'incarico. Tuzzillo però ne aveva affidato un altro, altrettanto
spietato, a Cola di Bervicaccio: avrebbe dovuto seguire per strada Lello Paglia
e la sorella Vittoria e subito dopo che Vittoria fosse stata uccisa avrebbe
dovuto uccidere lo stesso Lello.
Per l'agguato al Duca fu
scelta la data del 17 febbraio 1407. Sia l'Acquaviva che i Melatino
trascorsero tutta la giornata a caccia e quando nel tardo pomeriggio tutti
furono ritornati a Teramo, Errico e Tuzzillo subito mandarono il fratello Cola
ad invitare Vittoria Paglia per la cena.
- Noi abbiamo
apparecchiato per il Duca. - disse Cola - lo e i miei fratelli vogliamo che
veniate in ogni modo a cena da noi.
Vittoria accettò di andare. Poco dopo
anche il Duca ricevette lo stesso invito e anche lui mostrò di accettare
volentieri l'invito. Così lui e Vittoria cenarono quella sera, come tante
altre volte, in casa dei Melatino. Con il Duca erano anche Cola di
Bervicaccio ed altri due che avevano come lui l'incarico di guardargli le
spalle, ma che come lui erano passati segretamente al soldo di Errico e di
Tuzzillo.
Si era ormai quasi al termine del desinare
quando bussarono alla porta di Casa Melatino il padre e il fratello di
Allegrezza, Antonio Aceti e il Conte di Monteverde. Errico e Tuzzillo
finsero stupore e sorpresa alla visita che finsero di credere inaspettata e per
un momento il Duca d'Acquaviva pensò che veramente gli Aceti fossero
involontariamente venuti a rompere le uova nel paniere al disegno dei Melatino e
che questi avrebbero dovuto rinunciare al loro tentativo di ammazzarlo. Ma
volle essere prudente e decise di tener fede al proposito di non fermarsi a
passare la notte a casa del compare e di andare a dormire con Vittoria alla
Cittadella.
- Questa sera voglio andare a stare con
Vittoria alla Cittadella. - disse con tono sicuro, quando Errico gli propose di
restare.
E alle insistenza di Tuzzillo e di Cola, che
faceva eco al fratello ripetendo l'invito, ribatté alquanto deciso:
- Avevamo già deciso stamani con Vittoria di dormire
questa sera insieme alla Cittadella. - Poi, rivolto alla donna, aggiunse: -
Avviati tu, ché ti seguirò a momenti.
Vittoria partì,
accompagnato da Cola di Bervicaccio, che fece cenno di restare agli altri due
uomini della scorta del Duca. Uno era un tal Ludovico, figlio di quel Cola
di Lucio che aveva avuta la testa mozzata e tutti i beni confiscati nel 1348,
l'anno della vittoria dei durazzeschi, per avere aderito agli angioini.
L'altro era Niccolò di Bestiano, un tipaccio brutto e scorbutico, assai sveglio
con il coltello.
Qualche tempo dopo anche il Duca,
insieme con le sue due guardie e corpo, si recò alla Cittadella, dove trovò,
davanti alla porta della sua stanza Cola e altre due guardie che gli aprirono la
porta della stanza all'interno della quale si trovava già Vittoria e gliela
chiusero alle spalle una volta che egli era entrato.
Dentro la stanza, al riparo di quella pesante porta di ferro di cui egli non
sapeva che fossero stati segati i cardini, il Duca d'Acquaviva si sentiva
sicuro. I suoi uomini erano dietro quella porta, ma egli non sapeva che
erano stati tutti comprati per pochi ducati dai Melatino. Tuttavia egli,
per una specie di intuizione improvvisa, volle essere ancora più prudente e, non
fidandosi pienamente, decise di non levarsi gli abiti e se ne restò vestito,
seduto sul letto, determinato a restare sveglio per tutta la notte e con
l'orecchio attento al minimo rumore.
Fu così che verso le
dieci della notte senti subito uno scalpiccìo sospetto che cominciò a provenire
dalle scale che portavano alla sua stanza. Si alzò dal letto e cominciò a
gridare e a chiamare a gran voce i suoi uomini, mentre Vittoria, sicuramente
ignara delle insidie e sorpresa per tanto improvviso e, secondo lei,
ingiustificato allarme, cercava di calmarlo:
-
Signore, non c'è da temere niente. Ci sono i tuoi uomini dappertutto.
Ma il Duca sentiva dentro di sé una strana
agitazione. Quel rumore di passi per le scale gli sembravano troppi e
troppo cadenzati per essere passi di persone amiche. Non si
sbagliava. Erano i passi di Errico Melatino, quelli di Tuzzillo, di
Antonio Aceti, del Conte di Monteverde e dei loro sgherri. I loro uomini
avevano, come loro, le spade sguainate e si avvicinavano minacciosi alla stanza
del Duca, il quale, impugnata anche lui la sua spada, pensava di potersi ben
difendere all'occorrenza. Ma la porta era inchiavardata anche all'interno con un
pesante catenaccio e avrebbe resistito a qualsiasi spinta, se i suoi uomini di
guardia avessero avuto la peggio. Non immaginava ancora il Duca che non
aveva ancora un solo fedele tra quelli che si trovavano dall'altra parte di
quella porta di ferro, chiusa dall'interno con un pesante catenaccio, ma con i
cardini segati.
Quando gli aggressori, con in testa
Errico Melatino, vennero a forzarla, essa non resistette a lungo e cadde a terra
pesantemente, trascinando con sé il Duca, che vi si era appoggiato con tutte le
sue forze e che ora tentò invano di difendersi.
Mentre
Vittoria continuava a gridare e a singhiozzare terrorizzata, Cola di
Bervicaccio, entrato nella stanza feci per primo il Duca con un colpo di
spada. Poi fu Errico ad affondare ripetutamente la lama di un coltello nel
petto e nel ventre dell'Acquaviva, che cadde a terra finito, accanto al letto.
Entrarono nella stanza anche il Conte di Monteverde e il padre di questi,
Antonio Aceti, compiacendosi per la riuscita dell'impresa e dell'uccisione del
Duca, mentre Vittoria, ormai in preda ad una irrefrenabile crisi isterica, venne
affidata a Cola di Bervicaccio, che la condusse fuori della Cittadella e la
consegnò al fratello.
Ma Lello aveva avuto e
accettato incarico del tutto diverso da quello che ora Cola fingeva di
affidargli e Vittoria, che tremava ancora di paura e continuava a piangere e a
disperarsi, si affidò fiduciosa al fratello, convinta di essere portata in salvo
da qualche parte. Tanto più che Lello le disse, mentre l'aiutava a montare
a cavallo:
- Ti porterò al sicuro a Morro.
Mentre Lello e la sorella si avviavano verso Morro
Cola andò a prendere il suo cavallo, intenzionato a non lasciarsi distanziare
tanto dai due, temendo che essi prendessero una strada diversa da quella
concordata e per tutto il percorso li seguì a breve distanza, riuscendo a non
farsi mai scorgere.
Non si erano allontanati
molto da Teramo quando Lello decise che il momento opportuno per uccidere la
sorella era arrivato. E non avrebbe potuto scegliere tempo e luogo più
adatto all'incarico che aveva accettato. Nel buio senza luna di quella
notte di sangue il luogo che Lello aveva scelto distava poche centinaia di metri
dal luogo natale di Cola. Nella terra di Sant'Atto i castelli di
Bervicaccio, Bestiano e Festignano erano stati distrutti dopo essere stati feudi
del Monastero di San Niccolò, ma presso ognuno di essi era rimasto qualche
avanzo di casa, o di chiesa, o di fonte. Proprio a un centinaio di metri
dalla collinetta sulla quale biancheggiavano i resti del castello di
Bervicaccio, in un luogo chiamato Castellano e presso il quale si trovava
l'antica Fonte di Tucciano, che la gente chiamava Fontacciana, Lello Paglia
invitò la sorella a fermarsi e a scendere di cavallo.
- Fermiamoci a bere e a far bere i cavalli, - disse
- poi proseguiremo dritti per Morro.
- Non ci
seguirà qualcuno ? - chiese tremando Vittoria.
-
Chi vuoi che ci segua ?
- Forse avremmo dovuto
cercare Diotajuti. - disse Vittoria.
In
Diotajuti Vittoria riponeva ora la sua ultima speranza, anche per la difficile
accoglienza che avrebbe avuto a Morro dalla moglie e dai figli del Duca.
Diotajuti era il servo più affezionato al Duca, che aveva seguito ad Ascoli,
quando l'Acquaviva, chiamato dai ghibellini di quella città, era andato a
soggiogarla per esseme poi cacciato dai guelfi, e a Taranto, per partecipare
all'assedio insieme con il Re Ladislao.
Diotajuti
era stato anche il fedele intermediario che aveva favorito il matrimonio di
Andrea Matteo con la nipote del Papa Bonifacio IX, che lo aveva accompagnato a
Zara, quando il re aveva voluto il Duca al suo seguito il giorno
dell'incoronazione come Re d'Ungheria, nel 1403. Dopo l'assedio di
Taranto, durante il quale il Re aveva lasciato proprio al Duca di Atri il
comando dell'esercito assediante, anche Diotajuti era rimasto lungamente con il
Duca a Napoli, dove il Re aveva voluto che Andrea Matteo d'Acquaviva restasse
prima del suo ritorno in terra di Apruzzo.
Diotajuti era stato ancora il confidente e il mezzano per la vita di gaudente e
donnaiolo che il Duca aveva condotto sia a Napoli che a Teramo dopo il suo
ritorno da Napoli. Se Cola di Bervicaccio era stato il suo braccio armato,
Diotajuti era stato la sua mente furba e pensante, al corrente di ogni sua
tresca e soprattutto il tramite della sua relazione con Vittoria Paglia.
Ora proprio Vittoria rimpiangeva in cuor suo che Diotajuti proprio
quel giorno si fosse dovuto recare all'Aquila e pensava che all'ora dell'agguato
al Duca forse Diotajuti era già tornato e che sarebbe stato saggio cercarlo per
chiedergli consiglio sul da farsi, sul corso da dare ora alle azioni e alle
scelte future.
Era immersa in questi pensieri e
aveva in cuore questo rammarico, oltre al dolore per la morte del Duca, quando
il fratello le si avvicinò furtivamente e, senza alcun tipo o forma di
incertezza o di ripensamento, le inferse da dietro, sulla schiena, una
coltellata. Lei ebbe un fremito, gemette e si voltò, guardando il fratello
con un sguardo più sorpreso che terrorizzato. E Lello estrasse il coltello
dalla ferita e la colpì ancora, poi ancora e ancora, fino a quando la donna non
si afflosciò, proprio accanto alla fontana.
Lello
si avvicinò alla fontana e si lavò le mani. Quando sentì un lieve fruscìo
dietro le sue spalle non si allarmò, perché pensò che si trattasse di un
animale, ma sollevò ugualmente il capo e si accingeva a voltarsi quando la prima
coltellata lo colpì alla schiena. Cola di Bervicaccio stava eseguendo con
fredda determinazione l'incarico avuto e accettato da Errico e Tuzzillo
Melatino. Altri tre colpi di coltello, sempre alla schiena, e Lello cadde
morto accanto alla sorella.
Diotajuti in quel momento, appena tornato
dall'Aquila, aveva appreso con orrore quanto era successo, e, superato il primo
momento di sgomento, capì che la prima cosa da fare era di correre a Morro ad
avvertire la moglie e i figli del Duca. Poi sarebbe dovuto tornare subito
al galoppo verso l'Aquila per avvisare il Vicerè degli Apruzzi, Conte di
Carrara.
Alla moglie del Duca Diotajuti portò un
triste souvenir: il coltello con il quale era stato ucciso il marito. Era
ancora sporco di sangue. Diotajuti lo aveva raccolto accanto al corpo del
Duca, ai piedi del letto.
* * *
Diotajuti era sconvolto per la morte del suo Signore
e non si dava pace per essersi lasciato indurre a recarsi all'Aquila proprio il
giorno in cui lo avevano ucciso. Ben presto capì anche che Cola di
Bervicaccio lo aveva attirato in un inganno e che le sue responsabilità
nell'eccidio erano dirette e precise. E' quel che riferì al Vicerè, che
parti subito e arrivò a Teramo due giorni dopo.
I
Melatino lo ricevettero con tutti gli onori, ma si difesero dalle accuse e
parlarono di una banda di malviventi che avevano sorpreso il Duca nella
Cittadella per derubarlo e lo avevano ucciso una volta vistisi scoperti.
Tre giorni dopo dall'arrivo a Teramo del Vicerè la vedova del Duca parti insieme
con i figli alla volta di Napoli. Voleva accertarsi di persona della
veridicità di una voce che già cominciava a diffondersi per tutto il territorio
di Teramo ed era arrivata anche a Morro. I Melatino, si diceva, non
avrebbero mai avuto l'ardire di attentare alla vita del Duca Andrea Matteo di
Acquaviva, che sapevano intimo del Re Ladislao, senza prima avere convinto lo
stesso Re ad accordare in qualche modo il proprio consenso. E a convincere
la vedova e i figli del Duca che la voce non corrispondesse al vero non bastava
il fatto che il Vicerè era subito venuto a Teramo non appena informato del grave
fatto di sangue. Non bastava perché essi non potevano anche non tener
conto del fatto che il Vicerè non aveva usato alcuna energia contro i
Melatino. Non li aveva formalmente accusati dell'uccisione del Duca, non
li aveva fatti arrestare né interrogare, non li aveva esiliati. I Melatino
anzi sembravano aver conservato tutta la loro arroganza e l'avevano perfino
accresciuta.
Così la vedova del Duca e i figli,
Antonio, Pier Bonifacio e Giosia, decisero di partire per Napoli, dove chiesero
subito udienza al Re. La vedova, che, ricordiamo, era nipote del papa
Bonifacio IX, aveva un aspetto austero e raffinato che sembrava ancora più
sacrale nel vestito a lutto con il quale si era presentata davanti a Re
Ladislao.
Arrivata davanti al Re, con a fianco i
tre figli, la vedova del Duca porse al Sovrano un coltello insanguinato e disse,
con un tono che ai più sembrò aspro: - Maestà, prendete questo pugnale e
uccidete questi miei tre figli. E' lo stesso pugnale con il quale avete
fatto uccidere il loro padre, mio marito, il Duca d'Acquaviva.
Il Re non ebbe il coraggio di punire la donna per quella
che era in fondo una accusa tanto pesante quanto impudente. Si limitò a
dirsi innocente di quella morte:
- Quale ragione avrei avuto a
fare uccidere chi mi fu accanto, fedele, all'assedio di Taranto e a me così caro
che a lui affidai persino il comando del mio esercito ?
Il fatto che il Re non avesse punito la Duchessa di
Acquaviva per la sua sfrontatezza parve a molti la prova che il Re fosse se non
responsabile della morte del Duca quanto meno a conoscenza della intenzione dei
Melatino e egli Aceti di ammazzarlo. Un'altra prova di responsabilità
parve a molti altri l'amore con cui il Re trattenne presso di sè, alla Corte di
Napoli, i tre figli del Duca per quasi un anno, circondandoli di ogni attenzione
e assicurando loro che la morte del loro padre non sarebbe rimasta
impunita. Ma molti altri ancora giustificavano questo amorevole
comportamento proprio con una sicura innocenza. Restava però il fatto che
a Teramo i Melatino continuarono ad essere liberi e senza avere a proprio carico
alcuna accusa specifica, anche se non v'era in città chi non sapesse con
assoluta sicurezza che il Duca d'Acquaviva era morto per mano dei Melatino, così
come Vittoria e Lello Paglia.
Quando, poco tempo
dopo la morte del Duca, il I settembre dello stesso anno 1407, Lodovico
Migliorati, Marchese della Marca, fece tagliare la testa ad Antonio Aceti,
Signore di Fermo e padre di Allegrezza Melatino, Cola di Bervicaccio fu mandato
da Errico nella Marca ad appurare come fossero andate le cose. Ed ebbe il
suo da fare, Cola, per tornare incolume in terra di Aprutio, perché Diotajuti,
che era riuscito a sapere del suo incarico, gli aveva mandato dietro una
“comitiva” che in due occasioni andò assai vicina alla sua uccisione.
Giovanni Antonio di Cola, detto Giannantonio, che si era schierato dalla parte
del Diotajuti e sosteneva le ragioni di una celere e spietata vendetta degli
Acquaviva, lo aveva sorpreso in una taverna ed era riuscito a ferirlo di
striscio ad una coscia con un coltellaccio. Quando poi Cola, tornato
rapidamente in Aprutio, aveva trovato rifugio presso il nuovo Vescovo di Chieti,
Marino di Tocco, eletto appena l'anno prima, Giannantonio lo aveva inseguito fin
lì, riuscendo a sorprenderlo in una seconda occasione, ma questa volta non era
arrivato nemmeno a ferirlo di striscio.
Così Cola
era tornato a Teramo, all'ombra dei Melatino, che continuavano a restarsene
tranquilli, senza temere più di tanto la vendetta degli Acquaviva. I
quali, come era voce comune assai diffusa, covavano nell'animo un forte
risentimento, ma fino a quando i tre figli del Duca se ne restavano a Napoli,
alla Corte del Re Ladislao, i Melatino ritenevano di non avere nulla da
temere. E anche Cola era dello stesso avviso.
Antonio d'Acquaviva, il maggiore, già portava il titolo di Duca, ma era
giovanissimo e non rappresentava per la sua fazione un punto di riferimento
valido e preciso. Erano Giannantonio e Diotajuti, piuttosto, che, a quanto
si sapeva, sembravano i più determinati alla vendetta, ma a loro volta non
potevano, per i loro limiti e per il non avere agli occhi alcun carisma,
costituire un pericolo reale. Così sia i Melatino che Cola di Bervicaccio
presero a poco a poco ad abituarsi all'idea che non fosse imminente una vendetta
degli Acquaviva e che nemmeno dalla parte del Re ci fosse una determinata
volontà di fare giustizia e di individuare gli uccisori del Duca Andrea Matteo.
Sia Cola che la moglie Caterina diventarono sempre
più familiari sia con i Melatino che con i loro congiunti. Caterina era
particolarmente in confidenza con Beatrice di Melatino, che aveva sposato il
cugino Giovanni Paladini. Il figlio di Cola e Caterina, Angelo, era
compagno di giochi e di avventure del figlio di Francesco. Era molto
numerosa la famiglia Paladini e assai intima dei Melatino, oltre che congiunta
per ripetuti matrimoni tra cugini. Bernardo aveva tre fratelli: Giacomo,
Giovanni e Tommaso, anche loro molto legati ai Melatino e autorevoli sostenitori
della loro fazione. Loro padre era il vecchio Cola, tra i più eminenti
cittadini teramani, marito di un'altra Melatino, Costanza.
Tutta la fazione melatinista trascorse tranquilla e
senza alcun sospetto l'inverno dell'anno 1407, particolarmente rigido.
Poi, con la primavera, arrivò, tremenda la vendetta degli Acquaviva.
* * *
Già ai primi di marzo, senza che nessuno dei
Melatino ne fosse informato, Giannantonio, l'ascolano, e Diotajuti avevano
cominciato a radunare una “comitiva”, mentre il giovanissimo Duca Antonio
d'Acquaviva e i suoi due fratelli se ne restavano a Napoli presso il Re
Ladislao, per non destare sospetti e la vedova di Andrea Matteo continuava a
starsene in strettissimo lutto nel suo palazzo di Morro.
La notte del 12 marzo la “comitiva” messa insieme
da Giannantonio e da Diotajuti entrò segretamente dentro le mura di
Teramo. Si trattava di una trentina di uomini, armati di tutto punto e
decisi a uccidere anche l'ultimo dei servi della casa dei Melatino. La
casa degli odiati nemici fu circondata; Diotajuti si avventò con i suoi lungo lo
scalone. Roberto, che aveva la sua camera proprio in cima allo scalone
della casa, fu il primo a morire, sgozzato sul letto. E ancora a letto
furono pure sorpresi dai primi clamori i figli Errico e Tuzzillo. Quando
gli uomini di Diotajuti andarono nella stanza di Errico, lo trovarono che si era
appena alzato dal letto e gli tagliarono di netto la testa con una accetta.
Tuzzillo fu sorpreso che cercava di nascondersi in uno stanzino, avvertito
del pericolo dal grande trambusto. Ma non poté scampare alla morte, che lo colse
insieme con la moglie. I loro corpi restarono, con il ventre squarciato,
sulla porta dello stanzino, di traverso.
Fu uccisa
anche Allegrezza, la moglie di Cola Melatino, ma il marito riuscì a
scamparla. In quella notte tremenda, in cui tutta la sua famiglia, insieme
con gli uomini d'arme e persino con tutti i servi, fu sterminata, il più giovane
dei figli di Roberto ebbe la fortuna di trattenersi più del solito in una casa
di campagna di un amico che spesso lo invitava a fare bisboccia con lui.
Fu Cola di Bervicaccio, che sapeva dove egli fosse rimasto a dormire quella
notte, a raggiungerlo verso l'alba e ad avvertirlo di quello che era
successo. Lo stesso Cola di Bervicaccio era riuscito a scamparla per puro
miracolo. Dormiva in un'ala del palazzo dei Melatino che era piuttosto lontana
dallo scalone centrale e al primo piano. Svegliatosi ai primi clamori e ai primi
pianti dei feriti, fece in tempo a calarsi, insieme con la moglie e con il
figlio Angelo, dalla finestra sulla strada e da qui raggiunse la scuderia.
Nell'oscurità gli fu facile procurarsi un cavallo per sé e per sua moglie e uno
per il figlio e si diresse verso la contrada Rischiara, dove sapeva che si
trovava a dormire quella notte Cola dei Melatino.
A
parte Cola, non tutti coloro che dormivano a casa dei Melatino furono uccisi
quella notte. Tutti gli altri che furono risparmiati furono condotti nel
palazzo degli Acquaviva, a Morro, dove però ebbero modo di rammaricarsi di non
essere stati uccisi all'istante nel corso di quella stessa notte del 12 marzo,
in cui la famiglia dei Melatino era stata sterminata. Essi infatti nei
giorni successivi furono sottoposti, nelle cantine del palazzo, alle più crudeli
torture a seguito delle quali morirono fra strazi e martirii di ogni tipo.
Erano ormai morti quasi tutti quando fu preso l'ultimo
dei Melatini, Cola, che era scampato alla strage della notte del 12 marzo, ma
non sfuggì ugualmente alla vendetta degli Acquaviva ed ebbe una sorte ancora
peggiore di quella dei suoi familiari.
Era stato
proprio Cola di Bervicaccio a consigliare all'ultimo dei Melatino di cercare
rifugio presso il Papa, Bonifacio IX:
- E' l'unico
che possa aiutarci a trovare un rifugio sicuro. Non può negarti
protezione. Sei stato il più fedele dei suoi “scutiferi” e ha qualche
interesse a tenerti lontano dagli Acquaviva.
Ma era
stato un cattivo consiglio. Papa Bonifacio si ricordava del suo antico
alleato, ma si era ricordato anche che la vedova del Duca Andrea Matteo
d'Acquaviva, tanto crudelmente ucciso dai Melatino, era sua nipote e
dimenticandosi, questo sì, dei suoi recenti dissapori con lei, aveva pensato di
fare al tempo stesso una cosa gradita sia a lei che alla Corte di Napoli.
Così il Papa prima scrisse a Cola Melatino, invitandolo ad andare da lui, perché
gli avrebbe trovato scampo sicuro alla vendetta degli Acquaviva, e poi lo fece
mettere ai ferri e dopo qualche giorno lo fece spedire a Morro, alla vedova
inconsolabile e vendicativa.
Quale fosse stata la
fine dell'ultimo dei Melatino Cola di Bervicaccio lo venne a sapere qualche
tempo dopo e di quella fine crudele portò a lungo il rimorso, tanto da darsene a
lungo la colpa. Cola era stato messo ai ceppi nei sotterranei del castello
di Morro e la Duchessa di Acquaviva ogni giorno era andata personalmente da lui
a vederlo soffrire sotto la tortura dei suoi sgherri. Il corpo del
Melatino era stato letteralmente straziato, giorno dopo giorno. E più
volte il malcapitato aveva amaramente rimpianto di non essere stato ucciso
quella stessa notte nella quale la sua intera famiglia era stata sterminata.
Ma il peggio purtroppo doveva ancora venire.
Alla Duchessa d'Acquaviva quella terribile punizione quotidiana, con la quale
aveva fatto infliggere le più dolorose ferite ad un corpo sempre più vilipeso e
oltraggiato nelle carni più profonde, presto non parve più abbastanza. Una
notte Cola Melatino venne svegliato di soprassalto dall'improvviso rumore della
porta della sua cella che si apriva e si vide venire avanti, dietro la luce di
una fiaccola, due tra i più crudeli scherani della Duchessa e dietro di loro la
stessa Duchessa, avvolta in quel nero mantello che portava a perenne segno del
suo lutto assetato di vendetta. E con lei Diotajuti, terreo in volto, con
gli occhi spiritati e una tenaglia tra le mani. Il Melatino atterri quando
intese le intenzioni di quei suoi nemici mortali. I due scherani lo
presero alle spalle e lo spinsero a terra. Uno lo tenne per le gambe,
l'altro per le braccia e, mentre egli urlava e urlava a più non posso Diotajuti
lo pressò sulla bocca, gli cavò la lingua e glie la mozzò di netto.
L'urlo si interruppe di colpo e si fece silenzioso
e perciò più disperato. Cola di Melatino continuò a dibattersi, a terra,
straziato, muto e solo un indistinto gorgoglio gli usciva dalla gola, quando
Diotajuti si erse con la tenaglia fetida di sangue. E sangue sgorgò a
fiotti dalla bocca del Melatino e si sparse per terra, mentre la Duchessa se ne
restava a guardare, immobile, senza un gesto di pietà o di orrore.
Cola era stato lasciato in quella oscura cantina, vivo e
folle di dolore, per un giorno intero. Poi era morto. E Cola di
Bervicaccio aveva pianto a sentirlo raccontare, e a sentir raccontare quello che
era avvenuto dopo. Perché anche quanto finora aveva fatto era sembrato
poco alla Duchessa di Acquaviva e la sua sete di vendetta non ne era stata
ancora appagata. L'Acquaviva aveva ordinato che il corpo dell'ultimo dei
Melatino venisse tagliato in quattro parti e che ognuna delle quattro fosse
spedita a Teramo per essere esposta in un quartiere diverso. Perché i
teramani sapessero, perché i teramani capissero, perché temessero. E Cola
di Bervicaccio aveva capito e da allora era vissuto, per anni, nascosto come un
animale braccato. Perché per tutto il resto della sua vita Diotajuti
continuò a dargli la caccia. Anche lui doveva pagare, secondo la Duchessa
d'Acquaviva, per la morte del marito.
Diotajuti
restò a capo di una “comitiva” che spadroneggiò per tutto l'ampio territorio
teramano, una “comitiva” di cui facevano parte quanti erano ancora vivi tra i
familiari e i sostenitori di Antonello de Valle e che volevano vendicarsi dei
Melatino. Ad un'altra temuta “comitiva”, quella di Giannantonio di Ascoli,
si erano aggregati non pochi Camplesi, motivati dall'antico odio della loro
città per i teramani e particolarmente per i Melatino. Quell'odio risaliva
ai tempi della battaglia della Montagna di Melatino, detta poi “Montagna di
Battaglia”..
E da entrambe le “comitive” Cola di
Bervicaccio fu braccato, per sua fortuna vanamente. Sia i Camplesi che i
sostenitori della fazione di Antonello, che avevano cominciato a chiamarsi
“Antonellisti”, diedero la caccia per più di un mese, a Teramo, a quanti tra i
teramani ritenevano più ostili ai Camplesi, o autori di antiche offese.
Gli antonellisti poi non risparmiarono quanti si erano distinti tra i
sostenitori dei Melatino, che chiamavano i “Melatinisti”. Ma Cola di
Bervicaccio riuscì a farla franca, e lui per primo se ne sorprese.
Ci furono così molte devastazioni di case e
moltissimi omicidi. Furono ammazzati in un giorno tutti i componenti della
famiglia Muzii, fuorché un piccolissimo bambino, Francesco, figlio di Nardo, che
dormiva in una culla e mosse a pietà un soldato. Questi non ebbe cuore a
ucciderlo e lo nascose anzi in un gran caldaio. E' da questo Francesco,
che sposerà Clemenzia Fazii, che sarebbe poi risorta la famiglia Muzii, con i
suoi figli e soprattutto con i figli di Francesco: Cola, che sarebbe stato
avversario dagli Acquaviva nel 1501, e Nardo, che sarebbe stato ambasciatore nel
1470.
Cola di Bervicaccio aveva le sue colpe
sia agli occhi degli “Antonellisti” sia agli occhi dei Camplesi. Con i
secondi aveva un'antica inimicizia che risaliva ai tempi della battaglia della
Montagna di Melatino. I primi invece gli rimproveravano il tradimento
dell'anno precedente. Ma Cola riuscì a sfuggire alla vendetta di
entrambi. Non si fece mai prendere e fu tra i pochi della sua fazione a
scamparla. Aveva trovato un rifugio sicuro e se ne rimase al riparo da
qualsiasi vendetta, del Camplesi e degli antonellisti, così come degli
Acquaviva, Nessuno seppe mai dove si fosse rifugiato. Sua moglie ebbe un
altro figlio a cui Cola mise il nome di Antonio, in ricordo del Conte di
Acquaviva, che era stato il suo antico Signore. Non si fidò a tornare nel
territorio teramano per lunghi anni, anche se gli eventi naturali qualche mese
dopo la terribile notte della vendetta degli Acquaviva gli avrebbe potuto
consigliare una minore prudenza.
Ma Cola conosceva
l'insincerità degli uomini e l'insidia dei tempi, tempi di tradimenti e di
congiure