ACQUAVIVA D'ARAGONA - dei duchi di Atri, nacque a Pietradefusi nel 1500, fu gesuita.
POPOLDO D'ARAGONA - suo nipote, anch'egli membro della compagnia dei Gesuiti, fu missionario in oriente e subì il martirio. Per volere di Leone XIII è in odore di santità.
MATTEO ACQUAVIVA - partecipò alla storica disfida di Barletta il 28 aprile del1503
NICOLO' COSCIA- Cardinale.
PIETRO IORIO - Arcivescovo di Taranto.
DIONISIO PASCUCCI - Insigne giuriconsulto.
CIRO FUSELLA o FRISELLA - Medico.
Padre LUDOVICO ACERNESE - Francescano
GIOVANNI COLANTUONI - 1° podestà
GIOVANNI CILLO - magistrato
ELIO DE NISCO - chirurgo , medico condotto
GIUSEPPE SANGIUOLO - chirurgo , ufficiale sanitario
don GIUSEPPE CATALDO - arciprete
DANTE TROISI - scrittore
don Gerardo De Corso - nato a S.Marco dei Cavoti (Bn) il 22 gennaio 1956, è stato ordinato sacerdote il 24/4/81 Ha conseguito il diploma di Archivista presso la scuola di Archivista -Paleografia e Diplomatica dell'Archivio Segreto Vaticano del 1982 e il titolo Accademico di Baccalaureato in Teologia presso il Pontificio Ateneo Antonianum nel 1993. Dopo essere stato vice parroco nella Parrocchia di S.Modesto di (BN) (1980-1984),Parroco in Arpaise(1984-1987) è attualmente parroco in Pietradefusi (AV). E' insegnante di Religione nella S.M.S. "F.Torre" di Benevento ed è asstente Scout AGESCI della Diocesi di Benevento. E' anche impegnato nel sociale con Volontariato della Misericordia.
NICOLO' COSCIA - (1682-1755) - Cardinale.
Figura molto discussa dei suoi tempi, ha subito certamente l’ostilità di ambienti chiusi quali quelli della Curia Beneventana e Romana; la prima non perdonava ad un pretuncolo di paese di essere nelle grazie del cardinale e la seconda che si vide minacciata nei vari posti di potere, da una corte provinciale quale quella dei “beneventani”. Molte furono le cattive azioni che si dissero sul Coscia nei suoi anni , ma noi dobbiamo riconoscergli che per il suo paese natio fece opere tali da lasciarne un’impronta benevola e duratura nei tempi successivi.
Riportiamo
di seguito quanto scrive di lui
“Il Dizionario Biografico degli Italiani” ed. Enciclopedia Italiana
Treccani.
Nacque
nel 1681 da Vincenzo e Gerolama (Gerolina) Gemma a Pietradefusi (Avellino), dove
fu battezzato il 25 gennaio con i nomi di Nicola, Paolo e Andrea .
Non si sa che mestiere esercitasse il padre, di cui di volta in volta si disse che aveva la funzione “di governare la terra libera di Pietradefusi”, che fosse barbiere, e più frequentemente che fosse invece un pittore non affermato; benché non sia mancato chi abbia sostenuto, nel periodo della sua disgrazia, che i1 C. fosse bastardo, facendo anche il nome del padre naturale, un certo arciprete lannillo. Ad ogni modo quando Vincenzo testò il 14 ottobre 1714, escludendo dall’eredità le figlie femmine, aveva qualche bene da lasciare ai tre figli maschi e quando morì, nel I725, l'arcivescovo di Fermo, Alessandro Borgia, lo definì conte.
Dal borgo natio lo trasse, ancora ragazzo, l'allora arcivescovo di Benevento, V.M. Orsini, che vi si era recato per una delle sue visite apostoliche. Avviato alla vita ecclesiastica, il C. ricevette la prima tonsura nel maggio del 1696. Da allora la sua carriera procedette con rapidità e senza interruzioni, ne mai più, finché visse, gli mancò l'appoggio, la protezione e l'amore dell'Orsini, anche dopo la sua elevazione al papato. Dal 25 agosto 1701 al 20 ottobre 1703 resse il mansionariato della metropolitana di Benevento. Da quest'ultima data al 13 apr. 1708 il C., divenuto prete il 28 marzo 1705, fu canonico della basilica di S. Bartolomeo, divenendo invece dall'aprile 1708 al gennaio 1724 canonico (e poi anche arciprete) della metropolitana. Ne1 frattempo, sempre dall'aprile del 1708 al 27 febbraio 1716 era stato cancelliere della curia arcivescovile e successivamente maestro di camera, soprintendente alle fabbriche e segretario dell'Orsini. Il 30 marzo del 1715 egli si era addottorato in utroque alla Sapienza di Roma. I giudizi su queste sue attività positivi o negativi che siano, sono tutti posteriori alla morte di Benedetto XIII. Di quest'ultimo il C. fu conclavista nel conclave del 1721 e in quello del 1724, che vide il suo innalzamento al soglio. Quando si verificò quest'evento il papa non solo mantenne l'arcivescovato di Benevento, ma profondamente diffidente del1'ambiente della Curia, condusse con se nell'Urbe buona parte della sua corte beneventana. Quale che fosse stato il comportamento del C. a Benevento, questo era stato meno clamorosamente stridente; rispetto all'ambiente che lo circondava, di quanto invece fu a Roma. Egli vendette cariche, accettò e sollecitò regali, ma quello che fu più violentemente offensivo nelle sue azioni e più in contrasto con la dignità cardinalizia (cui pervenne presto) fu la rozzezza con cui compì questi misfatti. In ogni modo egli, appena eletto Benedetto XIII, ottenne il 7 giugno 1724 la nomina a segretario dei Memoriali, carica quanto mai delicata, che lo teneva in stretto contatto con il papa, riservata altre volte al cardinal nipote. Né questo può meravigliare, poiché l'affetto dell'Orsini per il C. aveva dimostrato di essere quanto mai tenace e acritico. Il 26 giugno il C, accedeva alla dignità vescovile, essendo nominato presule di Traianopoli in partibus ed era consacrato dallo stesso pontefice il 23 luglio. Il 29 gennaio 1725 egli divenne assistente al soglio pontificio. Quando nel concistoro dell' 11 giugno il papa comunicò la sua intenzione di elevarlo al cardinalato, si era già formata un'opposizione contro di lui e nove cardinali dettero voto contrario all'elezione. Tuttavia egli ottenne il cappello e il 23 luglio gli fu assegnato il titolo di S.Maria in Domnica. Il 5 settembre del medesimo anno il C. veniva dal pontefice nominato coadiutore dell' arcidiocesi beneventana con diritto di successione ed egli vi creava vicario il fratello Filippo, vescovo di Targa. Il 17 dicembre egli diveniva protettore dell'Ordine dei frati minori conventuali, come poi lo divenne dei gerosolimitani. Nel gennaio del 1726 era chiamato a far parte della Congregazione dell' Inquisizione e poco appresso gli veniva affidato dal papa l'incarico di compiere una visita apostolica nell' arcidiocesi di cui era coadiutore, che egli portò a termine dal febbraio al maggio, recandosi probabilmente nell'occasione anche a Napoli. Non era il C. il solo beneventano che stava presso il papa. Si era venuta a formare un'intera cosca, da tutti indicata come “ i beneventani “, “de quali”, dice il Valesio, “ ve ne sono gran copia infinita” . (Scatassa, p. 112). Anche Montesquieu li chiamò così, sostenendo: “. ce sont les Beneventins qui dirigent sa [di Benedetto XIII] faiblesse, et, comme ils sont gens de néant, ils avancent le gens de néant et reculent ceux qui seroient à porte”, Si diceva che gia nell'agosto del 1725 il C, avesse accumulato 2.000.000 di scudi. In contrasto con l'ascetismo del pontefice egli aveva arredato doviziosamente i suoi appartamenti in Vaticano, spogliando per questo gli appartamenti riservati ai principi. Chi aveva sostenuto che ci si sarebbe liberati di lui rinviandolo a Benevento con una pensione di 100 pistole, aveva dovuto ricredersi, perché egli aveva saldamente mantenuto il suo posto accanto all'Orsini, che trattava con estrema familiarità, rivolgendoglisi in dialetto. Benché fosse difficile avvicinare il papa, superando le barriere che ponevano a questo scopo “ i beneventani", tuttavia qualcuno riusciva a denunciare al pontefice i sistemi del C. ma questo non serviva a scalzarlo dal suo cuore. Nel gennaio del 1727 si fornirono al papa le prove che il C. si era indebitamente appropriato di 11000 scudi e si ottenne soltanto che Benedetto XIII glieli donasse con atto ufficiale. Questa voluta cecità del papa faceva sì che il C. giungesse ad appellarsi a lui se qualcuno, cui aveva venduto una carica o un benefizio, provava a non mantenere le promesse fatte per ottenerlo. Esiste
una tradizione storiografica locale che
prende le difese del C, e che lo considera vittima di una reazione contro Benedetto
XIII e i regnicoli, ma in genere tutta la storiografia è decisamente contro
di lui, che considera l'artefice di tutti i mali che afflissero il pontificato
di Benedetto XIII e il responsabile di ogni errore di quest'ultimo. Mentre si
deve considerare vano il patetico tentativo della prima, non si può accettare
però neanche l'atteggiamento della seconda, soltanto preoccupata della buona
fama di Benedetto
XIII.
AI C. infatti questa tradizione attribuisce tre tipi di malefatte, Di aver venduto cariche e benefizi; e questo fu sufficientemente provato nel processo cui egli fu sottoposto, nella cosa avrebbe dovuto considerarsi altamente scandalosa, visto che era avvenuta frequentemente gia in precedenza. Di aver poi depauperato le casse dell'erario e di aver condotto al passivo il bilancio dello Stato; ora, non solo questa accusa non è sufficientemente provata, ma in questo ambito sicuramente le sue responsabilità furono limitate, perché Benedetto XIII seguiva una politica economica e finanziaria ben precisa; anche se il maggiordomo C.Cibo condusse una lunga lotta, che fini per perdere, contro il C, per arrivare a una diminuzione delle spese del palazzo apostolico e anche se indubbiamente le attività scorrette del C. gravarono in qualche modo anche sulla Camera. La terza responsabilità che si attribuisce al C. è quella di errori politici commessi da Benedetto XIII, con riferimento in special modo alla questione del Tribunale della monarchia sicula e a quella sabauda, per le quali i veri e propri negoziatori si avvalsero dell'appoggio del C., nella misura in cui questo era necessario a chiunque volesse ottenere qualcosa dal papa.
Il
21 luglio I725 Benedetto
XIII aveva emanato un breve per
richiamare i vescovi siciliani all'applicazione della bolla con cui Clemente XI
aveva abolito il Tribunale della monarchia. Con un decreto del 5 dicembre Carlo
VI aveva reagito a questo breve, minacciosamente. Il papa fu a questo punto
convinto a ricercare un compromesso con l' aiuto e i consigli, oltre che del
cardinale A. Cienfuegos, anche del C., del cardinale F. Paolucci, segretario di
Stato, e del cardinale N. Giudice, protettore della Sicilia. A costoro fu
affiancato l'agente imperiale Pietro Perrelli, figlio di Domenico, amico del C.,
giudicato dal Giannone " uomo idiota e senza lettere ", che invece
rivelò molta abilità. Durante il viaggio che Benedetto XIII compi a Benevento
dal marzo al maggio 1727, egli, incitato sembra dal C. e dal Perrelli,
scrisse ai vescovi siciliani una lettera che li invitava ad evitare urti
con i funzionari civili, perché si era alla ricerca di un accordo. Anzi il 28
aprile il C. scrisse da Benevento a N. M. Lercari, nuovo segretario di Stato e
creatura sua, affinché scrivesse di nuovo ai vescovi siciliani accludendo
nientedimeno una lettera imperiale. Al suo ritorno a Roma il papa fu affrontato
dagli zelanti, che gli rimproveravano l'inopportunità della lettera ai vescovi
siciliani ed il pontefice non seppe far altro che scrivere il 21 giugno una
seconda lettera ai vescovi che sconfessava la prima. Tuttavia la guerra delle
missive papali non finì lì, perché il Perrelli, pare con l'aiuto del C.,
riuscì ad ottenere dal papa un'ulteriore lettera, che annullando la seconda,
ripristinava la prima. Il testo del concordato che fu sottoposto nel marzo del
1728 ad una congregazione di cui faceva parte il C., era, si badi bene, il
risultato di lunghe contrattazioni portate avanti dal cardinale p, Lambertini,
da Celestino Galiani, dal Perrelli e dal cardinale A. Cienfuegos. La
responsabilità del C. quindi per il testo della bolla Fideli emanata il 30
agosto 1728 dal pontefice, che concedendo al sovrano l'istituzione di un giudice
supremo dava modo a Carlo VI di istituire nuovamente il tribunale soppresso
dalla bolla di Clemente XI, si limita in definitiva a non aver ostacolato le
soluzioni prospettate da altri. Tanto è vero che uno dei più accaniti
accusatori del C., il Pastor, sorvolando sul fatto che l'unico degli artefici
non regnicoli o imperiali
dell'accordo fosse il Lambertini, non può in fondo che incolpare il C.
di aver conosciuto il testo dell'accordo prima che fosse ufficialmente
sottoposto all' esame della congregazione.
Le
controversie che avevano opposto Vittorio Amedeo II a Clemente XI vertevano sul
regio patronato che il Savoia pretendeva sopra tutte le chiese dei suoi Stati,
sulla lesa immunità ecclesiastica, sul dominio diretto di località in Piemonte
e in Monferrato, che il papa sosteneva essere feudi della Chiesa.
Angustiato
soprattutto perché parecchi
vescovati erano privi di presule, Benedetto XIII volle avviare una trattativa
per cercare di risolvere le controversie e inviò presso il Savoia fra’
Tommaso da Spoleto. Vittorio Amedeo II mandò invece a Roma Vincenzo Ferreri,
marchese d'Ormea, che da ottimo diplomatico non curò soltanto la validità
delle argomentazioni da sottoporre al papa, ma soprattutto le mosse psicologiche
da porre in atto per conquistarselo. Nel giugno 1725 , riferì a Torino
di aver trovato nel Coscia uno strumento eccellente per i suoi scopi
(Pastor, XV p, 524). Oltre a questo, pare
che il C., dopo il riconoscimento di Vittorio Amedeo II come re di
Sardegna del 9 dicembre I726, sia intervenuto per far si che fosse il cardinale
Lambertini a partecipare alle trattative che portarono alla risoluzione delle
prime due controversie fra il Vaticano e il Savoia con la sottoscrizione dei
concordati del 24 marzo e del 29 maggio I727, che furono poi
invalidati nel 1731 da Clemente XII. Sembra che, come gli altri che si
erano adoperati per la conclusione della vertenza, anche il C, ricevesse una
ricompensa, ma è ignoto a quanto ammontasse.
Durante
il pontificato di Benedetto XIII
il C. compì parecchi viaggi nel Regno, a Benevento, dove si recò oltre
al 1726 e al 1727, come già si è detto, anche nel 1729 (trattenendosi nel
Regno fino a novembre) al seguito del papa che compì ivi una visita dal marzo
al giugno, e a Napoli dove fu almeno due volte, accoltovi con molta deferenza
dal viceré, cardinale M. F, d' Althan, che nel 1726 lo ospitò a palazzo reale
e che lo onorò quell'anno e in quello successivo, con pranzi ufficiali, Pare
anzi che egli aspirasse ad essere accolto nella nobiltà del
seggio di Nido, ma, dopo essere stato ascritto dal 1722 al patriziato
beneventano e nel medesimo 1727 a quello di
Viterbo, il C., che nel 1729 sarebbe stato
ascritto a quella di Ferrara, questa volta
non vi riuscì.
Nell'
estate del 1729, ammalatosi il papa, il
C. entrò nello stato d'animo che avrebbe dovuto di lì a poco assaporare fino
alla feccia e in grande agitazione cominciò ad
inviare “robbe e
pitture" a Benevento.
Morto effettivamente, il 21 febbraio 1730, Benedetto XIII, il C. ebbe immediatamente la prova dell'ostilità che lo circondava. Il camerlengo, cardinale A. Albani, impose che tutti i beneventani lasciassero il palazzo vaticano e il C., inviata la sua roba in casa dell'amico marchese Abbiati al Corso, riuscì a sottrarsi al popolo tumultuante che sostava in piazza S. Pietro, nascondendosi in una portantina per ammalati. Diffusasi però la notizia della sua permanenza in casa dell' Abbiati, il palazzo fu attaccato e furono infranti dei vetri dai dimostranti, cosicché il C. lasciò segretamente la città e riparò a Cisterna presso M. Caetani, duca di Sermoneta. Perché tutti gli aventi diritto potessero contribuire all'elezione del papa i cardinali capi d'Ordine scrissero il 27 febbraio 31 C. offrendogli ogni assistenza perché gli potesse entrare nel conc1ave, che ebbe inizio il 5 marzo, Nella lettera dei cardinali tra anche inserito il suggerimento che egli lasciasse il governo di Avignone.
Dopo
qualche esitazione e reiterate richieste di indumenti ed altri beni fatti
sigillare dai cardinali in Castel Sant' Angelo “sotto pretesto di
sicurezza”, il C. tornò a Roma, accompagnato dal Caetani, e prese alloggio
per alcuni giorni nel convento di S. Maria in Traspontina, entrando in conclave
il 4 aprile.
Si
erano però gia susseguiti due avvenimenti carichi di conseguenze per lui. Era
cioè arrivato ai cardinali riuniti un memoriale anonimo da Benevento contro il
C., che avrebbe dovuto divenire automaticamente arcivescovo della città. Nel
libello, che si diceva compilato a nome del clero e del popolo, della città e
diocesi di Benevento, si eponeva come negli ultimi anni fossero avvenuti ”
tanti e tanti abbusi e scandali e empietà… stupri... adulteri… sodomie e
ogni più sfrenata lascivia… usure di ogni sorte...omicidi…. infanticidi…,
falsificazione di monete... furti e rapine”. Si chiedeva perciò che nella
città fosse inviato “un
autorevole ministro", che indagasse su quanto era avvenuto, affinché il
futuro pontefice vi potesse eleggere un degno arcivescovo senza permettere che
questi fosse il C. , causa principale e motore di tutti
i mal i suddetti ". Cosicché prima della fine del mese di marzo i
cardinali avevano inviato come commissario a Benevento monsignor Filippo
Buondelmonte, Intanto il 4 aprile i canonici di Benevento, avuta notizia
dell'invio del memoriale, si affrettavano a scrivere al C" sconfessando le
accuse. Così facevano anche la nobiltà e il popolo. In effetti c’era a
Benevento un partito che appoggiava il C. e un collaboratore del Buondelmonte
confessava il 15 aprile: “ Qui non si sono ritrovate le cose facili come si
credevano. Li delitti, gli aggravi e le violenze ben si comprende che vi sono,
ma non così piano non lo scuoprimento “, Pur avendo dovuto rinunciare per le
pressioni dei cardinali, il I0 aprile, al governo di Avignone, il C. asseriva di
non essere odiato, ma amato e di essere piuttosto vittima di calunnie. Ma non
era convincente e scoppiò all'interno dtl conclave uno scandalo che dette adito
ad un vero e proprio caso, quando il 17 aprile il C. ebbe un voto. Com'è noto,
il 12 luglio fu eletto papa Lorenzo
Corsini, che prese il nome di Clemente XII. Senza por tempo in mezzo questi,
nell' agosto, istituì quattro congregazioni, tutte in un modo o nell'altro
dirette a riparare quanto operato da o carpito a Benedetto XIII. La prima detta
“ De nonnullisn” formata, in un primo momento da cinque cardinali, ai quali
fu aggiunto prima il cardinal nepote, Neri Corsini e poi altri quattro
porporati, doveva procedere ed arrivare quindi a rimedi legali contro quelle
cose surrettiziamente estorte alla rettitudine e alla santa intenzione del
defunto pontefice, doveva cioè raccogliere le prove e incriminare i cosiddetti
“ beneventani “, primo fra tutti il Coscia.
L'avviamento
formale del processo contro di lui fu decretato da un motu proprio del I°
dicembre, mentre il C. cercava di mettersi sotto la protezione imperiale facendo
innalzare le insegne di Carlo VI sul suo palazzo e chiedendo al pontefice il
permesso di allontanarsi da Roma per recarsi, per ragioni di salute, nel Regno.
Otteneva
soltanto l'autorizzazione a portarsi in qualsiasi località dello Stato della
Chiesa. Mentre il papa inviava di nuovo monsignor Buondelmonte con il medesimo
incarico a Benevento, il 20 dicembre il C. riceveva dalla Congregazione
l'intimazione a rinunciare “ absque excambio " all'arcivescovato.E’ da
notare che l'istruzione del processo era
segreta; pertanto la possibilità di difendersi del C. era affidata a lettere
che egli scriveva al papa e che faceva stampare per diffonderle. In quella del
29 dicembre il C, contestava la legittimità dell'invio a Benevento di un
commissario, in quanto una qualsiasi ispezione nell'arcidiocesi doveva essere
affidata a lui stesso, che se ne riteneva presule, e nel caso che l'ispezione
fosse diretta proprio contro la sua persona - e sarebbe stato strano che essa
fosse stata avviata dalla presentazione di un memoriale anonimo - il
papa soltanto avrebbe potuto incaricarsi di condurla a termine. Altra
ingiustizia ed irregolarità era quella di aver inviato un vicario, Giovanni da
Nicastro, nell'arcidiocesi, quando ancora non erano state riconosciute le colpe
del presule. Anche ingiusto era sia che si trattenessero i suoi mobili e la sua
biblioteca ancora in Castello, sia che l'inquisizione si intromettesse
nell'istruzione del suo processo; egli infatti, sosteneva, non si era ingerito
in materie di Stato, né aveva operato contro la religione o la S, Sede o contro
il bene pubblico, anzi aveva sollecitato l'abolizione di gabelle. Seguivano alla
lettera altre testimonianze favorevoli al C., che cercava così di organizzare
la sua difesa. Si rese ben presto conto però
che non sarebbe riuscito a resistere alla volontà del pontefice e
obtorto collo rassegnò così la Chiesa di Benevento, il che provocò il
ringraziamento ufficiale al papa dei consoli della città (30 dicembre 1730) e
del capitolo metropolitano (13 gennaio 1731). Del resto le accuse contro il C.
si moltiplicavano. Cera stato almeno un altro memoriale, questa volta corredato
di molte firme, che però a detta dei sostenitori del C., erano state almeno in
parte estorte. Questi ultimi e dall'altra parte i denigratori mandavano a stampa
le loro testimonianze e le loro argomentazioni; i1 C. stesso pubblicava una
lettera in latino, seguita da una di Giuseppe Forziati, in cui egli protestava
ancora una volta per aver dovuto lasciare la Chiesa di Benevento “ nulla
praevia citatione, nulla habita audientia”. A Benevento all'annuncio della
rinuncia del C, all'arcivescovato, la folla si precipitò alla cattedrale e
impadronitasi del campanile, dopo aver suonato a morto le campane, le suonò a
stormo. Mentre le autorità ecclesiastiche incanalavano l' esultanza in
manifestazioni religiose, si sigillarono gli appartamenti del C. e le proprietà
che erano nel monastero di S. Vittorino. Anche nell'arcidiocesi, particolarmente
a Fragnitello, feudo del C. si ebbero manifestazioni ostili al cardinale. A
questo punto il timore del C. di perdere in breve termine la libertà divenne
certezza, per cui si decise ad abbandonare il suo palazzo “ai Cesarini” e la
città. Partì la sera del 31 marzo 1731 su un carrozzino insieme con il suo
maggiordomo, conte Cutiello da Montefuscoli, e due uomini a cavallo.
Segretamente attraversò lo Stato della Chiesa di posta in posta fino a
Terracina; di lì passò nel Regno e da Fondi scrisse al viceré, L, T, d'Harrach,
le ragioni che lo avevano indotto a lasciare Roma, chiedendo di essere ricevuto
a Napoli e ponendosi sotto la protezione imperiale. Giunse a Napoli in gran
segreto, tanto che il nunzio pontificio l'arcivescovo di Nicosia R. F. Simonetti,
non ne ebbe subito notizia e in seguito trovò difficili le indagini per
rintracciarlo, poiché si era “ tenuto del tutto occulto, senza parlare, né
farsi vedere da alcuno” .
La
reazione del papa non tardò a sopravvenire e il 24 aprile nelle Literae
executoriales della Congregazione " de nonnullis” era riportato il motu
proprio del pontefice del giorno prima, con cui si affermava che il C. era
incorso, secondo la costituzione di Innocenzo X. nella pena dell'interdetto e
del sequestro dei beni, a causa del suo allontanamento dallo Stato della Chiesa
senza il permesso del papa. La venuta del C. a Napoli provocò un incidente fra
le autorità pontificie e quella imperiale;
infatti il nunzio, incaricato da Roma di indagare su chi avesse aiutato e
trasportato il cardinale fin lì, provvide ad avviare le indagini senza curarsi
di ottenere il regio exequatur. Finirono così esiliati sette ecclesiastici.
Anzi, si fece di più fu esiliato anche il prete che aveva lasciato affiggere
alla porta della chiesa di Fragnitello il motu proprio papale. Il C. poteva
essere soddisfatto dell' appoggio ottenuto a Napoli, le cui autorità locali,
specie, parevano averne prese con decisione le difese. Egli sembrò rianimarsi,
tanto che “all'imbrunir dell'
aria” osava uscire in carrozza . “passeggiando per l'amena riviera di Chiaja”.
Tuttavia la gotta lo tormentava ed egli, desiderando strumentalizzare la
sua malattia, stampava il 16 settembre 1731, dopo una lettera al pontefice,
l'attestato di tre medici, che testimoniavano il suo cattivo stato di salute e
il suo bisogno di godere di aria buona. Benché il nunzio avesse ottenuto la
promessa che non sarebbe stata permessa ulteriormente la pubblicazione di simili
stampati apologetici, ne era uscito un altro il 15 settembre, a firma di G.
Forziati, che ribadiva il diritto del C., il cui fratello Filippo era intanto
stato arrestato, a difendersi e che protestava per l'avvenuta vendita dei mobili
e della biblioteca custoditi in Castel Sant' Angelo. La Lettera exeggetica
dell'abate Andrea Trabucchi, canonico del capitolo della metropolitana di
Benevento, del 5 ottobre, riassumeva quanto era avvenuto in Benevento dopo la
morte di Benedetto XIII e come, secondo i seguaci del C., la commissione guidata
dal Buondelmonte avesse agito scorrettamente, facendo “inique suggestioni,
replicate minacce... orribili carcerazioni... per incutere forte et veemente
terrore ne' testimoni ..”
Il
2 ottobre un motu proprio papale, che
era stato preceduto da vari monitori e dalle Literae inibitoriae del 21 agosto
da parte della Congregazione, proclamava la perdita da parte del C., che non era
rientrato nello Stato della Chiesa entro sei mesi, di
tutti i benefici. Il C., che nel settembre aveva mandato un emissario dal
nunzio, perché facesse sapere al papa che
nonostante le dicerie nella casa dove alloggiava non c' erano “donne di
conversazione” il 3 novembre protestò ufficialmente con il pontefice per la
nomina del nuovo arcivescovo di Benevento, avvenuta il 21 maggio 1731 nella
persona di Sinibaldo Doria. Continuava inoltre a dar grande pubblicità alle sue
malattie, facendo pubblicare sulla gazzetta a stampa di essersi sottoposto a un
consulto di medici, come a voler dimostrare che la sua salute non gli permetteva
il ritorno a Roma. Tuttavia alla fine del marzo 1732, nonostante la “sorda
protezione” di cui continuava a godere a Napoli da parte del viceré, egli si
imbarcò su una galera reale e sbarcato a Terracina scrisse, il l0 aprile, a
Roma di essere pronto a rientrare nella città, benché malato e provato, per
obbedire alle ingiunzioni papali. Intanto l'Harrach, scrivendo al papa per
annunciare il ritorno del C. diceva di sperare che le sue cose sarebbero state
“ tratadas con la moderaciòn y regularidad correspondiente con la mas
desapasionada iusticia”. Arrivato a Roma il cardinale andò ad alloggiare nel
convento di S, Prassede, dove il 13 aprile Clemente XII gli comunicò di doversi
considerare detenuto. Il C. era accusato di delitti avvenuti prima e dopo
l'acquisto della dignità cardinalizia e di delitti commessi dopo la sua fuga. A
questi ultimi si è già accennato. Per quelli precedenti all'avvento al
cardinalato ci si basava sulla relazione del Buondelmonte, suffragata da un
lungo elenco di testimonianze.
Egli
avrebbe impartito ordini ingiusti, accumulato con malversazioni grandi somme,
con cui aveva maritato o monacato numerose sorelle e acquistato feudi per il
fratello Baldassarre duca di Paduli, ottenuto regali per rare accordare
benefici, ricevuto senza ritegno donne anche nel palazzo arcivescovile.
Divenuto cardinale aveva venduto a Niccolò Negroni la carica di
tesoriere per 20.000 scudi, per 10.000 la tesoreria di Ferrara, l'appalto della
suola da scarpe per 3.500 scudi, quello per fabbricare e vendere il sapone per
10.000 scudi, il fiscalato di Castro e Ronciglione per 200 doppie, una licenza
per il giuoco del “ biribisio “ nel distretto di Roma per 700 scudi.
Dall'università dei fornai aveva preteso 4.000 scudi per dirimere una
controversia che questa aveva con la Congregazione del l' Annona (di cui egli
faceva parte), ma aveva dovuto restituirli, perché, morto il papa, alcuni
rappresentanti dell'università corsero a Cisterna, convinti a ragione
che egli non potesse più nulla. Inoltre era accusato di aver fatto
rescritti a nome del papa, senza che questo ne fosse informato. Erano suoi
complici e mediatori per vendere grazie e rescritti Barbato Arina, Otto de
Filippis, suo maestro di casa, Valerio Loiale e l'abate Matteo Mussi. Per
controbattere questa caterva di accuse l'avvocato Giovanni Filippo Toppi,
difensore del C., oppose soprattutto argomenti formali: non si tra dato luogo
alla sua ricusazione dei giudici, era fuggito spinto dal timore, non avrebbe
potuto essere citato essendo in luogo immune, era già successo che si
vendessero le cariche, non si poteva provare che i rescritti non fossero stati
ordinati oratenus dal papa. La volontà di Clemente XII di colpire coloro che,
istallandosi nella corte di Roma, vi avevano gettato un discredito che aveva
travalicato i confini dello Stato della Chiesa era tuttavia inflessibile.
Pertanto il processo, che per l'abilità dell'avvocato difensore avrebbe potuto
ancora trascinarsi a lungo fra i cavilli giuridici, per volere del papa fu
concluso alla fine dell'aprile 1733. La
sentenza uscì il 9 maggio e considerata la dignità di cui era insignito il C.,
fu durissima. Essendo stato riconosciuto reo di concussioni, estorsioni,
falsificazione di rescritti, violazione della fiducia di Benedetto XIII, atti
tutti commessi per desiderio di ricchezze e cupidigia di denari, e inoltre di
disobbedienza agli ordini papali e di propalazione di ingiurie e malevolenze, il
C. venne condannato a dieci anni di relegazione in Castel Sant' Angelo, alla
scomunica maggiore, con assoluzione riservata al papa, alla restituzione di
quanto indebitamente si era appropriato - che poi ammontò a 39.000 scudi-, alla
multa di 100.000 ducati, alla sospensione già inflitta della giurisdizione
temporale e spirituale delle abbazie di S. Sofia e di S. Marco in Lamis, alla
sospensione, durante il decennio della detenzione, dal diritto di voto attivo e
passivo nei conclavi. La severità
della sentenza, anche se il C. non pare avesse amici fra i cardinali, turbò
alcuni di essi, ma non uno osò esprimere riprovazione o invocare clemenza.
Soltanto, ancora per qualche tempo, Carlo VI fece qualche rimostranza al nunzio
pontificio a Vienna, sostenendo che sembravano
“essere intervenute non poche irregolarità cosi nella formazione del
processo, come nella sentenza data " e chiese che la pena fosse mitigata.
Immediatamente il C. fu portato in arce
superiori del Castel Sant’ Angelo, dove gli furono assegnate tre stanze; in un
primo momento, egli, che sembrava stranamente privo di risorse, tanto da
scrivere affannosamente alla cognata per essere sovvenuto, non volle accettare
la sentenza, ma, venuto a più miti consigli, il 17 febbraio 1734 firmò una
supplica per essere assolto dalla scomunica; il che otteneva il 23 febbraio.
Avendolo ormai schiacciato e umiliato, Clemente XII poté anche mostrarsi
generoso con lui, accordandogli nell'ottobre del 1735 di recarsi ai bagni di San
Casciano, per curarsi la sua eterna gotta, e nel 1736 e forse nel 1737 a quelli
di Agnano. Con un chirografo del l° luglio 1738 da pubblicarsi durante i
novendiali - come fu fatto - il papa gli restituì il diritto soltanto attivo di
votare per l' elezione del futuro pontefice.
Il
giorno della morte di Clemente XII (6
febbraio I740) il C. inviò una lettera a tutti i cardinali, escluso Neri
Corsini, in latino, per rivendicare il pieno diritto di partecipare al conclave.
Anche con il suo contributo quindi il 17 agosto veniva eletto Benedetto XIV, che
fu sollecitato dal cardinale F. Acquaviva a rivedere la causa del Coscia. Si
oppose alla revisione il cardinale A. Lanfredini, nè forse questo era nelle
intenzioni del papa, che con un breve de1l'8 gennaio 1742 reintegrava il C. in
tutti gli onori, annullando ogni pena temporale o spirituale comminatagli, ma
non certo restituendogli l'arcidiocesi di Benevento, come pure egli avrebbe
voluto, e chiedendogli di compilare una lettera di rinuncia a tutte le sue
pretensioni. Da Napoli, dove si era trasferito con il consenso del papa già
dall' anno precedente, il C. il 22 febbraio inviò il suo
“contentamento ". Da quel momento la sua vita si immerse nell'
oscurità. Ne riemerse per un attimo nel giugno del 1747, quando fu invitato a
corte per la nascita del principe Filippo di Borbone. Morì 1'8 febbraio 1755
nella città partenopea. Aveva fatto testamento il 5 gennaio 1753, lasciando
case e terreni al fratello Baldassarre e arredi della sua cappella a varie
chiese, e fu sepolto nella chiesa dei Gesuiti a Napoli.
Padre Lodovico, al secolo
Antonio Acernese, nacque a Pietradefusi (Avellino) il 14 aprile 1835. I suoi
genitori: Giuseppe e Teresa, gente benestante dei
campi, sana e religiosissima. Dotato di peculiari doti di mente e di cuore;
carattere vivace e schietto, volontà intraprendente e ingegno acuto, P.
Lodovico già da fanciullo sentì l'inclinazione al sacerdozio.
Nel 1849 entrò nel seminario diocesano di Benevento, retto allora dai Padri
Gesuiti, dove ricevette una solida formazione teologica e filosofica.
Nel 1855, terminati gli studi liceali, approfondì ad Avellino gli studi
giuridici.
Nel 1856 è tra i Cappuccini di Napoli, divenendo sacerdote il 18 giugno 1859.
Rivelatosi ben presto di grande ingegno e santità di vita, fu maestro,
superiore, ministro provinciale, Professore di filosofia, poeta, scrittore e
conferenziere illustre.
Uomo dalla fede eroica, intraprende e dinamico, battagliero e audace, pieno di
carità e semplicità serafica spese la sua vita a servizio della chiesa e della
società, "restaurando" morale e costumi.
Alla Vergine Immacolata, che amava con amore tenero e filiale, volle offrire
come omaggio imperituro la Congregazione delle Suore
Francescane Immacolatine, la cui fondazione gli costò un lungo e
doloroso Calvario.
Padre Ludovico Acernese fu una personalità poliedrica: oratore, poeta,
filosofo,
teologo, confessore, direttore di spirito, fondatore, francescano di autentico
stampo, per cui godette, in vita e dopo morte, di grande stima e fama di santità,
che si va affermando e diffondendo sempre più, in particolare nelle nazioni
dove operano le Suore
Francescane Immacolatine: Italia, Brasile, Filippine e India.
Morì a Pietradefusi in concetto di santo il 16 febbraio 1916. Fu sepolto nel
cimitero locale. L'anno successivo le Autorità Civili di Pietradefusi vollero
rendere un pubblico e solenne omaggio alla memoria del p. Ludovico, erigendo una
lapide commemorativa nella piazza del paese.
Nel 1966, celebrandosi il cinquantenario della morte, i suoi resti mortali
furono
esumati, traslati e tumulati nella cappella della "Casa Madre" delle
Suore Francescane Immacolatine, in Pietradefusi, dove tuttora riposano e
continuano a ricevere sempre più affettuoso e riconoscente l'attestato di amore
della sua gente, delle sue figlie, dei suoi concittadini, in attesa del
riconoscimento dell'eroicità delle sue virtù.
testo curato da
Suor Mariagiovanna Santedicola
Superiora Generale
delle Suore Francescane Immacolatine
83030 Pietradefusi (Av) tel/fax 0825 962064