settembre 1999

Un'estate tra i poveri di casa nostra
di Gian Pietro Basello, san Giovanni in Persiceto (BO)

E’ già da un po’ di tempo che frequento con meno assiduità la mia parrocchia, l’"entroterra" persicetano in genere e il mio dipartimento universitario bolognese. Il fatto è che sto svolgendo servizio civile presso la Caritas bolognese. Un servizio abbastanza impegnativo, scelto perché poter dedicare 10 mesi della propria vita al servizio degli altri a tempo pieno, mi sembrava un’opportunità troppo grossa per lasciarsela scappare. Ora sono già rapidamente scivolati via più di 5 mesi (e quando leggerete queste righe ne saranno passati altri) e mi sto rendendo conto quanto ci sarebbe ancora da fare e quanta più esperienza ci vorrebbe per imparare ad aiutare i tanti "prossimi" che incontro ogni giorno.

Ma che cosa fa un "obiettore Caritas"? Innanzitutto ci sono i più disparati tipi di servizio: dopo una serie di colloqui svolti più di un anno prima di iniziare, la segreteria obiettori ti assegna ad un determinato Centro Operativo. Per uno dei tanti "svarioni" organizzativi della segreteria stessa sono capitato all’ultimo momento (mi è stato comunicato con ben 2 giorni di anticipo!) in ben due centri operativi diversi, più o meno a metà tempo. Il primo, quello principale, è Comunità Speranza, un gruppo di volontari e obiettori che opera nell’ospedale psichiatrico Roncati di Bologna cercando in qualche modo di stare vicino ai malati mentali; il secondo, quello in cui avevo messo tutto il mio cuore prestandovi servizio come volontario da più di un anno, è il Centro san Petronio, la mensa (ma non solo!) della Caritas per senzafissadimora a Bologna. Due realtà ben diverse per ambiente, ma tanto più simili per la sofferenza fisica e mentale di chi è costretto a frequentarle. Vi confesso che non volevo più fare tanto delle nuove esperienze, quanto avere tempo per approfondire ciò che già stavo facendo; ma la provvidenza ha pensato ancora a modo suo, donandomi una terza esperienza che vivo quando non sono in servizio: la piccola "comunità" di obiettori in un minuscolo appartamento del centro di Bologna. Questa volta vorrei parlarvi del Centro san Petronio, tenendo in serbo per la prossima occasione le sorprese delle ore trascorse all’ospedale psichiatrico.

Ho trascorso tutta l’estate in servizio (se si eccettuano alcuni giorni di licenza in Austria per vedere l’eclisse) un po’ costretto per carenze di organico e un po’ per scelta: a volte non ci si rende conto della grande povertà che c’è anche a Bologna, a pochi passi da casa nostra, con tanti poveri che non vanno in vacanza e che hanno tanto più bisogno.

Si dice senzafissadimora perché di barboni per scelta ormai non ce ne sono più: ormai sono tutti disoccupati, qualcuno magari ha perso il lavoro perché non è più in grado di lavorare; altri sono rimasti soli dopo una disgrazia famigliare o un matrimonio fallito; non mancano malati mentali, pensionati in difficoltà, uomini che si sono dati all’alcool, drogati; sono albanesi ed extracomunitari in cerca di un sogno, ma anche tanti italiani, meridionali e bolognesi. Anche quella gente che ti fa storcere il naso passando per piazza Verdi o per via Indipendenza. Una realtà che mi colpì quando, giovane studente universitario, attraversavo le vie della metropoli bolognese. Una realtà che volevo conoscere da vicino.

Stando con loro, tanti pregiudizi svaniscono presto: innanzitutto non sono più categorie da giornale ma singole persone che non puoi giudicare. Hanno alle spalle storie incredibili di miseria e solitudine e risulta difficile districare le cause dalle conseguenze. Nella nostra società, a volte, basta semplicemente la perdita del lavoro, una malattia improvvisa unitamente alla mancanza di sostegno da parte di parenti e amici, a farti ritrovare improvvisamente senza casa e sulla strada. Una società cannibale che rifiuta ciò che essa stessa produce e che grida allo scandalo se un marocchino piscia per strada. Eppure, se anche entrasse in un bar chiedendo del WC, il barista lo manderebbe via; di certo nessun bolognese gli metterebbe a disposizione il proprio bagno, mentre i bagni pubblici non sono certo ovunque: allora pisciare per strada diventa un gesto emblematico di protesta da parte di uno che non ha più niente da perdere. Pensateci: non avere casa non significa solo non avere un letto in cui dormire ma vuol dire anche non avere un bagno, una doccia, una cucina. Vuol dire non sapere dove appoggiare le proprie cose, che vengono regolarmente rubate appena ci si addormenta su una panchina, e quindi non aver modo di cambiarsi. Vuol dire non aver mai un attimo di pace, essere sempre esposto agli altri e al tempo. Soprattutto dover sempre chiedere aiuto, fare lunghe file presso i pochi centri di ascolto e di accoglienza come la nostra mensa. Una vita per noi inconcepibile.

A parte i tossicodipendenti che sono spesso di origine agiata e arrivano in mensa già abbruttiti e rovinati dalla droga, sono tante le persone normali, pulite e sane, giunte dal meridione o extracomunitarie, piene di tanta speranza. Le prime settimane vengono in mensa, si meravigliano che a Bologna sia impossibile trovare un dormitorio con qualche posto vuoto, si adeguano a dormire per strada. Mi raccontano i loro giri e i tentativi per trovare lavoro. Per due-tre mesi non si scoraggiano. Vengono a farsi la doccia da noi negli orari prestabiliti (tre pomeriggi la settimana) e si cambiano con i vestiti puliti che gli diamo (purtroppo possiamo accontentare solo 60 persone circa a settimana). Poi inizia la parabola discendente: iniziano a perdere fiducia, la vita di strada è dura, i panini si bloccano sullo stomaco, magari non possiamo più farli venire a mangiare da noi perché i pasti che offriamo sono limitati (più di 100 a serata per 365 giorni l’anno, e viviamo anche noi di carità!) e diamo preferenza ai nuovi arrivati. Si inizia a bere, a non curarsi più, a non ragionare più, a chiudersi in se stessi. Non sono drammatico se dico che ho visto fantasmi di uomo in persone che tre mesi prima erano giovani sani e in forze. Le patologie si sommano rapidamente aggiungendo sofferenza a sofferenza. Spesso si cade nella delinquenza spicciola.

Stando al Centro san Petronio mi sono trovato improvvisamente in prima linea, spesso a contatto diretto con la cronaca più squallida del Carlino Bologna. Sei lontano anni luce dai tanti discorsi e dalle buone parole (quelle della TV, ma anche quelle che a volte si sentono in ambienti cattolici): stai lavorando e stai aiutando concretamente qualcuno. E non lo aiuti tanto dandogli da mangiare, quanto parlandogli o anche solo salutandolo e dandogli la tua fiducia. Perché l’uomo non ha bisogno di solo pane e a queste persone non manca solo quello, ma anche tutta quella vita sociale di relazione propria di noi "normali", sia come amici che come famiglia che come ambiente di lavoro. Non è piccolo il tuo aiuto.

Il Centro è aperto dalle 8.30 alle 20.00 grazie a un gruppo di 5 obiettori che purtroppo continua ad assottigliarsi (la causa è la mancanza di fondi per pagare la spropositata paga mensile di 175’000 lire). Ogni giorno di servizio è una sorpresa, in quanto possono capitarti le cose più disparate, nel bene e nel male. Oltre alla grande varietà di compiti (pulizie, manutenzione, apparecchiare, preparare frutta e verdura, tagliare il pane, lavaggio tegami, spesa e acquisti vari, raccolta vestiti, ordine del guardaroba, gestione della dispensa, servizio alle docce, distribuzione generi alimentari, distribuzione coperte…) non mancano gli imprevisti e le vere e proprie emergenze. Capita spesso di "perdere" l’intero pomeriggio per far compagnia a un disperato che bussa alla porta, abbastanza frequentemente bisogna "sedare" qualche piccola "rissa" (la vita di strada rende tutti un po’ nervosi!), qualche volta ho soccorso ospiti con gravi patologie (che poi cerchiamo di seguire all’ospedale). Abbiamo fatto fronte a improvvisi arrivi di profughi della ex Jugoslavia, intere famiglie per lo più composte da bambini cui cerchiamo di dare riparo provvisorio per la notte. Di fatto sei sempre a disposizione di chi ha bisogno. Non è poca la sofferenza che ti passa davanti ogni giorno e di cui, in qualche modo e in piccolissima parte, sei chiamato a condividere il peso.

La mensa offre solo il pasto serale. Verso le 3 di pomeriggio arriva il volontario cuoco, mentre dalle 5 in poi iniziano ad arrivare (per fortuna) i volontari: ogni giorno sono circa una dozzina suddivisi in turni settimanali. Il portone viene aperto alle ore 18. Qui viene il bello: aperta la pesante porta di ingresso, l’obiettore si trova davanti una turba di persone affamate, ognuna con la sua personale esigenza di compagnia, bisogno di vestiti, di fare una telefonata, di cercare un lavoro, di chiedere aiuto. Il "portone" è il momento più problematico e emblematico, l’interfaccia che bisogna attraversare per entrare in mensa, il luogo della prima accoglienza. A volte si è costretti a tenere fuori delle persone (ubriachi, drogati appena "fatti", persone che hanno la possibilità di arrangiarsi ma vorrebbero approfittare della mensa) che, con il loro stesso comportamento, potrebbero mettere a soqquadro l’ambiente protetto della mensa.

Ciò che non funziona è la seconda linea: dietro di noi non c’è nessuno. La chiesa e altre organizzazioni di volontari (ad es. Piazza Grande) tentano di coprire gli enormi vuoti lasciati dal Comune, purtroppo con scarso successo. Chi è pagato per aiutare le persone (ad es. gli assistenti sociali) falliscono spesso un compito che certo è più grande di loro: ovvero, per aiutare qualcuno in difficoltà non basta l’assistente, ma occorre un concorso di più persone (e competenze) sapientemente orchestrato dall’assistente sociale. Chi rimane escluso sono alla fine gli ultimi degli ultimi (i veri primi per Gesù).

Premesso quindi che la realtà del Centro san Petronio non è certo rose e fiori, concludo invitandovi ad approfittare della mia presenza per conoscere (anche nello spazio dell’ora di apertura serale) questi "poveri di casa nostra" venendo in mensa. Vi garantisco che anche la più piccola offerta di cibo o vestiti puliti viene subito utilizzata. Il Centro si trova in via santa Caterina 8 a Bologna, pochi passi entro porta Saragozza.

Articolo ripreso (con un leggerissimo adattamento iniziale) da Arcobaleno anno XIII n. 37 ottobre 1999, giornale dei giovani della parrocchia di san Giovanni Battista – san Giovanni in Persiceto (BO).