Le Fan Fiction di croweitalia

titolo:  Nessun Dolore
autrice: Lalla Usai
e-mail: lallausai@tiscalinet.it
data di edizione: 25 settembre 2001
argomento della storia: Russell Crowe, l'attore - per leggere le altre storie scritte da lalla, cerca nell'indice delle fanfiction
riassunto breve: Un bacio... e trovare il coraggio per affrontare un cambiamento radicale.
lettura vietata ai minori di anni: 18
note:  Premessa Uno: quanto mi ispira la musica… Premessa Due: ho battezzato Loredana la protagonista perché è il primo nome esclusivamente femminile che mi sia venuto in mente. Premessa Tre: fatti e persone sono inventati, ogni riferimento alla realtà è del tutto casuale. Lalla

NESSUN DOLORE

 

 

“Non c’è impressione

non c’è emozione…

Nessun dolore…no”

 

La voce rauca e afona di Lucio Battisti l’accompagnava mentre sceglieva ciò che avrebbe indossato per quella serata. Aveva l’armadio pieno di roba firmata: Cavalli, Dolce e Gabbana, Armani. Non si era mai privata di niente e soldi riusciva a metterne via pochi, nonostante i buoni propositi: una come me non può accontentarsi della robetta comprata ai grandi magazzini, si diceva da sé sola quando cacciava fuori la carta di credito dal portafogli e una vocina, dentro, le consigliava di risparmiare, in prospettiva futura. Quale prospettiva? Aprire una boutique, o un centro di estetica, e piantarla con quella vita. Non poteva andare avanti così ancora per molto, e poi c’era l’altra questione da sistemare. Il tempo passava, qualche anno ancora e sarebbe stato tardi… Al diavolo, non era il momento, quello, per guastarsi con pensieri tristi ciò che l’aspettava.

 

“Non c’è impressione

non c’è emozione…”

 

Avrebbe indossato qualcosa di Armani, determinò: dovere di cortesia, era lui che organizzava la serata, il concerto, il party. Qualcosa di semplice, elegante. Magari l’ospite d’onore l’avrebbe notata, era bella e aveva classe da vendere. Tutti i giornali dicevano che aveva spezzato il cuore a legioni di donne. Già, aveva spezzato anche il suo, nonostante l’avesse visto solo sullo schermo.

 

Conosceva pregi e difetti del suo viso, sapeva come valorizzarsi. Hai personalità, dicevano coloro che la frequentavano. Anche l’avvocato di grido che patrocinava le cause di divorzio della Milano bene, anche l’industriale tessile bergamasco che le aveva procurato l’invito. Goditelo, il tuo tamarro australiano, le aveva detto con il suo accento rozzo di chi si è fatto da sé e ha poco studio alle spalle. Per lei era inconcepibile che una persona pensasse solo a guadagnare denaro a palate e non avesse mai messo piede in un teatro o in un museo. Era inconcepibile che la cercasse, aveva una bella moglie, due figlie deliziose. Era inconcepibile che… Qualcuno l’avrebbe mai amata, aldilà delle illusioni, per quella che era? Eppure, era soprattutto grazie a gente come il Biraghi se poteva permettersi quel tenore di vita, quella casa, quegli abiti firmati. E quei sogni. 

 

-Sta buono, e non abbaiare.

Prima di uscire faceva sempre le sue raccomandazioni al cane, sapendo che, probabilmente, non le avrebbe dato ascolto: i cani mica sono cristiani, anche se l’allevatore che gliel’aveva venduto le aveva garantito che i bull terrier abbaiano poco e fanno buona guardia. Era bianco, con una toppa nera sull’occhio sinistro, e , in tempi non ancora sospetti, l’aveva chiamato Gladiatore. Erano quattro anni che le teneva compagnia e custodiva la sua casa.

 

“Non c’è illusione…

non c’è emozione…”

 

Prese le chiavi della Smart, spense lo stereo. Prima di uscire, accarezzò con lo sguardo i molti ritratti che gli aveva fatto e che tappezzavano le pareti del monolocale dove viveva. Alcuni a colori, altri in bianco e nero. A olio, a matita  di graffite, seppia, sanguigna… Aveva frequentato con profitto il liceo artistico, diplomandosi a pieni voti. L’unica soddisfazione che avesse dato a suo padre e a sua madre, prima di farsi buttare fuori da casa.

Una spruzzata di profumo sul collo, dietro l’orecchio: forte, inebriante, sapeva d’incenso e stordiva: l’unico eccesso che amava concedersi. Un’occhiata ancora ai quadri, mentre infilava il morbido cappotto di cachemire nero sul completo casacca e pantaloni che aveva scelto per quella serata speciale. Una lunga occhiata languida come se fosse stato lì in carne e ossa, il giovane biondo dei ritratti, con i capelli morbidi spettinati dal vento e gli occhi  che non erano azzurri e non erano verdi, gli occhi cattivi di Hando il teppista, quelli ingenui e fiduciosi di East, il cowboy, quelli disperati di Wigand, che la vita aveva imbrogliato. E lo sguardo franco di Massimo, che un abisso di secoli prima, aveva lottato da solo contro le ingiustizie e le aveva spezzato il cuore.

 

Sarebbe stata in grado di rispondergli, nell’ipotesi remota che lui le avesse rivolto la parola? Conosceva bene l’inglese, appreso nei sei mesi in cui aveva lavorato in un pub di Bristol, prima che il padrone scoprisse tutto quanto e facesse quel che aveva fatto suo padre. Erano passati dieci anni, da allora, ma qualche viaggio all’estero per non dimenticarselo e rinfrescarlo se l’era permesso, dacchè  i suoi problemi economici erano finiti: c’era da guadagnarci, e bene, a spillare soldi all’avvocato, al manager, al politico rampante, all’industrialotto. Abbastanza da sperare di metter su una boutique o un salone di bellezza e di piantarla presto, con quella vita.Anche se aveva le mani bucate, un po’ per vizio, un po’ per necessità e faceva fatica a contenersi. Anche se, presto, avrebbe avuto bisogno di molto denaro per cambiare vita. Questa volta davvero.

 

“…Non c’è dolore,no…”

 

Come sotto anestesia, e c’era finita tante volte, per diventare quello che era diventata: quasi un metro e ottanta di statura, un corpo esile da mannequin, il caschetto di capelli biondo scuro creato per lei dai Vergottini, i parrucchieri che pettinavano le star della moda e della tv. Aveva anche sfilato, qualche volta, ma non era quello il suo mestiere , e poi c’era troppa concorrenza. Gli stilisti volevano le ragazzine, in passerella, e lei aveva quasi trent’anni.

 

Parcheggiò la macchina poco distante ed esibì l’invito, prima di entrare all’Hollywood. Gli addetti all’ingresso e anche parecchi dei vip che stavano dentro non la conoscevano. E’ un’attrice, una modella. Forse è straniera. Dev’essere la donna che sta con lui.

 

Cantava bene, ma a chi era andato a vederlo non importava un cazzo di niente, che cantasse bene o male. Sembrava un ragazzo qualsiasi, un atleta in vacanza: alto ma non altissimo, prestante, proprio come nei suoi film, forse anche di più. Capelli lunghi, quasi biondi. Occhi grandi, quasi azzurri. O quasi verdi. Acuti, intelligenti. Tristi. Ma tristi perché? Aveva fascino, soldi a palate, tutte le donne del mondo che gli morivano ai piedi. Dovrei essere triste io, non tu, che dalla vita hai avuto tutto, si ritrovò a pensare con stizza, mentre la musica andava. Bella voce, anche se le canzoni le sembrarono un po’ ripetitive. E parole che venivano dal cuore. Forse, più che triste, era incazzato: sui giornali pettegoli che leggeva dal parrucchiere c’era scritto che aveva un caratteraccio e perdeva facilmente le staffe, ma è anche vero che certi giornali raccontano balle. E che, non si fosse trattato di una serata di beneficenza, organizzata allo scopo di raccogliere fondi per i bambini poveri, c’era da uscire sul serio fuori dai gangheri, a sgolarsi davanti a un pubblico di uomini invidiosi che invece di starlo a sentire commentavano acidi circa il fatto che si fosse presentato davanti alla Milano che conta con quell’aria strafottente da bullo, la canottiera a vista sotto la camicia nera aperta e due dita di barba ispida sulla faccia; e le donne? Se il Gladiatore strafico e strabono avesse smesso di cantare e incominciato a spogliarsi, forse sarebbe stato meglio.

 

Aveva una disperata voglia di una sigaretta. Una voglia disperata e frustrante. E le orecchie piene del frastuono della musica, come sempre capita al termine di un concerto rock. Il Boss, Sting, gli U2… Li aveva visti tutti. Si cercò un angolino appartato, dove nessuno le avrebbe detto niente. Fumarsela, maledizione, fumarsela tutta quanta sino al filtro e poi un’altra, e un’altra ancora… Il fumo fa male. Oh, al diavolo, si vive una volta soltanto. Il sapore del fumo le piaceva, e anche il tono rauco che dava alla sua voce incerta. Aveva iniziato a farlo quando aveva undici anni, e suo padre non le aveva mai detto niente. Erano ben altri i motivi per cui l’aveva cacciata da casa.

 

Maledizione, l’accendino… Doveva averlo dimenticato nella borsa che usava tutti i giorni e, se non riusciva a farsi venire la faccia di bronzo di alzarsi da quel divano e chiedere a qualcuno di accendergliela, sarebbe stato giocoforza rinunciare al piacere della sigaretta. Per sostituirlo con che cosa? Con un bicchiere di whisky? Col sesso? Rise piano, tra sé e sé, e non si accorse che lui le era scivolato vicino. Aveva gli occhi acuti e tristi, né azzurri né verdi, i capelli ondulati che gli accarezzavano le grosse spalle. Con un orrendo accendino di plastica gialla che s’era cavato fuori dalla tasca dei calzoni, le accese la sigaretta e le sorrise, prima di fare altrettanto con la sua.

-Thanks, Mr Crowe.

-Russell, darling. Russell only.

 

Mi sto annoiando, mate, accidenti… Non hai idea di quanto mi stia annoiando. A questa gente qui, di me non gliene importa un cazzo di niente. Posso stare un po’ con te? Anche tu non hai l’aria di divertirti troppo, mi sembra.

Un torrente in piena, una belva in gabbia apparentemente rilassata, in realtà infida. Sempre. Si stava annoiando. Proprio come lei. Se mi rivolgesse la parola, crollerei stecchita, aveva pensato, invece non era successo nulla. Lui rideva, quando lei gli chiedeva di ripeterle quel che non capiva. Fallo lentamente. Slowly. I don’t understand, I’m sorry… Aveva una voce rauca, cupa, seduttiva, i denti bianchi e gli occhi splendidi. Occhi da tigre. Era più magro di quanto apparisse sullo schermo, più gentile di quanto dicessero i giornali. Odorava di cuoio, di profumo e di pelle leggermente sudata.

Perché ti stai annoiando… Russell? Questo non è il mio mondo, ma… Nemmeno il mio, mate. Il mio mondo fottuto è il profumo delle arance, sono i miei amici, la mia terra, il mio cavallo e i miei cani… Questa gente non è la mia gente. Ma ti piace quello che fai… Recitare? E’ la mia vita. So di essere bravo. E me lo dicono. Casa mia è piena di targhe, pergamene, statuette… Posso prestare il mio corpo, la mia faccia e la mia anima a chiunque: a uno scienziato di mezz’età in crisi, a un eroe dei tempi antichi, a un poliziotto paranoico, ad un teppista odioso… E’ divertente svuotarsi di sé e riempirsi di un altro. E tu, che diavolo fai per guadagnarti da vivere?

 

Gli disse la prima cosa che le venne in testa, una mezza bugia e una mezza verità. Mi occupo di pubbliche relazioni. Una frase che diceva tutto e non diceva niente. Tu ammazzi il tuo tempo libero cantando, io dipingendo. Ho letto che ti piacciono i cani. Anch’io ho un cane, si chiama Gladiatore. Noo, tu non c’entri, ha già quattro anni. Un bull terrier. Buonissimo. Ma se gli salta la mosca al naso… Era poco più di un cucciolo quando ha fatto scappare un giovinastro che voleva scipparmi. A te non ti morderebbe: i cani riconoscono a naso chi li ama e chi non li può sopportare.

I cani sono dannatamente migliori degli uomini. Forse avrei dovuto dirla io, non tu, questa. Sei un uomo fortunato, Russell. Già, sono qui per questo: mi danno quindici milioni di dollari a botta, per fare quello che mi piace, ma al mondo c’è gente che vive solo per soffrire. E’ terribile, vedere un bambino africano torcersi dalla fame, sapere che sicuramente morirà e non poter far niente per impedirlo…Anzi, è peggio che terribile: è indecente. Sei profondo, Russell. Solo pragmatico. E le sorrise, facendo balenare le fossette sulle guance, tra i peli biondi della barba. Pragmatico, già: i palloni gonfiati e le damazze della Milano bene avevano sganciato fior di quattrini per far finta di sentirlo cantare. Quattrini che sarebbero stati investiti in una giusta causa, anche se era maledettamente frustrante, cantare parole che hai messo in musica dopo che ti sono uscite dal cuore per divertire, neanche fossi il loro pagliaccio, la contessa, il politico o l’industriale per i quali l’importante era esserci e quello soltanto.

 

Non mi hai ancora detto come ti chiami. Io… Loredana. E tu, ti chiami proprio così o il tuo è un nome d’arte? Russell Ira Crowe. Non mi piacciono le cose false. Io sono sempre io, che reciti nei panni di qualcun altro o sia quello che ama gli animali, i libri, la birra, il calcio, la musica e scorrazzare in Harley Davidson, quello che si diverte come un matto a far imbufalire i giornalisti e che infarcisce i suoi discorsi di paroloni e parolacce. Russell Ira Crowe, quello vero.

 

Si accese un’altra sigaretta, l’ennesima. La guardò attraverso le volute di fumo, con i suoi grandi occhi che non erano azzurri e non erano verdi, e sembravano capaci di leggerle dentro. Mi piaci, mate. Sei bella e sei vera. E t’importa sul serio, di me e di tutti gli altri. Già, mi son dimenticato di metterci le donne che sanno ascoltarti sul serio e non per finta, tra le cose che mi piacciono. E tu piaci a loro, pensava lei mentre quegli occhi che, al cinema, aveva visto balenare, feroci e disperati attraverso le fessure di una maschera spaventosa, la guardavano acuti e maliziosi e la bocca si avvicinava alla sua. Una bella bocca, piccola, tenera e un po’ infantile. Una bocca che sapeva baciare meravigliosamente bene, proprio come nei film: Lucilla, Lynn, Ellen. Grace… Addio, Russell. E’ stato un piacere conoscerti. E’ stato bello parlare con te, e come baci... Quello non lo dimenticherò mai, campassi mille anni. Davvero.

 

“…Nessun dolore…no”

 

Come sotto anestesia. Il dolore sarebbe arrivato al risveglio, e sarebbe stato terribile da sopportare per chissà quanti giorni.

Farai morire tua madre. Mi vergogno di te. Fuori da questa casa. Perché non sono quello che avreste voluto, il figlio scavezzacollo a cui piace smanettare con i motori e scalmanarsi allo stadio, ma una femminuccia piagnucolosa che adora acconciarsi di nascosto con i vestiti e i trucchi delle sue sorelle? Perché non sono quello che si scoperebbe tutte le donne che guarda e si sente prigioniero di un corpo che non gli appartiene? Perché s’è dato un’identità fittizia a forza di ormoni ingurgitati di nascosto, di interventi chirurgici costosi e dolorosi, di ritocchi estetici ripetuti con maniacale insistenza, fino ad ottenere la pelle liscia, le labbra carnose, il seno tondo dei sogni? Perché per vivere e per sperare, prima o poi, di liberarsi dalla prigione di un corpo sbagliato ed essere finalmente se stessa, si prostituisce? E che potrebbe fare, d’altro, nelle condizioni in cui si trova? Perfino il padrone del pub di Bristol dove aveva lavorato e si era fatta benvolere per sei mesi l’aveva cacciata via non appena aveva saputo, e dire che in Inghilterra hanno una mentalità aperta, non quella dell’operaio tutto d’un pezzo emigrato dal Sud e imbottito di pregiudizi che era suo padre.

Il dolore, al risveglio, sarebbe stato terribile e l’avrebbe accompagnata per diversi giorni. Ma avrebbe sopportato senza lamentarsi e il suo corpo non le sarebbe più stato estraneo. Mi piaci perché sei vera, le aveva detto, prima di baciarla, il grande attore, l’uomo che era nei sogni di tutte le donne, lo straniero spaesato come un cucciolo sbalestrato da una cuccia soffice e calda in un mondo non suo, un mondo freddo ed estraneo, fatto di grandi piedi pronti a prenderti a calci. E pensare a quel bacio le sarebbe stato di conforto.

Lalla, 5 settembre 2001

Questo racconto è dedicato alla memoria di Fabrizio de Andrè e a “Princesa”. Perché Loredana ha molto di lei.

 

Questo sito e' creato, mantenuto e gestito da lampedusa. Se hai bisogno di contattarmi, scrivimi all'indirizzo lampedusa@tin.it. Se hai delle informazioni da segnalarmi, contattami via email. Il sito e' online dal 21 febbraio 2001. Pagina creata il 25/09/2001 - aggiornata 15/03/2003