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Relazione di Sergio Cofferati al Comitato Direttivo del 21 febbraio 2002

Ieri siamo stati convocati dal governo. Il presidente del Consiglio, a nome di tutto il governo senza eccezione alcuna – ha tenuto a precisarlo e la ragione della precisazione non dovrebbe esservi sfuggita – ha avanzato una proposta che vi descrivo esattamente come è stata prospettata. 

Nella più volte dichiarata intenzione di favorire un processo di riorganizzazione e di ammodernamento del processo produttivo e delle sue regole, il governo aveva promosso un confronto che poi si era interrotto ed era stato concluso con la presentazione di tre deleghe in Parlamento che, come sapete, riguardano il fisco, la previdenza e il mercato del lavoro.

Per dare continuità a questo sforzo di riorganizzazione e di rilancio del sistema economico, il governo ritiene utile cercare le condizioni per avere un consenso ampio su alcuni dei temi che sono stati oggetto di critica e di contestazione. E per questo motivo ha proposto agli interlocutori di ieri sera – c’erano tutte le associazioni imprenditoriali e tutte le organizzazioni sindacali che nel corso del tempo hanno aderito, a vario titolo peraltro, all’accordo del 1993 – di riaprire un confronto tra le parti sociali sui temi che sono contenuti nella delega sul mercato del lavoro, utilizzando quello che viene definito "metodo dell’avviso comune", mutuando e storpiando una prassi consolidata in Europa. 

In Europa, come sapete, avviso comune è il frutto di un confronto tra governi e parti sociali mirato a recepire le direttive. Come potete immaginare, qui non siamo nella condizione che porta l’Europa a chiamare quella prassi "avviso comune". Ma, così come il dialogo sociale è diventato sostitutivo di qualsiasi prassi di confronto preventivo sui temi che possono riguardare anche le nostre funzioni, adesso c’è un uso strumentale del termine avviso comune. Non è una divagazione: lo dico perché questa prassi, che ha altra ragione e altra natura, viene così definita per cercare di orientare l’opinione pubblica e soprattutto le forze politiche e sociali in Europa. Non è una scelta casuale: la ragione è quella di accreditare l’intenzione del governo italiano di operare all’interno di un sistema di regole e di prassi che sono consolidate in Europa, anche se poi la sostanza qui è profondamente diversa. Con questo metodo dell’"avviso comune", della ricerca della convergenza tra le parti sociali, il governo proponeva di riaprire il confronto. Ovviamente, per quanto riguarda i temi "senza costo", in un rapporto diretto tra sindacati e organizzazioni datoriali. Per i temi che invece hanno un’incidenza sulla spesa pubblica, tutto doveva avvenire sotto la regia del governo.

Il governo ha poi aggiunto che, se questo confronto produrrà un’intesa sui temi della delega, l’intesa sarà recepita. Se invece non ci sarà intesa, il governo procederà liberamente nell’attuazione della delega, con la possibilità di una sua modifica, tenendo conto degli elementi emersi dal confronto. Il confronto, poi, dovrebbe durare due mesi, con un possibile prolungamento di breve durata, su richiesta comune delle parti, o su decisione del governo, se lo stesso dovesse valutare che serve ancora uno spazio di tempo definito per arrivare alla soluzione che fin lì non si è prodotta.

Nel mentre il confronto si sviluppa, il governo rimodula i tempi della discussione in Senato sulla delega relativa al mercato del lavoro.

A questa proposta abbiamo risposto chiedendo al governo due cambiamenti sostanziali. 

Abbiamo detto della nostra disponibilità soltanto alla condizione che dal testo oggi depositato al Senato venissero stralciate le parti sull’articolo 18 e sull’arbitrato. Le ragioni sono facili da comprendere: il rallentamento della discussione, che si realizza semplicemente collocando in tempi diversi da quelli iniziali il dibattito prima in commissione e poi in aula, lascia sostanzialmente integra la delega e crea la condizione, per noi inaccettabile, di avere un confronto accompagnato dal permanere della condizione che avevamo inizialmente e unitariamente criticato: non c’è alcuna modifica al testo, che rimane intonso e semplicemente rallenta la sua approvazione. Dunque non soltanto per coerenza con la richiesta che avevamo affacciato e sulla quale avevamo costruito le iniziative di mobilitazione e di lotta – già questo sarebbe comunque stato elemento sufficiente – ma anche come condizione vitale per un confronto su qualsiasi argomento, abbiamo chiesto che venisse stralciato la norma sull’articolo 18 e sull’arbitrato.

Abbiamo aggiunto come seconda condizione, connessa e coerente con questa, il fatto che nel confronto con le imprese non dovesse essere compreso nulla che avesse attinenza con una modifica dello Statuto dei lavoratori, ovviamente a partire dall’articolo 18. 

Il governo non ha ritenuto di dover accogliere nessuna delle nostre richieste. Allora abbiamo esplicitato la nostra indisponibilità a un confronto anche su materie che, se fossero scomparsi i riferimenti all’articolo 18 e allo Statuto dei lavoratori, potevano essere oggetto di discussione. Penso in esplicito al tema che noi stessi avevamo indicato come priorità quando iniziò la discussione sul libro bianco, e cioè gli ammortizzatori sociali. Ma si possono fare anche altri esempi.

Restano fermi invece la nostra disponibilità e il nostro interesse a un confronto su ciò che è "extradelega": innanzitutto lo statuto della società europea – anche se appare chiaro che si tratterà di un confronto del tutto virtuale e per nulla concreto, in quanto non c’è una direttiva completata nel dibattito europeo: manca la parte più importante, che è quella relativa alle condizioni fiscali con le quali si possono determinare forme di partecipazione e di coinvolgimento dei lavoratori sugli assetti proprietari dell’impresa. Lo dico per non ritornare poi su questo tema: negli incontri che ci saranno nei prossimi giorni l’intenzione del governo è chiara; offrire alle altre organizzazioni, che hanno qualche interesse e affezione al tema dell’azionariato dei dipendenti, un riferimento. Un riferimento che però non avrà nessun effetto concreto, mancando i provvedimenti e gli orientamenti relativi in materia fiscale. 

Io penso che questa dimensione "virtuale", nelle cose che il governo cercherà di fare nei prossimi giorni, sarà sistematica. Per quanto riguarda lo statuto della società europea saremo di fronte, nei prossimi giorni, a questa esplicita e vistosa contraddizione: occulteranno il fatto che si discute di materia non attuabile e cercheranno di valorizzare invece l’interesse a un coinvolgimento dei lavoratori negli assetti proprietari dell’impresa. A conferma di tutto ciò, nelle discussioni sui progetti di riorganizzazione di importanti aziende in crisi, le altre organizzazioni, e soprattutto la Cisl, hanno già ripetutamente affacciato questa richiesta.

Il secondo livello di confronto che resta fermo, perché l’abbiamo chiesto noi – siamo interessati a che prosegua, in modo che venga esplicitato quali sono le eventuali disponibilità del governo e quali le chiusure di merito – è quello del Mezzogiorno.

Per tutto il resto, che sono poi le materie contenute nella delega, abbiamo detto la nostra contrarietà a partecipare a quel confronto. Le ragioni sono evidenti e in parte le ho già tratteggiate: si tratta di una discussione che è alterata dal permanere della delega. Io non so quali sono gli elementi che gli altri sindacati alla fine cercheranno di esplicitare per giustificare la loro scelta di disponibilità al confronto. Ma è del tutto evidente che, con una delega che permane così come è scritta, le condizioni per il negoziato non sono paritarie. Prescindiamo per un attimo dal fatto che, non essendo noi disposti a discutere dell’articolo 18, non abbiamo oggettivamente il problema, ma chi ha dato disponibilità si troverà a discutere di una materia che è già segnata in partenza da un testo scritto. E l’affermazione, più volte reiterata dal governo, che comunque, anche in assenza di un accordo, quel testo potrebbe essere modificato, e dunque riprendere il suo iter legislativo su una base diversa, è forse nemmeno un palliativo, è un ovvio e strumentale elemento di distrazione dal cuore del problema. Tant’è che il vicepresidente del Consiglio, a domanda esplicita, ha detto come potrebbe essere modificata alla fine la delega anche sul tema controverso dell’articolo 18: si potrebbe avere un testo nuovo e le causali, invece di tre, potrebbero essere una o cinque; il fatto che non abbia utilizzato la cifra zero la dice lunga sulle intenzioni concrete del governo.

Dunque, una trattativa che si svolge con questa spada pendente sul tavolo del negoziato è una trattativa alterata. D’altro canto questa posizione conferma quanto il governo aveva detto fin dall’inizio: e cioè di non essere disponibile in alcun modo a ipotizzare uno stralcio dal testo che aveva presentato. Ma il confronto con le parti datoriali si tramuta oggettivamente nell’accettazione esplicita del negoziare sull’articolo 18 e sul tema dei licenziamenti. Poi Cisl e Uil hanno affermato di non voler affrontare il tema dell’articolo 18 e riconfermato la propria contrarietà alla stampa.

Io credo che la scelta di Cisl e Uil sia per qualche verso incomprensibile e in ogni caso sbagliata. Profondamente diversa comunque dalle scelte che insieme avevamo convenuto e sulle quali avevamo prodotto le iniziative di mobilitazione e di lotta di questi mesi. 

È utile comunque sapere che ci siamo trovati di fronte a una proposta sostanzialmente precostituita, nata da confronti esterni al luogo ufficiale della discussione, confronti nei quali noi non siamo stati in alcun modo coinvolti. Si può argomentare su questa prassi come si vuole: che le organizzazioni sindacali debbano avere rapporti anche informali con i propri interlocutori lo considero assolutamente fisiologico; quello che non è fisiologico in questa situazione è che i nostri interlocutori non vogliano avere rapporti, né formali né informali, con una parte dei loro interlocutori, e segnatamente con la Cgil.

Così come non dobbiamo sottovalutare il carattere della riunione di ieri, oltre che gli argomenti che l’hanno accompagnata e i commenti che sono stati prodotti. Era evidente l’intenzione mediatica di mettere intorno a un tavolo un numero pletorico di associazioni, alcune della quali anche di dubbia esistenza, per segnare l’isolamento di un’organizzazione e poter dire che l’universo mondo è d’accordo mentre c’è una sola organizzazione che non è disponibile alla discussione.

L’orientamento forse era anche quello di usare gli altri per premere su di noi: il risultato però per loro non è stato esaltante. Oppure era semplicemente quello di segnare anche visivamente la nostra estraneità. Poco importa. Bisogna tenere conto di questo aspetto perché è già emerso e senza dubbio ritornerà nei giorni a venire. 

Non vi sarà sfuggito come la scelta più subdola e arrogante da parte del governo sia stata presentata come un atto di umiltà: mi faccio da parte e riconsegno le materie alle parti sociali. È la precostituzione di un alibi, per agire successivamente avendo addossato l’eventuale responsabilità della mancata soluzione alle parti sociali; in ogni caso è una responsabilità che non cadrà sulle nostre spalle, avendo noi deciso di non partecipare al confronto. Anche questo confronto comunque è stato costruito dal governo avendo già alterato le condizioni iniziali: l’alterazione sta nella scelta delle materie e nell’indicazione della procedura, che prevede il rallentamento del dibattito parlamentare ma il sostanziale mantenimento dello schema di merito previsto inizialmente.

Dicevo prima che secondo me le altre organizzazioni confederali hanno commesso un errore grave e che a quell’errore si potranno aggiungere contraddizioni ed effetti pericolosi nei prossimi giorni. Domani, come sapete, si apre un convegno di Confindustria, a Torino. L’argomento del convegno sono le relazioni industriali nel quadro delle normative europee. Ci troveremo di fronte al solito schema: partire dalle richieste che l’Europa affaccia ai paesi membri per arrivare a una posizione opposta. L’Europa raccomanda il rafforzamento delle prassi negoziali; l’impianto concettuale che verrà proposto in una parte delle relazioni, per quello che è dato sapere, si potrebbe così sintetizzare: siccome la competizione si fa nel mercato globale, e i paesi più aggressivi, Stati Uniti e Giappone, godono di due condizioni – poca sindacalizzazione e poca contrattazione – per essere rispettosi delle indicazioni dell’Europa – qui c’è il salto logico più clamoroso – e per recuperare capacità competitiva, non potendo nell’immediato ridurre le dimensioni del sindacato, visto che ci sono ancora leggi che consentono la libera adesione, allora riduciamo gli effetti, le occasioni e l’efficacia della contrattazione. 

Per cui si riproporrà l’idea di un solo livello contrattuale con un’ampia gamma di scelte che dovrebbe comprendere addirittura un’ipotesi di scelta individuale delle persone, se accettare cioè gli effetti della contrattazione collettiva oppure regolare le proprie condizioni attraverso la contrattazione individuale. Non vi sfugga il completamento di una parte della filosofia del Libro bianco, quella che portava a tracciare un sistema contrattuale.Tutto ciò non c’è nella delega perché non è materia della quale si debba occupare il Parlamento, ma Confindustria dirà la sua. 

Ora vi rendete conto di come, nello schema che abbiamo rifiutato – un confronto con le organizzazioni imprenditoriali che comprenda anche il tema dei licenziamenti – uno degli aspetti "marginali" della discussione di ieri sera, tra chi ha acconsentito a quell’impianto e il governo, era su quando si discuterà dell’articolo 10 della delega (quello che contiene le modifiche all’articolo 18) e su questo le scuole di pensiero sono divise: Confindustria dice "subito", Cisl e Uil dicono "all’ultimo"; però si discute. E anche una posizione contraria al merito, in ogni caso avrà portato – che si consumi all’inizio o alla fine – a una condizione di quadro che potrebbe poi anche avere come corollario atti concreti convenuti, di inevitabile arretramento rispetto alle condizioni attuali, su un tema che abbiamo considerato unitariamente non negoziabile.

Aggiungete che l’interlocutore forte di questo rapporto mirato all’avviso comune, e cioè Confindustria, domani rilancia. E agli interlocutori sindacali prospetta una modifica dell’impianto contrattuale a loro totale vistoso danno. Non c’è da sorprendersi che rilanci: quando si aprono spazi come quelli che si sono oggettivamente aperti nelle ore passate, si finisce per subire, nei tempi e nel merito degli argomenti da affrontare, l'iniziativa della controparte. Cisl e Uil avranno di fronte un interlocutore particolarmente vorace che non si limiterà a riproporre le sue tesi sul mercato del lavoro e sui diritti ma rilancerà, in pari tempo seppure in una sede distinta, le sue tesi sulla contrattazione collettiva. In sostanza si sta realizzando lo scenario che avevamo temuto e che in parte eravamo riusciti a spostare in avanti, a rallentare. 

La sostanza delle cose che vi ho descritto è la messa in discussione del ruolo, delle funzioni e dell’efficacia dell’azione collettiva. Essa parte dall’aggressione ai diritti delle persone – non dimentichiamolo, è l’argomento che dobbiamo utilizzare sempre quando parliamo dell’articolo 18: non c’è lì, in esplicito, un attacco al sindacato; l’attacco è pesantissimo alle persone –; in una seconda fase il venir meno di una serie di protezioni o di condizioni acquisite può cambiare il comportamento delle persone e i loro rapporti collettivi, e dunque mettere in discussione il sistema della rappresentanza. 

Per questo è indispensabile, come ci siamo detti in tempi recenti in una buona parte della nostra discussione congressuale, una nostra risposta che sia in grado di contrastare tutte le intenzioni che sono in campo e, dall’altro lato, di rilanciare su argomenti di merito irrisolti che per noi sono particolarmente delicati.

Il primo problema è quello di rendere evidenti ma anche efficaci nella comunicazione le nostre ragioni alle lavoratrici e ai lavoratori. Lo schema proposto ieri è: una parte del sindacato è dialogante, una parte è arroccata. E l’arroccamento è dato da ragioni politiche e non sindacali (non l’hanno detto ieri ma questo sarà,il ritornello di oggi e di domani).

Questa propaganda sarà molto insistente e diffusa – d’altro canto l’orientamento di molti organi d’informazione è deciso da signori che ci sono oggettivamente ostili –: perché non produca danni noi non abbiamo che una sola strada, faticosa ma da percorrere per intero e rapidamente, che è quella del rapporto con le persone.

Dobbiamo mettere in campo una campagna straordinaria di riunioni degli organismi dirigenti e poi di attivi tra gli iscritti; dove è possibile coinvolgendo, senza forzare le regole unitarie, i lavoratori. Il centro di questa campagna deve essere il territorio, per ragioni di efficacia e di rapidità: perché ci consente di avere sia gli attivi che i pensionati. 

A questa campagna debbono partecipare tutti i dirigenti nazionali di categoria, in modo tale che sia esplicito anche nei comportamenti che la Cgil sta in campo tutta insieme: un’altra delle iniziative sistematiche che dobbiamo mettere in preventivo da parte di chi ha opinioni diverse dalla nostra sarà infatti quella di dividerci; lo sforzo che invece dobbiamo compiere noi è quello di unire. 

Questa campagna straordinaria dovrà avere come sostanza da un lato il rafforzamento di nostre proposte di merito e dall’altro l’attuazione di iniziative di lotta, anche nel territorio, promosse nell’arco di tempo che prendiamo a riferimento per questa nostra prima risposta. Le iniziative di lotta devono essere traguardate a un’efficacia anche esterna: i presìdi, il coinvolgimento della cittadinanza e della popolazione attorno a noi; ovviamente ancor prima quello dei lavoratori che possono avere opinioni diverse da quelle della Cgil. In modo tale che cresca uno sforzo per costruire maggior consenso attorno alla nostra posizione e una mobilitazione che, attraverso la lotta, impegni già in una fase crescente i lavoratori.

Poi dobbiamo agire sulle contraddizioni del governo, che non sono poche. Su alcuni temi, nient’affatto marginali, si sono aperte o si possono aprire fratture tra le affermazioni e i comportamenti: ci sarà oggi l’incontro per la scuola, io non sono convinto che siano in grado di corrispondere alle richieste che sono state avanzate dalla categoria. Io penso che le nostre iniziative per la scuola debbano avere, qualunque siano le risposte che verranno date oggi, come sostanza non soltanto il rispetto, come pure chiederemo per il pubblico impiego, degli accordi pattuiti. Perché c’è il tentativo di trasformare quegli accordi, com’è necessario tecnicamente, in emendamenti che non sono coerenti con gli accordi e dunque tornare indietro. Nello specifico della scuola dobbiamo contrastare contemporaneamente i tentativi, se dovessero essere confermati, di mettere in discussione le intese sottoscritte in precedenza, con le risorse previste, ma ancor prima il cuore di quella che la Moratti chiama riforma e che per noi è semplicemente un mutamento degli assetti della scuola che ci riporta indietro di tanto tempo. Con uno sforzo da fare insieme, categoria e confederazione, per coinvolgere non solo i lavoratori della scuola ma anche le famiglie. 

Analogamente dobbiamo comportarci per il Mezzogiorno. Sapendo che qui siamo partiti da condizioni unitarie e che con tutta probabilità è ancora possibile mantenerle. 

Dobbiamo agire nelle contraddizioni del governo ma anche in quelle che possono avere Cisl e Uil a scegliere una strada diversa da quella che avevano convenuto con noi.

Poi bisogna rendere immediatamente visibili le posizioni della Cgil sui temi che sono oggetto del loro confronto. Una sorta di esemplificazione del nostro progetto rivendicativo. 

Su quei temi noi non dobbiamo improvvisare nulla; anche perché ci sono materie che abbiamo più volte affrontato, senza esplicitare fino in fondo le nostre posizioni perché avevamo sempre sperato di poter avere una sede di discussione unitaria, e dunque di promuovere alternative al libro bianco insieme agli altri; ma noi abbiamo posizioni nette su ciascuno di quei capitoli. 

A questo punto, avendo scelto loro una strada diversa, dobbiamo agire in modo che sia esplicito quale è la nostra proposta di ammortizzatori sociali connessi con la pratica della formazione; la differenza peraltro non è di poco conto: il governo immagina una riforma senza costi; noi sappiamo che una riforma efficace, che tiene assieme il cambiamento di una serie di strumenti e l’intreccio, soprattutto per la parte più esposta e più debole dei lavoratori, con la formazione, ha costi progressivi e rilevanti: li abbiamo stimati nell’ordine, a regime, di seimila miliardi.

Analogamente dobbiamo fare per tutto ciò che riguarda l’estensione delle tutele e delle politiche sociali, come temi distinti dagli ammortizzatori. Poi sappiamo che per una tipologia di persone che vogliamo rappresentare ci sono degli intrecci oggettivi: va da sé che se vogliamo avere una politica che estenda la cittadinanza coinvolgendo i collaboratori coordinati e continuativi, il problema della formazione nei periodi di vuoto della loro attività è risolutivo. La formazione è uno strumento di rafforzamento delle tutele e contemporaneamente di accrescimento della professionalità delle persone. È evidente che su quel terreno si determina un intreccio tra la tutela e l’uso dello strumento principale. Io credo però che sia utile tenerli distinti, presentando contemporaneamente le nostre proposte.

Così come dobbiamo esplicitare quali sono i nostri orientamenti per estendere e modulare le tutele, ma in primo luogo i diritti, per le persone che oggi ne sono prive: per i collaboratori coordinati e continuativi il merito è quello che proponemmo nella discussione in Parlamento per integrare e modificare il testo della Smuraglia, che poi venne lasciata cadere. Penso che sia necessario rendere esplicita questa modulazione, non improvvisando ma partendo dall’elaborazione precedente che già era stata oggetto di approfondimento. 

Queste cose vanno messe insieme, tenendole distinte ma presentandole insieme, perché possono rappresentare così la sostanza di quello che si potrebbe chiamare una carta dei diritti che copre l’intero mondo del lavoro, partendo dal presupposto che abbiamo confermato ieri nel rapporto con il governo: lo Statuto dei lavoratori non si tocca; parliamo dell’estensione a chi non ha diritti della sostanza, da un lato, dello Statuto, dall’altro della legge 108, che regola i diritti nelle imprese minori. Non vi sfugga che, riguardo alla 108, le imprese datoriali hanno chiesto al governo, immagino lo confermeranno nella trattativa, di modificare peggiorandola la condizione normativa di adesso.

Dunque verso questa platea di persone, che rappresentano per noi una priorità – parlo dei collaboratori coordinati e continuativi, che non hanno né i diritti di chi sta sopra la soglia dei 15 lavoratori, né quelli di chi sta sotto quella soglia – va esplicitata la nostra ipotesi, che è quella che ho ricordato prima. 

Se poi serve aggiungere un argomento di polemica pretestuosa, esattamente come quella che fanno loro, si potrebbe chiedere al ministro del Welfare di farsi promotore, invece di dire ciò che dice in materia, di una proposta di legge, per quanto riguarda l’articolo 18, che ne preveda l’estensione anche ai partiti, alle associazioni imprenditoriali e al sindacato, esentando solo le associazioni di volontariato. Sappiamo che si tratta di argomenti miserrimi ma nei giorni scorsi ci sono tornati con insistenza. La legge del 1990 non l’abbiamo chiesta noi: l’hanno fatta i partiti per se stessi; siccome non era opportuno restare soli, hanno coinvolto altri. A noi non interessa.

Bisogna poi rilanciare i temi della previdenza e del fisco. In questo aggrovigliamento di tempi e di materie succede una cosa curiosa: rallenta la discussione sulla delega che riguarda il mercato del lavoro al Senato; quelle sul fisco e sulla previdenza, che sono in discussione alla Camera, vanno avanti. È così possibile che, mentre gli altri discuteranno di mercato del lavoro, ci si trovi, in un arco di tempo relativamente breve, di fronte a un’accelerazione e a una forzatura sui temi della previdenza e del fisco.

La decontribuzione, così com’è stata scritta, produce gli effetti disastrosi di cui abbiamo già più volte parlato. È un danno enorme per i giovani, perché con il sistema vigente non avranno alla fine la pensione prevista dalla riforma. È un danno ancora più grande per gli anziani: se cala il monte dei contributi complessivi, per i ragazzi il disastro ci sarà tra quarant’anni; per gli altri – quelli che sono in pensione, quelli che più o meno hanno l’età per andarci e che all’epoca avevano più di 18 anni di contributi versati – succederà prima. Per loro il modello è quello retributivo, a ripartizione, che regge nei valori e nei rendimenti attuali, solo se il monte dei contributi ai quali si attinge cresce. Se invece diminuisce, come ha detto ripetutamente il presidente dell’Inps, il disastro è garantito, e in un arco di tempo breve: parliamo di 5-7 anni. 

Noi dobbiamo rilanciare i temi della previdenza e del fisco perché per tante ragioni, anche mediatiche, l’articolo 18 è diventato in qualche modo simbolico ma rischia di assorbire il resto. Ma il resto per noi è importante. Il tema della previdenza e quello del fisco sono egualmente vitali.

Occorre dunque una discussione tra i lavoratori, gli iscritti e il quadro dirigente per fare crescere consenso intorno a questa somma di scelte che sono l’architrave delle nostre proposte.

Nel contempo non dimenticheremo anche altri temi, che non sono connessi con questi ma che sono altrettanto delicati. C’è un’accelerazione della discussione in Parlamento sulla legge Bossi-Fini, con l’obiettivo di arrivare, si presume, a una conclusione prima del congresso di An. Il nostro giudizio è quello che abbiamo già espresso. Non siamo in grado ad oggi di fare la manifestazione unitaria che avevamo programmato per indisponibilità degli altri; questo però non deve fare venir meno l’attenzione che sull’argomento avevamo costruito. Io credo che tutte le iniziative unitarie che sono in campo debbano essere difese strenuamente da noi, proprio perché siamo in una fase di oggettiva difficoltà unitaria. Laddove ciò non è possibile, perché manca l’oggetto del contendere, la Cgil deve cercare di far vivere le sue scelte con determinazione e con gli strumenti disponibili. 

L’iniziativa politica e di lotta va dunque distribuita su un arco temporale che sia, da un lato, utile alla sua riuscita e, dall’altro, efficace a condizionare il merito delle intenzioni del governo. Ho detto che, come fase iniziale, dobbiamo provvedere a questa discussione diffusa, la più capillare possibile, accompagnata da iniziative di lotta che devono essere decise localmente. E che devono avere il carattere non dello sciopero di un’ora che finisce in fabbrica, utile ma insufficiente: è meglio se in quell’ora si riesce a presidiare per 35 minuti la Prefettura e distribuire a chi passa un pezzo di carta in cui viene riassunta la nostra posizione – meglio ancora se quel pezzo di carta è scritto come si conviene. 

Poi dobbiamo, in sequenza, garantire e caratterizzare la nostra presenza a Barcellona nella manifestazione che si farà contemporaneamente al vertice europeo: oggi abbiamo una ragione in più, anche se già quella di prima bastava. Non deve sfuggire a nessuno qual è l’oggetto della contesa di Barcellona: da parte dei governi di centrodestra – con un contributo, che poteva essere risparmiato, del premier inglese – c’è la messa in discussione delle scelte fatte a Lisbona. La società della conoscenza e il lavoro che ne dovrebbe discendere: la valorizzazione del sapere, della formazione, in qualche modo la riedizione e la riproposizione attualizzata dell’impianto di Jacques Delors, tutto ciò viene attaccato e c’è un tentativo di spostare l’asse politico – tralasciamo il dettaglio: anche nel testo Blair-Berlusconi il merito è abbastanza irrilevante – da un’idea dello sviluppo alto, che ha come fondamento la conoscenza e il sapere, alla flessibilità come motore di tutti i processi di crescita e di sviluppo. Barcellona è importante – per la Ces e per noi – proprio per difendere un impianto che avevamo contribuito a costruire.

Poi abbiamo bisogno di una grande risposta che coinvolga il numero più alto di persone possibile: bisogna mettere in campo una grande manifestazione nazionale da farsi a Roma in una giornata di sabato – l’ipotesi che prospettiamo è il 23 marzo – per avere, in questo processo di crescita della consapevolezza e della mobilitazione, un passaggio con un peso rilevante sul piano politico. Dobbiamo mantenere separata la manifestazione nazionale dalla seconda iniziativa che dobbiamo prendere, lo sciopero generale, perché abbiamo bisogno di un risultato politico rilevante, visibile: le persone che stanno in campo – in questo caso sarebbe più giusto dire: in piazza – a sostenere un progetto; in una fase successiva, ma non lontana, occorre uno sciopero generale di otto ore, promosso da noi, che dovrebbe tenersi il 5 aprile.

La scelta di questa ultima data è funzionale a due obiettivi. Il primo, oggettivo, è quello di star fuori dai periodi di moratoria previsti dalla legge per le iniziative: c’è di mezzo Pasqua. Il secondo è quello di traguardare la collocazione dello sciopero anche al presumibile confronto in atto, ai due mesi della discussione che si sono impegnati a fare. In modo tale che ci sia una grande partecipazione di popolo il 23 marzo, e una grande partecipazione di lavoratrici e di lavoratori il 5 aprile, per fermare quello che occorre fermare quando si decide di utilizzare un’arma forte come oggettivamente è lo sciopero generale.

In conclusione della discussione di ieri sera la Uil ha chiesto, a noi e alla Cisl, una segreteria unitaria per lunedì. Sono convinto che sia stato giusto accedere questa richiesta, anche se poi non sono mancati atteggiamenti contraddittori: subito dopo, scesi in conferenza stampa, i dirigenti della Uil hanno annunciato una serie di iniziative autonome, come quella del presidio di tante piazze il 16 marzo. Al dunque, infatti, la Cisl ha trasformato i suoi attivi interregionali in manifestazioni; la Uil ha annunciato queste iniziative. Noi, fin qui, ci siamo limitati a esplicitare nel dibattito congressuale degli orientamenti ma non abbiamo dato efficacia a nessuno di essi. Io credo sia giusto partecipare a questa riunione delle segreterie, se sarà confermata, portando lì la nostra valutazione e la nostra proposta complessiva. Per questo credo sia necessario un vostro mandato alla segreteria, perché noi ci si possa muovere nei rapporti unitari e nella discussione, se sarà confermata, negli ambiti che il comitato direttivo deve indicare. In modo tale cioè che si possa, se ci sono le condizioni – è più un esercizio di scuola che un’eventualità concreta – collocare diversamente le date o le modalità, ma certo non venir meno alla manifestazione e allo sciopero. Modulare le iniziative, insomma, se dovesse maturare qualcosa oggi non prevedibile nei rapporti interni alle altre confederazioni, e quindi la ricostruzione di un rapporto unitario.

Abbiamo di fronte un quadro difficilissimo. Siamo a un passaggio molto stretto e drammatico. L’insieme di cose che vi ho proposto è tra i più complicati che si possano immaginare e cercare di realizzare. Noi siamo chiamati a ogni sforzo possibile per mantenere, dove esistono, condizioni unitarie; per promuoverne dove è possibile, dicevo prima della scuola; e insieme a non rinunciare, per efficacia e coerenza, alla nostra iniziativa in virtù della posizione che abbiamo definito anche nel congresso nazionale. Dunque, un quadro difficilissimo e appuntamenti che possono avere anche il carattere drammatico che si determina quando grandi organizzazioni, su temi delicatissimi come appunto i diritti delle persone, finiscono con il dividersi. 

Per questo è indispensabile avere atteggiamenti determinati: abbiamo fiducia nelle nostre forze e il congresso ha confermato che questa fiducia è diffusa, nel gruppo dirigente e tra i nostri iscritti. Dobbiamo avere molta determinazione nell’agire e anche molta pacatezza. Saremo oggetto non soltanto di pesanti critiche, ma temo anche di aggressioni verbali volgari. Lo dico perché è già successo: le reazioni sono state sgangherate, gli insulti e le volgarità hanno cominciato a sprecarsi, ma siamo solo all’inizio. E saranno attenzioni speciose rivolte a ciascuno di noi, ciascuno per la sua parte: a me ne toccheranno probabilmente più che a qualcuno di voi ma cercherò di dividerne fraternamente il peso con tutti. Ci vuole grande senso di responsabilità; consapevolezza che siamo a un passaggio drammatico; ma anche molta fermezza. Il consenso che abbiamo incontrato in questi mesi nasce anche dal fatto che al dunque siamo stati coerenti con le cose dette; che abbiamo mediato là dove era possibile, necessario e utile, senza contravvenire ai criteri di fondo della nostra impostazione. Dobbiamo continuare a fare così.