Goethe e la favola del re di Tule

 

 

Il lettore, davanti ad un'opera della complessità e ricchezza del "Faust", resta come disorientato e, preso nel flusso corale delle vicende e dei personaggi, corre continuamente il rischio di non dare il giusto valore a componenti, nell'apparenza marginali e di non grande conto, che, se meglio osservate, però si rivelano invece estremamente importanti e significative, anzi essenziali.

Questo, probabilmente, il caso della canzone che Margherita canta in un momento fondamentale della sua vita, anche se lei ne ignora tutta l'importanza, poesia nota generalmente come "La ballata del re in Tule". La situazione è famosa e poche parole basteranno a richiamarla: Enrico Faust, colpito dalla bellezza semplice e serena di Margherita, se ne innamora; ma la conquista non è facile ed allora ricorre alle arti diaboliche di Mefistofele che riesce a far comparire in camera della ragazza un piccolo scrigno pieno di gioielli, che poi offriranno ad Enrico il modo di manifestare a Margherita il suo amore.

Una calda sera estiva, rientrando nella sua stanza, Margherita avverte qualcosa di strano nell'atmosfera: il caldo la opprime, i vestiti le pesano addosso, comincia a spogliarsi con la vaga sensazione di una presenza indefinibile che la circondi e mentre si spoglia canta una dolorosa ballata:

 

Es war ein König in Thule,

Gar treu bis an das Grab,

Dem sterbend seine Buhle

Einen goldnen Becher gab.

 

Es ging ibm nichts darüber,

Er leert ibn jeden Schmaus;

Die Augen gingen ihm über,

So oft er trank daraus.

 

Und als er kam zu sterben

Zablt er seine Städt im Reich,

Gönnt alles seinem Erben,

Den Becher nicht zugleich.

 

Er sass heim Königsmable,

Die Ritter um ibn her,

Auf hoben Vätersaale,

Dort auf dem Schloss am Meer.

 

Dort stand der alte Zecher,

Trank letzte Lebensglut,

Und warf den beiligen Becher

Hinunter in die Flut.

 

Er sah ibn stürzen, trinken,

und sinken tief ins Meer,

Die Augen taten ihm sinken

Trank nie einen Tropfen mebr.

 

La lirica, fra le più largamente note nelle letterature europee, presenta in italiano varie traduzioni, fra le altre molto celebre quella del Carducci. Preferisco riportare qui di seguito la versione di Giovita Scalvini, perchè, forse, come poche altre, vicinissima all'atmosfera del testo originale:

 

C'era in Tule un re che tenne

sino al cenere la fé.

La sua amante a morir venne

ed un nappo d'or gli diè.

 

Nulla caro ebbe mai tanto,

vi beveva (1) a mensa ognor

e in votarlo avea di pianto

gli occhi carichi (2) e d'amor.

 

Quand'eì pure venne a morte

numerò le sue città

all'erede le diè in sorte,

ma il nappo d'or non già.

 

Nella sala dell'avito

suo castello in riva al mar

fece a splendido convito

i baroni radunar.

 

Svanir vide la gioconda

vita il vecchio bevitor

ed infine giù nell'onda (3)

gettò il sacro nappo d'or.

 

Ir giù il vide e le tranquille

acque rompere e sparir

s'oscurar le sue pupille più

non bevve il vecchio sir.

 

 

Un'osservazione appena un po' attenta dichiara la presenza della canzone nel "Faust", almeno apparentemente, immotivata, nel senso che nessun elemento strutturale, nella complessa opera, la prefigura o la richiede per esserne integrato o sorretto, né, peraltro, a livello contenutistico essa aggiunge dati nuovi o chiarificatori all'economia generale dei racconto. Infine, da un punto di vista strettamente formale s'intende, qualora la ballata venisse cancellata dal Faust la linea narrativa e logica dell'opera non verrebbe alterata, nel senso che un lettore che non conoscesse lo stato d'integrità originario, non rileverebbe, con ogni probabilità, la lacuna rappresentata da tale cancellazione.

Nonostante queste considerazioni negative però l'apporto della ballata, a livello ideologico, è fondamentale: essa, inoltre, proprio per il suo carattere d'autonomia rispetto all'opera, si pone come un piccolo mondo compiuto in sé, come la piccola opera capace di riassumere in sé in proporzioni ridotte l'intera grande opera, come per una sorta di magico gioco di lenti in cui quello che è grande da un lato appare dall'altro incredibilmente rimpicciolito. Amore e morte, il binomio fondamentale a cui ogni opera d'arte sembra, in ultima analisi, richiamarsi sono le due costanti della breve composizione, il cui semplice messaggio è che un sentimento vero, profondamente vissuto, può da solo dare significato ad una vita intera, anche alla vita di chi benefici di altri grandi ed importanti doni della fortuna. Gli aspetti da porre in piena luce però probabilmente non sono di ordine tematico, ma emergono proprio dalla particolare struttura della piccola poesia, che si configura come una favola o un mito e dalla sua speciale collocazione nell'ambito dell'opera.

A questo punto va esplicitamente sottolineato il carattere di alterità della poesia rispetto ad ogni altra parte del Faust, carattere confermato, in maniera oggettiva ed inequivocabile, dal dato di fatto che essa venne da Goethe composta indipendentemente dal Faust fin dal 1774, ossia molti anni prima di esso. E' noto infatti che al Faust Goethe lavorò veramente con una certa assiduità solo a partire dal 1790, anche se alcune scene sicuramente vanno collocate molto prima di quest'ultima data. Dell'autonomia della ballata rispetto alla tragedia inoltre è prova ulteriore la sua vita come testo musicato tantissime volte, fra gli altri anche da un musicista del livello di Franz Schubert.

Ora al lettore del Faust può sorgere legittima la domanda sul motivo che può avere indotto Goethe a recuperare e reintrodurre questa sua vecchia composizione nell'opera: qui il problema, evidentemente, non è rappresentato dal carattere composito del Faust, carattere che può essere attribuito quasi ad ogni opera d'arte d'ampio respiro, è invece rappresentato dalla scelta di questo piccolo testo dal tono e dal registro così stranamente diverso da quelli della tragedia, di cui, pur conservando intatta la propria originaria autonomia, viene a far parte.

Le spiegazioni proponibili possono essere ricercate a due livelli: una risiede sul piano puramente stilistico, l'altra presenta maggiore complessità ideologica.

Quanto alla prima, la presenza della favola, del mito nel dramma può essere vista come un espediente letterario, una trovata stilistica, di cui non mancano esempi nella letteratura d'ogni tempo e paese. Ma se non ci si accontenta della prima spiegazione e si vuole accedere all'altra quella sul piano delle idee, allora la presenza di questa piccola tessera, nel grande mosaico del Faust, può diventare estremamente significativa.

Per procedere nell'analisi, in primo luogo si può osservare come la tonalità temporale non potrebbe essere meno definita, indicata com'è dalla formula Es war einmal "C'era una volta", formula che per sua natura respinge inequivocabilmente ogni ulteriore richiesta d'una collocazione cronologica precisa. In secondo luogo la definizione dei personaggi è realizzata per tratti appena accennati: l'amante è nominata una volta soltanto e nel modo più vago possibile; l'innamorato è indicato come ein Köning "un re", designazione che da un lato riporta la ballata goethiana nello schema classico della favola indoeuropea, dall'altro è solo simbolicamente allusiva d'una condizione felice e non indica veramente alcuna collocazione storica: non si dice neanche se fosse il re dell'isola, ma soltanto che viveva in quella lontanissima isola. Ed è proprio la collocazione spaziale l'elemento di maggior interesse: Goethe non presenta una località geografica identificabile, ma dà una denominazione estremamente significativa: Tule.

Ora è noto che Tule, l'ultima Tule, la lontanissima Tule, già nell'antichità classica collocata all'estremo Nord del mondo, proprio per questa sua collocazione remota ai limiti del mondo conosciuto, si trovava in quell'area nebulosa e strana dove la fantasia e la realtà si fondono e si confondono, dove l'immaginario finisce col vincere sul reale. Con l'isola di Tule si entra in quel dominio della geografia in cui nomi, mappe, figure, indicazioni servono più ad invitare un improbabile viaggiatore ad entrare in un mondo incantato e misterioso, popolato di forme fantastiche, che non a dirigerne i passi concretamente fra paesi e contrade reali. Del resto l'antichità, che favoleggiava dell'ultima Tule, non avrebbe saputo indicarne l'esatta collocazione, anche se generalmente si ritiene allora si dovesse pensare ad un isola da far coincidere con l'odierna Islanda, che effettivamente rappresentava l'ultima terra emersa verso il Nord che allora si conoscesse.

In fine il nome stesso, a livello etimologico, deve essere analizzato alla luce della connotazione d'estremo, di limite, se, come molto verosimilmente pare, deriva da un'antichissima designazione toponomastica da riallacciare al vocabolo tul, che con il plurale tular è largamente documentato in etrusco e significa appunto "confine, limite, barriera"2. Sia l'etrusco tul, sia la base del toponimo Tule rimanderebbero a remoti sostrati linguistici preindoeuropei. Ora è evidente la volontà di Goethe di collocare la vicenda in un luogo che si presenti subito come sconfinatamente lontano ed in secondo luogo come difficilmente identificabile o addirittura non identificabile.

Qui però può essere giustificata la domanda sul perchè Goethe abbia affidato ad una narrazione collocata in una dimensione spazio-temporale volutamente incerta ed enigmatica un messaggio tutt'altro che secondario nella sua opera, quale è quello della ballata, in cui, come si è detto, in un dominio circoscritto, ricompaiono tutti i temi del Faust: l'amore oltre la vita, la libertà dei sentimenti da qualsiasi situazione contingente.

La risposta, paradossalmente, può venire proprio da quella dimensione spazio-temporale incerta ed enigmatica. Se la vita, per Goethe, almeno secondo quanto appare dal Faust, è un continuo incessante andare alla ricerca di valori, quali la realizzazione di se stessi, la verità, l'assoluto, il senso stesso della vita, il fatto di affidare una risposta, sia pur mitica o simbolica, rispetto a questi giganteschi interrogativi, alla favola del re dell'isola lontanissima prova il superamento o quantomeno l'esigenza del superamento della dimensione spazio-temporale, che, rispetto alle possibilità umane, si pone come il grande ostacolo comunemente ritenuto insormontabile ed ineliminabile.

Alla luce di quest'ultima considerazione forse si può intravedere il profondo significato della "Ballata del re in Tule": Margherita canta e non sa di cantare la storia d'una vita molto simile a quella che il destino le riserva; presto vivrà la sua storia d'amore, che altrettanto presto finirà tragicamente e lei morrà condannata; ma l'aver seguito soltanto i propri sentimenti con lealtà, fermezza e coraggio farà sì che alla fine, quando tutte le circostanze in terra la dicono dannata, il cielo la proclama salva.

Il fatto che l'inconscia anticipazione di tutta la storia sia adombrata nel tratti essenziali della ballata collocata significativamente al di là dello spazio e del tempo può significare proprio che la verità, il senso della vita possono essere raggiunti dall'uomo soltanto in una dimensione extraspaziale ed extratemporale: i valori assoluti in altri termini sono fuori dello spazio e del tempo.

Qui Goethe si dispone su di una linea d'ideale continuità con tutta una serie di grandi figure del pensiero occidentale che, a titolo diverso, intuirono questa fondamentale esigenza dello spirito umano di oltrepassare la pura apparenza del mondo esterno è"di fondare un mondo dei valori al di là delle limitazioni spazio-temporali. Già nell'antichità classica Platone e poi, più vicino a noi, S. Agostino avevano dichiarato il carattere extratemporale ed extraspaziale dei valori: l'uno collocandoli nel mondo delle idee, l'altro asserendo il carattere non originario del tempo, che sarebbe comparso come dato secondario solo dopo la creazione. Via via che il pensiero occidentale si sviluppa tali affermazioni diventano sempre più approfondite e frequenti, finchè Kant stabilisce in modo inequivocabile la relatività dello spazio e del tempo come categorie logiche, che seppure componenti ineliminabili del pensare e dell'agire umano, sono prive d'una loro entità metafisica o in altri termini sono enti di ragione e non enti di realtà.

Tutto ciò collima senza difficoltà da un lato con quel complesso di teorie matematico-logico-filosofiche che fa capo alla figura di Albert Einstein e alla sua teoria della relatività e dall'altro collima ancora con le teorie d'indagine psicologica che indicano come il subconscio sembra muoversi in un eterno continuo presente senza spazio, per cui l'individuo, al di sotto di certe soglie, ha, per così dire, la possibilità di percepire la realtà in forma pura, libera dalle categorie spazio-temporali. Di quest'ultima situazione del resto l'individuo ha coscienza sia pur vaga, dato che spesso dei presentimenti lo avvertono di ciò che il futuro gli riserva, mentre certe forme di ricordo gli conservano costantemente vivo ciò che è ormai da tempo trascorso. Tutto ciò sembra autorizzare delle riflessioni d'una certa importanza relative al pensiero di Goethe e ai caratteri dell'arte goetheiana.

Se infatti è possibile attribuire a Goethe una concezione problematica e dinamica del vivere umano, come rivela il fatto che Faust ricerca costantemente il senso della vita fino all'ultimo minuto della sua esistenza, nel suo incessante cercare dimostra l'impossibilità di trovare una soluzione ai suoi angosciosi perché, che sono poi quelli di tutti gli uomini. D'altra parte questa ricerca è talmente importante per lui da coincidere con la vita stessa ed infatti Faust non esita a cedere la sua anima alle forze del male pur di vedere estremamente potenziate le sue capacità di raggiungere i suoi obiettivi.

Anzi Faust è perfettamente cosciente di due cose, che il solo studio, ossia il puro impiego delle sue capacità logiche non lo portano alla soluzione di alcun grande problema vitale e che comunque anche ritenendo le capacità logiche in grado di raggiungere la soluzione degli enigmi fondamentali dell'esistenza, una vita non basta, perchè il genio umano, irretito com'è nelle dimensioni spazio-temporali, non può applicarsi appieno e quindi ecco la ricerca di mezzi eccezionali, quali una seconda giovinezza ed una illimitata mobilità, che sono appunto le due principali concessioni che il potere demoniaco di Mefistofele può fargli. Guardata da questo punto, di vista, tutta la vicenda del vecchio studioso che magicamente ringiovanisce e magicamente si sposta a grandissime distanze si configura come una magnifica versione poetica dell'antico sogno umano dell'essere sganciati, almeno una volta, dal tempo e dallo spazio. Del resto questo sogno la letteratura non l'ospitò per l'ultima volta con Goethe, se come è noto, nel nostro secolo Thomas Stearris Eliot incentra gran parte e forse la più profonda della sua poesia su di una visione atemporale e Hermann Hesse nel suo romanzo più noto "Siddharta" fa dell'osservazione che il tempo non esiste la più grande scoperta del suo tormentato personaggio alla ricerca della soluzione del mistero della vita.

 

 

1 La lezione "beveva" è mia rispetto a "trincava" di Scalvini, verbo di registro troppo popolare agli occhi d'un lettore moderno.

 

2 Sostituisco con "carichi" la lezione "gravidi" del testo scalviniano perchè connotata troppo materialmente.

 

3 Di questi tre versi la traduzione è mia, perchè quella di Scalvini non mi sembra del tutto rispondente allo spirito del testo goetheiano.

 

Ringraziamenti a:http://www.esoteria.org

 

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