SOREN KIERKEGAARD

"Il silenzio di Abramo"
da Timore e tremore
da Cioffi…, Corso di filosofia…, cit., pp.385-387


PREMESSA

"Timore e tremore" è espressione paolina: "Badate alla vostra salvezza con timore e tremore" (Filìppesi, 2, 12). Questi sentimenti sono nell’animo di Abramo sottoposto da Dio alla prova più terribile, ma anche in Kierkegaard, che guarda a questa figura come emblematica della situazione esistenziale dell’individuo. Abramo deve condurre la sua prova nel silenzio (a questo allude il nome dello pseudonimo, Johannes de Silentio) e nella solitudine assoluta del suo rapporto con Dio: è il Singolo che rifiuta la propria realizzazione nel Generale e si pone al di sopra di esso, nel paradosso e nell’assurdo.
E questa la situazione descritta nelle pagine che presentiamo.


TESTO

L’etica è come tale il generale, e come tale è valido per ognuno: ciò che in un altro modo si può esprimere dicendo che vale a ogni momento. Esso riposa immanente in se stesso, non ha nulla fuori di sé che sia il suo telos (I), ma esso stesso è il telos di tutto ciò ch’è fuori di sé quando l’etica ha assunto questo in sé, non si va più oltre. Il Singolo, concepito immediatamente come realtà sensibile e psichica, è il Singolo che ha il suo telos nell’universale (2): il suo compito etico è di esprimere se stesso nel togliere la sua singolarità per diventare il generale. Appena il Singolo vuoi farsi valere nella sua singolarità di fronte all’universale, egli allora pecca, e soltanto riconoscendo questo (suo errore) può riconciliarsi con il generale. Ogni volta che il Singolo, dopo essere entrato nel generale, sente l’impulso di farsi valere come Singolo, egli cade nello scrupolo dal quale riesce a liberarsi soltanto pentendosi e abbandonando se stesso come il Singolo nell’universale. Se è questa la cosa più alta che si può dire dell’uomo e della sua esistenza, allora l’etica ha la stessa qualità della beatitudine eterna dell’uomo, la quale per tutta l’eternità e in ogni momento è il suo telos; sarebbe infatti una contraddizione ch’essa potesse essere abbandonata (cioè sospesa teleologicamente);poiché essa, appena è sospesa, è perduta, mentre ciò ch’è sospeso non è perduto ma anzi conservato in ciò ch’è più alto, ch’è il suo telos.
Stando così le cose, allora ha ragione Hegel quando determina l’uomo nel capitolo "il bene e la coscienza" unicamente come il Singolo (3) e considera questa determinatezza come una "forma morale del male" (cfr. specialmente Rechtsphilosophie)(4), la quale dev’essere tolta nella teleologia della realtà morale così che il Singolo che rimane in quello stadio o pecca o sta nello scrupolo. Hegel ha invece torto quando parla della fede; ha torto perché non protesta con alte e chiare parole perché Abramo goda onori e gloria come un Padre della fede, mentre dovrebbe essere additato e cacciato come un assassino (5).
Infatti la fede è questo paradosso che il Singolo è più alto del generale però, si badi bene, in modo che il movimento si riprende; il Singolo quindi, dopo essere stato nel generale, ora come il Singolo esso si isola come più alto del generale (6).
Questo punto di vista non si lascia trattare con la mediazione, poiché ogni mediazione avviene appunto in virtù del generale; esso è e resta per tutta l’eternità un paradosso, inaccessibile per il pensiero (7). [....]
La storia di Abramo contiene ora una simile sospensione teleologica dell’etica (8). [...] Egli agisce in forza dell’assurdo poiché è proprio un assurdo che il Singolo sia più alto del generale. Questo paradosso non si lascia mediare; poiché appena egli (Abramo) comincia col mediare, deve allora confessare di trovarsi in uno scrupolo -quand’è così, non arriva mai a sacrificare Isacco oppure qualora avesse sacrificato isacco, dovrebbe col pentimento volgersi indietro al generale. In forza dell’assurdo egli riottiene Isacco. Abramo non è perciò in nessun momento un eroe tragico, ma qualcosa di tutt’altro: o un assassino o un credente. La determinazione intermedia (9) che salva l’eroe tragico, manca in Abramo. Perciò si ha ch’io posso comprendere l’eroe tragico, ma non posso comprendere Abramo, benché in un certo senso pazzo io l’ammiri più di tutti gli altri. [...]
La differenza fra l’eroe tragico e Abramo balza agli occhi facilmente. L’eroe tragico rimane ancora dentro la sfera etica. Per lui ogni espressione dell’etica ha il suo telos in un’espressione etica superiore; egli riduce il rapporto etico fra padre e figlio o fra padre e figlia (10) a un sentimento che ha la sua dialettica nel suo rapporto all’idea di moralità. Non vi può essere questione di una sospensione teleologica dell’etica.
Diversa è la situazione di Abramo. Egli ha cancellato con la sua azione tutta l’etica ottenendo il suo telos superiore fuori di essa, rispetto al quale ha sospeso questa. infatti mi piacerebbe sapere come si può mettere l’azione di Abramo in rapporto al generale e se è possibile scoprire un punto di contatto qualsiasi fra ciò che Abramo ha fatto e il generale, se non quella trasgressione che Abramo ha compiuta. Non per salvare il popolo, non per affermare l’idea dello Stato, non per placare l’ira degli dei Abramo lo fa. [...]
E allora perché Abramo lo fa? In nome di Dio ed è del tutto identico, in questo caso, in nome proprio. Lo fa in nome di Dio, perché Dio esige questa prova della sua fede: lo fa in nome proprio per poter portare questa prova. L’umiltà è espressa benissimo dall’espressione con cui sempre s’indica questa situazione~ è una prova, una tentazione. Una tentazione, ma cosa questo vuoi dire? Vuoi dire di solito ciò che vuoi distogliere l’uomo dal compiere il proprio dovere: ma qui la tentazione è la stessa etica (11) che vuoi distogliere l’uomo dal fare la volontà di Dio. Ma cos’è allora il dovere? Il dovere è appunto l’espressione della volontà di Dio.
Qui si mostra la necessità di una nuova categoria per comprendere Abramo. Un simile rapporto verso la divinità è sconosciuto al Paganesimo. L’eroe tragico non si presenta con un rapporto privato alla divinità, ma è l’etica la realtà divina: qui perciò il paradosso si dissolve nella mediazione dell’universale.
Per Abramo non ci può essere mediazione, e questo si può anche esprimere dicendo: Abramo non può parlare (12). Appena parlo, io esprimo il generale e se non lo faccio nessuno mi capirebbe. Appena allora Abramo vuole esprimersi in termini generali, deve dire che la sua situazione è una tentazione, poiché egli non ha un’espressione più alta del generale che stia al di sopra del generale ch’egli trasgredisce (13).
da S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, Sansoni, Firenze 1972.



NOTE

1) Il suo fine. La morale, così intesa, è piena immanenza.

2) Cioè la soggettività etica che si realizza, secondo Hegel, nell’eticità universale.

3) In termini hegeliani è l’individuo.

4) La Filosofia del diritto di Hegel. L’individuo che si pone in quanto tale, di contro al generale, è negatività astratta che va superata dialetticamente.

5) La drammatica ambiguità della figura di Abramo sta nell’essere sospesa fra l’immoralità più esecrabile, in una prospettiva etica, e l’ "eroicità" dal punto di vista religioso.

6) La fede istituisce un movimento dialettico per cui il Singolo va oltre la sfera etica nella quale si trova. Il religioso è per Kierkegaard uno stadio della vita più alto dell’etico.

7) L’essenza del cristianesimo, per Kierkegaard, è il suo carattere poradossale, cioè il fatto che non si lascia comprendere razionalmente, mediare attraverso il pensiero (la polemica è rivolta a Hegel). Non vi è un rapporto mediato tra particolare e universale, ma un rapporto assoluto fra Singolo e Dio.

8) Cioè una revoca dell’etica in vista di un fine (telos) più alto.

9) L’eroe tragico è individualità che agisce sempre entro un contesto etico collettivo (che nella tragedia è rappresentato dal coro) In questo è del tutto diverso da Abramo, il "cavaliere della fede", la cui singolarìtà è assoluta.

10) È il caso di Agamennone che deve sacrificare lfigenia per salvare il suo popolo.

11) Si noti che qui l’etica, in Aut-aut esaltata dal giudice Wilhelm, è divenuta "tentazione".

12) Abramo non può spiegare a nessuno quello che gli accade, non può esprimere il suo conflitto (ciò lo distanzia visibilmente dalle urla e dalle lacrime dell’eroe tragico, cui risponde il coro). Il paradosso della fede non è né comprensibile né comunicabile.

13) Cioè la rinuncia alla propria finitezza in favore dell’infinità che è in lui come elemento etico universale. È il movimento di scelta che Kierkegaard chiama "infinita rassegnazione", premessa della fede, ma non ancora decisione per la fede.



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1. La comunicazione d'esistenza
2. Le possibilità e la scelta: vita estetica e vita etica
3. Dialettica dell'esistenza e vita religiosa
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