Le Fan Fiction di croweitalia

titolo:  Zucchabar
autrice: Ilaria Dotti 
e-mail: droit_et_loyal@telvia.it
data di edizione: 28 giugno 2002
argomento della storia: sempre e solo Massimo Decimo Meridio
riassunto breve: Questa è un’altra versione del film. Che cosa sarebbe successo se Proximo non avesse mai comprato Massimo al mercato degli schiavi di Zucchabar? (Ilaria)
lettura vietata ai minori di anni: 
note: (per leggere le altre storie scritte da Ilaria consulta l'elenco delle fanfiction)

 

Zucchabar

 

 

 

PARTE PRIMA

 

 

1 - IL MERCATO DEGLI SCHIAVI

 

La calura intorno a lui era pesante ed oppressiva, molto diversa dal clima freddo e umido a cui si era abituato in Germania. L’aria era spessa, calda e polverosa e questo gli causava problemi a respirare. Non che gliene importasse più di tanto: era così debole e febbricitante che anche tenere la testa alta costituiva per lui uno sforzo sovrumano.

Il mercato degli schiavi che lo circondava brulicava di attività, come un esercito prima di una battaglia decisiva, ma gli odori e i rumori a stento penetravano la sua mente intontita dal dolore.

Gli occhi di Massimo erano fissi su di un punto molto lontano dal posto dove si trovava, e la mancanza di luce nelle sue pupille verdazzurro rifletteva il vuoto che provava nell’anima e nel cuore. La sua famiglia non c’era più, il suo imperatore non c’era più, la sua vita non c’era più…Adesso era uno schiavo senza diritti e senza alcun controllo sul proprio destino, ma non gliene importava niente. Se avesse avuto fortuna, la sua vita avrebbe avuto termine entro breve, permettendogli di ricongiungersi a sua moglie e a suo figlio nell’altra vita. Quella era la sua sola speranza.

Due uomini si avvicinarono ai pali a cui gli schiavi erano incatenati e Massimo riconobbe in uno di loro colui che l’aveva catturato. Il trafficante di schiavi stava decantando le doti del suo lotto, specialmente quelle del giovane numida che aveva salvato la vita di Massimo, prendendosi cura della sua ferita durante la lunga traversata nel deserto. L’altro uomo era alto e grosso, con la barba grigia e indossava abiti neri. Stava ascoltando il suo interlocutore con un orecchio solo, intento com’era a trarre le proprie conclusioni in merito agli schiavi che andava esaminando.

Alla fine i due giunsero vicino a Massimo e l’acquirente premette la ferita coperta di larve di mosche con la punta di un bastone. Il dolore gli saettò al cervello, ma Massimo non reagì: non aveva abbastanza energie per farlo.

“Il marchio delle legioni,” commentò l’uomo vestito in nero vedendo il suo tatuaggio con la scritta SPQR. “Un disertore?”

Massimo non rispose.

“Può essere,” rispose il trafficante beduino, “Ma che importa? E’ un ispanico.”

“Uhm…Ne prendo sei per mille sesterzi.”

“Mille sesterzi?!? Il numida, da solo, ne vale almeno duemila!” protestò il mercante di schiavi.

L’altro si allontanò da lui e, passando, spinse avanti la testa di Massimo, “I tuoi schiavi sono ridotti male.”

“Questo aggiunge sapore alla lotta.”

L’acquirente se ne stava andando e il beduino aggiunse, velocemente, “Aspetta! Aspetta! Aspetta! Possiamo trattare.”

“Te ne darò duemila e quattromila per le bestie. Fanno cinquemila per un vecchio amico.”

Massimo ascoltò la conversazione come se si stesse svolgendo lontano da lui e non lo riguardasse affatto. Infine, i due uomini tornarono indietro e quello con la barba grigia cominciò a urlare ordini ai servitori che lo seguivano.

“Prendete questo, questo e quest’altro.” disse indicando gli schiavi e i suoi servi si affrettarono ad aprire i lucchetti delle catene che tenevano i nuovi acquisti legati ai pali. Uno di loro armeggiò con le catene di Massimo, ma la voce del padrone lo bloccò.

“Lascialo stare. Quella ferita può ancora ucciderlo prima che io possa mandarlo nell’arena e non ho denaro da sprecare. Prendi l’altro.”

Massimo osservò con gli occhi semichiusi gli altri schiavi che venivano condotti via, incluso il giovane numida che lo aveva aiutato, e trovò dentro di sé la forza di domandarsi cosa il destino avesse in serbo per lui.

 

2 - OTTAVIA

Ottavia stava camminando nel mercato degli schiavi, cercando di non rammentare le sue passate esperienze in posti come quello. Non aveva importanza il fatto che lei fosse ora una donna libera, il ricordo orribile dello smembramento della sua famiglia e delle ispezioni degradanti a cui era stata sottoposta la tormentava ancora.

La giovane ventiduenne stava visitando il mercato alla ricerca di un uomo che potesse aiutarla nel disbrigo dei lavori più pesanti, nel podere che possedeva poco fuori città. Sin dalla morte di suo marito, aveva potuto contare sull’aiuto di un bracciante di condizione libera, che però l’aveva lasciata di recente, avendo ricevuto l’offerta di un lavoro migliore, e gli altri suoi lavoratori erano troppo anziani per assumersi anche quell’impegno.

Era il tardo pomeriggio e Ottavia comprese che gli schiavi migliori erano già stati venduti, tant’è vero che poteva vedere solo dei ragazzini denutriti e qualche vecchio coperto di piaghe, troppo deboli per i compiti che intendeva assegnargli.

All’improvviso i suoi occhi furono attirati dalla sagoma robusta di un uomo più giovane, incatenato nel bel mezzo di un’area completamente vuota. Mosse nella sua direzione e gli si fermò di fronte.

Notò subito che aveva la febbre ed un’orribile ferita, ma vide anche quanto fossero muscolose le sue braccia, spalle e schiena. Poteva essere lui l’uomo che andava cercando, se il suo prezzo non fosse stato troppo alto.

“Posso aiutarti, signora?” le domandò il mercante, che aveva notato l’interesse della bella ragazza.

“Quanto vuoi per lui?”

“Quattrocento sesterzi.”

Ottavia strizzò gli occhi e controbatté, “Trecento.”

Il beduino incrociò le braccia sul petto, lanciò un altro sguardo al suo schiavo e disse, “Trecentocinquanta. Non uno di meno.”

La donna ci pensò per alcuni istanti, quindi annuì, “D’accordo.” E tirò fuori una piccola borsa di cuoio piena di monete.

Il trafficante sorrise soddisfatto: era riuscito a liberarsi d’uno schiavo malato guadagnando più di quel che avesse sperato! Certo, se quell’uomo fosse perfettamente guarito dalla ferita, avrebbe finito con il valere molto di più di trecentocinquanta sesterzi, ma era un grosso “SE”…Preferiva avere un uovo oggi che una gallina domani.

Ottavia porse il denaro al mercante, che lo contò. Quando ebbe terminato, egli annuì e chiese, “Debbo aiutarti a portarlo a casa, mia signora? Non ho altri schiavi da vendere, potrei accompagnarti.”

Ottavia guardò il suo nuovo acquisto e disse, “Grazie, ma non è necessario.”

“Come desideri.” Il beduino aprì il lucchetto e tolse la catena dal palo, offrendone un’estremità a Ottavia. “Alzati, Ispanico, e va’ con la signora. Sii un buon lavoratore, non voglio sentire lamentele a proposito della mia mercanzia!” L’uomo sghignazzò e mollò una pacca sulla schiena dello schiavo, abbastanza forte da sbatterlo quasi a terra.

Ottavia guardò preoccupata l’Ispanico barcollare, quindi, tirando leggermente la catena, lo guidò fuori dalla piazza del mercato, fino al luogo dove il suo carretto li stava aspettando

 

3 - UN NUOVO DOVERE

 

Massimo si svegliò sentendo un gallo cantare molto vicino a sé. Aprì gli occhi e si guardò intorno. Grazie alla luce che entrava da una piccola feritoia, vide che si trovava in una stanzetta arredata con semplicità ma pulita. Udì un tintinnio di chiavi e il suo sguardo si spostò in direzione dell’uscio che si trovava di fronte al pagliericcio dov’era sdraiato. La porta si aprì e una snella figura entrò nella stanza, avvicinandosi a lui.

“Ispanico,” disse una voce femminile, “Che piacere vederti sveglio! Spero che tu stia meglio.”

Massimo annuì con rispetto, riconoscendo la giovane che lo aveva acquistato al mercato degli schiavi diversi, e si domandò distrattamente quanti fossero, giorni prima. Lei si chinò su di lui, gli esaminò la piaga, che adesso era pulita e sorrise soddisfatta, “Sei tornato come nuovo.”

Massimo si mise a sedere con qualche difficoltà, ma senza la nausea e i capogiri dei giorni precedenti e mormorò piano, chinando la testa, “Domina, ti ringrazio della tua gentilezza.”

Lei gesticolò, “Ho bisogno che tu sia presto in piedi…Hai qualche esperienza di lavoro nei campi?”

Massimo impallidì mentre gli tornarono alla mente le immagini del suo podere a Trujillo, quindi annuì, “Sì, signora.”

“Bene, sembra proprio che tu sia proprio ciò di cui avevo bisogno.” Si alzò e soggiunse, “Oggi ti lascio riposare: comincerai a lavorare da domani.”

Massimo chinò la testa ancora una volta, poi la guardò allontanarsi e lasciare la stanza. Quando si ritrovò nuovamente solo, cominciò a riflettere sulla sua situazione. Era chiaro che la giovane dai lunghi capelli neri e gli occhi castani l’aveva comprato per aiutarla nella sua fattoria, forse una delle piccole proprietà che lui aveva visto arrivando a Zucchabar. Massimo sospirò rassegnato, non perché il prospetto di dover lavorare fosse così terribile, ma perché il suo senso del dovere, che aveva creduto morto e sepolto con il resto della sua vita, stava tornando in lui. Sapeva che la donna aveva speso una discreta somma per acquistarlo e, nonostante il suo cuore spezzato non desiderasse altro che raggiungere la sua famiglia nei Campi Elisi, la sua testa e la sua coscienza gli ingiungevano di vivere, per ripagare la donna che l’aveva curato e che contava sul suo aiuto. Non gli piaceva, ma non aveva scelta.

 

*****

 

Ottavia chiuse la porta, ma non a chiave. In cuor suo sapeva che l’Ispanico non avrebbe tentato di scappare e non solo a causa della sua debolezza: era qualcosa che lei gli aveva letto negli occhi… Ottavia scosse la testa: doveva essere prudente, perché la sua natura fiduciosa aveva spesso fatto sì che gli altri ne approfittassero, ma sapeva che non avrebbe mai potuto dimostrarsi una cattiva padrona. Aveva sofferto molto a causa di proprietari crudeli, finché suo marito non l’aveva comprata e riscattata, e non si sarebbe comportata come loro. L’Ispanico le era piaciuto fin dal principio, ed ancora più mentre si era occupata di lui durante il suo delirio. Era un uomo forte e, malgrado non sapesse come fosse finito schiavo, era certa che quell’ex soldato non fosse un disertore. I suoi occhi erano troppo onesti.

Un grido di gioia la stappò alle sue riflessioni. “Mamma!”

Ottavia voltò la testa e sorrise, vedendo sua figlia Marzia correrle incontro. La piccola le si avvicinò e, tirandola per la tunica, esclamò, “Ho fame, mamma! Voglio la mia merenda!”

Ottavia carezzò con la mano la capigliatura bruna della bambina e disse, “Quante volte ti ho detto che non devi usare continuamente la parla “voglio”. Devi dire: “posso avere la mia merenda, per favore?””

Marzia abbassò gli occhi e brontolò, “Posso avere la mia merenda, per favore?”

Ottavia sorrise e disse, “Certamente cara. Vieni con me.”

E madre e figlia scomparvero lungo il corridoio.

 

4 - MARZIA

 

Massimo si asciugò il sudore dalla fronte con l’avambraccio e guardò il recinto che aveva appena finito di riparare. Si fermò un attimo a riposare ed un sorriso soddisfatto gli comparve sulle labbra, illuminandogli brevemente lo sguardo. Udì un rumore provenire da dietro di lui e, girandosi, si accorse che si trattava della padrona. “Domina,” la salutò con rispetto.

Ottavia trattenne a stento uno sbuffo: gli aveva detto centinaia di volte che non voleva essere chiamata in quel modo, ma sembrava che l’Ispanico da quell’orecchio rifiutasse di sentirci.

“Hai fatto un ottimo lavoro, come al solito.” Si complimentò, ammirando il suo operato.

Massimo non le rispose, limitandosi ad inchinare la testa.

Ottavia gli andò vicino, ammirando con lo sguardo il petto nudo e le braccia muscolose. Lo spietato sole africano gli aveva abbronzato la pelle e schiarito la capigliatura e la barba ben curata, e lei si disse da sé sola, “Dei, quanto è bello…”

Già da mesi si era resa conto che i sentimenti che provava per quell’uomo forte e taciturno erano ben diversi da quelli che avrebbe dovuto avere per uno schiavo, ma era sola da così tanto tempo…Ottavia gli osservò il viso e, per l’ennesima volta, sentì il desiderio di accarezzarglielo, e far svanire la malinconia che sembrava aleggiare in fondo ai suoi occhi verdazzurro. Scacciò via quei pensieri e gli disse, “Vieni con me, ho bisogno di sentire il tuo parere a proposito di una certa faccenda.”

Massimo annuì e la seguì a qualche passo di distanza, come il suo status di schiavo richiedeva. Ottavia roteò gli occhi, poiché quella era un’altra pratica che detestava, ma non commentò.

Mentre stavano percorrendo il sentiero polveroso che conduceva dai campi alla casa, Massimo si trovò a ripensare alla sua vita nell’ultimo anno ed al cambiamento che era avvenuto dentro di sé. Agli inizi, quando aveva cominciato a lavorare presso il podere, l’aveva fatto solo per un senso di dovere e responsabilità, svolgendo il suo compito meglio che poteva, ma senza metterci il cuore. Tuttavia lentamente, senza che se ne rendesse conto, aveva abbandonato la sua prigione di pena e di dolore, e aveva ripreso un’altra volta a vivere. Aveva fatto amicizia con gli altri lavoranti, un uomo e due donne molto più vecchi di lui, e ad eseguire il suo lavoro con passione, proponendo e realizzando migliorie alle colture. La padrona gli aveva assegnato incarichi di sempre maggiore responsabilità e lui li aveva accettati con piacere, soddisfatto di potersi rendere utile.

Una voce che lo chiamava attrasse l’attenzione di Massimo ed egli sorrise vedendo Marzia, la figlioletta di Ottavia, il piccolo terremoto di quattro anni che gli aveva preso il cuore dal primo istante in cui l’aveva conosciuta.

“Ispanico!” gridò la bambina correndogli incontro e Massimo si chinò, pronto a ricevere il suo abbraccio.

Ottavia osservò il suo gigante buono, come lo aveva soprannominato lei, prendere la piccola tra le braccia e farla piroettare in aria, provocando la sua allegra risata. Marzia non conservava ricordo del padre, morto quando lei non aveva ancora imparato a camminare, e Ottavia era felice del suo legame con quell’uomo, il suo grande amico, come lei lo chiamava. Di fatto, la bambina era stata la prima a rompere il muro di silenzio e solitudine nel quale l’Ispanico era vissuto dal momento del suo acquisto, avvicinandosi a lui una sera, mentre stava cercando di nutrire un vitellino la cui mamma era morta. Con la sua innocente curiosità, Marzia era stata in grado di provocare una reazione nel coriaceo ex soldato e da quel momento, l’affetto tra la bimbetta e l’adulto era cresciuto ed era diventato sempre più profondo. A volte, Ottavia provava un irrazionale sentimento di gelosia per le attenzioni che sua figlia riceveva da quell’uomo tanto attraente…Avrebbe voluto che guardasse anche lei con gli stessi occhi dolci, come stava facendo in quel momento, mentre ascoltava Marzia.

“Dove vai?” domandò la bambina, le braccia strette intorno al collo dell’uomo.

“Non lo so, padroncina. Sto seguendo tua madre.”

Marzia si voltò verso la madre e le chiese, “Posso venire con voi?”

“Certo.”

“Bene,” sussurrò la piccola, sistemandosi confortevolmente in braccio al suo grande amico.

I due adulti si scambiarono un sorriso, poi continuarono a camminare.

Dopo pochi minuti raggiunsero dopo pochi minuti la stalla, dove un uomo che Massimo non aveva mai visto prima li stava aspettando vicino a un bel cavallo dal mantello sauro. Massimo si voltò verso la padrona, inarcando un sopracciglio con aria interrogativa e lei disse, “I nostri vicini hanno bisogno di soldi per fare la dote alla figlia così hanno deciso di metterlo in vendita. Poiché hanno bisogno del denaro subito, non possono aspettare e portarlo alla fiera, perciò mi hanno chiesto se mi interesserebbe comprarlo. Vorrei che tu lo esaminassi e mi dessi la tua opinione.”

Massimo annuì, posò a terra Marzia e si avvicinò al cavallo, facendo leggeri rumori con la lingua. Gli accarezzò il collo muscoloso, quindi si chinò ed controllò con cura i tendini e gli zoccoli, toccando e palpando, flettendo le giunture per essere certo che non fossero doloranti. Quindi gli osservò gli occhi, la bocca, e ne ascoltò il respiro e il battito cardiaco. Quando ebbe terminato, ritornò da Ottavia che lo guardava ammirata.

“Signora, il cavallo è sano e potrà diventare, in un prossimo futuro, un ottimo stallone da monta. Ti consiglio di acquistarlo.”

“Mi hanno detto che non è ancora stato domato e so che ci vuole parecchio denaro per farlo…Non sono certa di potermi sobbarcare le spese dell’acquisto e quindi di poter pagare anche un addestratore.”

Massimo sorrise, “Lo domerò io, signora.”

Il cuore balzò in petto ad Ottavia, quando lo vide sorridere. Non appena ebbe riacquistato il controllo disse, con un po’ di meraviglia, “C’è qualcosa che tu non sappia fare, mio Ispanico?” E prima ancora che lui potesse aprir bocca, si avvicinò al venditore e gli lo pregò di portare il puledro nella stalla, visto che intendeva acquistarlo.

Marzia afferrò la mano di Massimo e, quando lo vide guardare giù, chiese di essere sollevata. Lui ubbidì e quando lei fu tra le sue braccia, disse, “E’ così bello, quel cavallo…”

Lui le sorrise è replicò, “Certo che lo è.”

“Quando sarò un po’ più grande, mi insegnerai a cavalcare?”

Il sorriso di Massimo si spense a quelle parole, le stesse che gli aveva detto suo figlio e che gli ritornarono alla mente…Anche Marco gli aveva chiesto d’insegnargli a cavalcare, ma lui non aveva mai avuto l’occasione di poterlo fare. L’ex generale ricacciò indietro le lacrime e cercò di mantenersi calmo, inghiottendo il groppo che gli serrava la gola, “Certo che ti insegnerò, padroncina.”

Marzia sorrise e, schioccandogli un bacio sulla ruvida guancia, disse “Grazie, Ispanico…Ti voglio tanto bene.”

“Anch’io te ne voglio, padroncina,” replicò lui mentre le lacrime minacciavano ancora di sgorgargli dagli occhi. Ma questa volta erano lacrime di gioia, perché sapeva che quelle parole erano assolutamente sincere. Aveva creduto che non avrebbe mai più provato amore per qualcuno dopo aver scoperto i suoi cari assassinati, ma quella bimbetta aveva operato un miracolo, e le era davvero grato di questo, perché grazie a lei aveva davvero ripreso a vivere invece di vegetare in attesa della morte.

5 - L’INCIDENTE

 

Era una bellissima mattina di primavera e Massimo, Ottavia e Marzia approfittarono della temperatura piacevole per visitare la fiera di Zucchabar. Ottavia voleva dare un’occhiata alle stoffe per confezionarsi alcuni vestiti e Massimo aveva bisogno di certi attrezzi per i suoi lavori nei campi. Marzia invece voleva solo stare un po’ con sua madre e con il suo adorato grande amico. Mentre passeggiavano per la fiera, molte persone si voltarono a guardarli, credendoli una qualsiasi famigliola felice. Massimo sembrava cieco alle occhiate che ricevevano dalle altre persone, intento com’era ad ascoltare gli entusiastici commenti di Marzia, ma Ottavia notò il modo in cui parecchie matrone osservavano il suo Ispanico che, vestito d’una semplice tunica marrone chiaro, si muoveva con grazia con la bimba in braccio. Ottavia gli andò più vicino e, possessiva, gli posò una mano sull’avambraccio. Massimo lanciò un’occhiata di straforo in sua direzione. Già da tempo l’ex soldato aveva scoperto come i suoi sentimenti nei riguardi della padrona fossero cambiati, e non sapeva cosa fare. Una parte di lui si sentiva colpevole perché credeva di tradire la memoria di sua moglie, ma l’altra parte non poteva fare a meno di notare il modo in cui Ottavia camminava e sorrideva, o quanto scintillassero i suoi occhi o, ancora, quanto fosse armoniosa la curva suo del seno. Inoltre era una madre meravigliosa e una competente, scrupolosa amministratrice del suo piccolo podere… Massimo sospirò in silenzio, scacciando via quei pensieri ed assaporando la carezza della mano di lei sul proprio braccio nudo

 

Appena raggiunta una bancarella di vestiti, Ottavia si mise a frugare in mezzo a tessuti di cotone, lino e seta esaminandoli con occhio competente, mentre Marzia si dava da fare per “aiutarla”.

Per una ventina di minuti, Massimo rimase al loro fianco in silenzio, finché Ottavia non notò la sua aria rassegnata e con un caloroso sorriso lo invitò a recarsi all’osteria in fondo alla strada dove si sarebbero fermati a mangiare. Massimo annuì con gratitudine e lasciò il mercato.

 

La taverna era piccola e fresca. Massimo si accomodò ad un tavolo e si perse nei suoi pensieri, aspettando Ottavia e Marzia. L’oste gli si avvicinò, poiché che non c’erano altri avventori, e i due cominciarono a chiacchierare.

Pochi minuti dopo, Ottavia entrò nel locale gridando, “Ispanico!”

Massimo si voltò subito, si alzò in piedi quindi, notando la sua espressione ansiosa, “Domina?”

“Ispanico, Marzia è scomparsa!” disse lei, terrorizzata.

“Cosa?!”

“Era con me al mercato, ma dopo che ho pagato mi sono accorta che non era lì…Che cosa facciamo?”

Massimo si sforzò di rimanere calmo e replicò, “Non dovrebbe essere andata lontano. Dividiamoci, e cerchiamola.”

Ottavia annuì e si tranquillizzò un poco, tanta era la fiducia che nutriva nei riguardi di quell’uomo. Pochi istanti dopo, schiavo e padrona lasciarono la taverna e si incamminarono, prendendo direzioni diverse.

Massimo si fece largo tra la folla che si ammassava nelle strade, movendo gli occhi a destra e a sinistra, scrutando ogni luogo, fermandosi ad osservare ogni faccia infantile che vedeva.

Dopo circa un quarto d’ora di metodica ricerca, scorse Marzia passeggiare sola e spaventata nell’area della fiera prospiciente il mercato del bestiame. Sospirò di sollievo e si diresse rapido verso di lei, sperando che la bambina non si dileguasse di nuovo. L’aveva quasi raggiunta, quando percepì un movimento alla sua destra. Si voltò e vide una biga correre veloce in direzione di Marzia. Era evidente che l’auriga aveva perso il controllo dei suoi animali e non era in grado di fermarli.

Massimo cominciò a correre, spingendo via la gente che gli bloccava la strada, gridando agitato all’indirizzo della bambina, “Marzia, spostati!” Ma con tutto il rumore che li circondava, la bambina non lo sentì e continuò ad osservare un agnellino legato lì vicino.

Massimo raggiunse Marzia e l’afferrò, togliendola dalla traiettoria della biga, ma non fece in tempo a scansarsi. Sentì gli zoccoli di uno dei cavalli abbattersi sulla sua gamba destra, provocandogli una lancinante fitta di dolore, ma continuò a rotolare via, tenendo con sé la bambina. Con il fiato mozzo, si sedette e controllò se Marzia fosse ferita. Stava bene, grazie al cielo era solamente spaventata. Massimo provò ad alzarsi, ma la gamba destra non resse il peso del suo corpo, ed egli cadde a terra. Si guardò l’arto e vide che formava, con il ginocchio, un’angolazione anormale. Imprecò sotto voce mentre Marzia gli gettava le braccia al collo, il corpo premuto contro il suo per cercare in lui conforto alla paura. Massimo abbracciò forte la bambina per calmarla, sperando che Ottavia arrivasse presto.

Attratta dalle urla della folla, Ottavia raggiunse l’area dove aveva luogo il mercato del bestiame. Vide che molte persone si erano riunite assieme ad osservare qualcosa e decise di chiedere informazioni.

“Che cosa è accaduto?” chiese a un’altra donna.

“Oh, c’è stato un incidente. Una bambina stava per essere travolta da una biga, ma un uomo l’ ha salvata. Però è rimasto ferito…Qualcuno ha chiamato un medico… Sarà qui al più presto.”

Un orribile presentimento attraversò la mente di Ottavia mentre ascoltava e, rapida, si fece largo tra la folla, vedendo finalmente con i suoi occhi quello che già sapeva avrebbe visto.

L’Ispanico e Marzia erano seduti fianco a fianco sulla strada polverosa, la faccia di lui contorta in una smorfia di dolore, le manine di lei che gli accarezzavano le braccia per confortarlo.

Ottavia si precipitò verso di loro e li raggiunse. “Come ti senti?” domandò, l’espressione preoccupata, mentre prendeva Marzia tra le braccia.

“Sono stato meglio,” rispose Massimo cercando di volgerla in battuta.

Fu allora che un uomo ben vestito ed una borsa di cuoio si avvicinò loro.

“Sono un medico, ”si presentò, “ Sono venuto ad aiutarti.”

“Sì,” annuì Ottavia sollevata, “Per favore, signore, aiutalo. Il prezzo del tuo servizio non ha importanza.”

L’uomo fece un cenno d’assenso con la testa e, con mani gentili ed esperti, esaminò la gamba di Massimo. “Uhm…,” commentò stringendo le labbra.

“Allora?” domandarono a una sola voce Massimo e Ottavia.

“La gamba è fratturata appena sotto il ginocchio. Sfortunatamente, i due tronconi dell’osso non sono allineati.”

“Che puoi fare? Puoi aiutarlo?” Chiese ansiosa Ottavia.

“Certo, posso ricomporre l’osso ma il lavoro va fatto subito. Vi invito ad aspettarmi qui, mentre torno al mio studio a prendere bende e assicelle di legno. Al mio ritorno, metterò a posto l’osso e steccherò la gamba.” Il medico smise di parlare, guardò un attimo il suo paziente e la donna e, al loro cenno di assenso se ne andò via veloce.

Marzia si avvicinò a Massimo e, con la sua vocina, gli chiese, “Va tutto bene?”

“Certamente!” rispose lui per rassicurarla, anche se in cuor suo non era così sicuro… Aveva visto parecchie gambe rotte, durante il suo servizio lungo la frontiera del nord, e sapeva che le ginocchia erano molto delicate. Massimo sentì piccole labbra posarsi sulla sua pelle e vide Marzia china sul suo ginocchio ferito. “Mamma dice che un bacino manda via il dolore e io volevo vedere se funziona anche con te.”

Massimo avrebbe voluto aprir bocca per risponderle, profondamente toccato da quel gesto innocente, ma il ritorno del medico glielo impedì.

L’uomo si avvicinò, porse bende e stecche a Ottavia, quindi si concentrò su Massimo.

“Ti farò molto male,” gli disse, “forse dovresti avere qualcosa da mordere.”

Massimo annuì e il medico gli diede un bel pezzo di stoffa che aveva tirato fuori dalla sua borsa. Massimo se lo mise in bocca, si posizionò, ed assentì: era pronto.

Il medico mise entrambe le mani a lato del ginocchio del suo paziente e spinse.

Una terribile fitta di dolore percorse l’intero corpo di Massimo che si irrigidì, prima di perdere i sensi e crollare tra le braccia di Ottavia.

 

6 - LIBERTA’

 

Dieci giorni dopo, Massimo sedeva nel piccolo cortile della villa con la gamba fasciata poggiata su una pila di cuscini. In mano, aveva una pietra che stava usando per affilare le lame di alcuni tra coltelli e falci. Se ne stava tranquillo a rimuginare tra sé, felice che il pulsare all’arto fratturato fosse scomparso. Un’ombra oscurò il sole e Massimo alzò la testa, incrociando con il suo sguardo quello di Ottavia. Sorrise e inchinò la testa nel salutarla, “Domina.”

Ottavia gli restituì il sorriso, si sedette su una panca accanto a lui e disse, “Smetti di lavorare per un attimo, ho qualcosa d’importante per te.” Lui posò i suoi arnesi e la guardò con curiosità. La voce di lei era risuonata un po’ strana alle sue orecchie.

Ottavia si schiarì la gola, quindi disse, “Dammi le mani.”

Lui ubbidì e lei posò un rotolo e una piccola borsa di cuoio sui palmi aperti. Quindi lo stupì schiaffeggiandolo sulla guancia. Lui alzò su di lei uno sguardo sorpreso e vide che c’erano lacrime negli suoi occhi della donna…Che stava succedendo?

Ottavia sorrise gentilmente alla sua espressione sconcertata e disse, “Dopo che avrai letto il papiro, tutto ti sarà chiaro.” Si interruppe un po’, quindi riprese, “Ho detto allo scriba di intestarlo all’Ispanico, perché non mi hai mai detto qual è il tuo vero nome.”

Più curioso che mai, Massimo fece come lei gli aveva detto, aprì il rotolo e lo lesse in fretta. Il respiro gli si fermò in gola quando finalmente comprese… Il documento, il tradizionale schiaffo sulla guancia, le monete nella borsa…Ottavia lo aveva di nuovo reso libero!

Alzò la testa e mormorò, “Grazie, domina… Non ho parole per esprimerti ciò che significa per me.”

“Era il minimo che potessi fare per te… Hai salvato mia figlia e sono io che non ho parole per ringraziarti per quello che hai fatto.”

Massimo guardò la borsa che aveva sul palmo della mano e Ottavia seguì il suo sguardo.

“Questi soldi dovrebbero essere sufficienti a pagare il tuo viaggio in Spagna.”

Massimo alzò la testa, “Vuoi che me ne vada?”

“Certo che no, ma pensavo avresti voluto tornare alla tua terra d’origine… e alla tua famiglia.” Aggiunse lei esitante, ricordando i nomi che gli aveva sentito urlare nel delirio della febbre.

Massimo scosse la testa, “Non ho ragione di tornare in Spagna. La mia famiglia è morta… la mia casa distrutta.”

“Mi dispiace,” disse lei, adirata con se stessa per avergli causato tutta quella tristezza. Quello avrebbe dovuto essere un giorno pieno di gioia per lui, e lei non voleva rovinarglielo.

“Se non ti dispiace, vorrei rimanere qui e lavorare per te. So che con tutta probabilità rimarrò zoppo per tutta la vita, ma potrei ancora esserti utile.”

Oh no, pensò lei, lui aveva interpretato il riferimento al viaggio come un modo per dirgli che non lo voleva più nella fattoria! Era arrivato il momento, decise, di manifestargli i propri sentimenti. Ottavia scivolò giù dalla panca e si inginocchiò vicino alla sedia dove se ne stava seduto. “Ispanico,” gli disse, “ti terrei qui anche se tu avessi solo una gamba… un braccio o un occhio. Non capisco come sia successo e so che forse non è il momento giusto per dirtelo ma… ma ti amo. Ti amo da tanto tempo e non voglio perderti.” E chinò il capo in attesa di una risposta.

Il cuore balzò in petto a Massimo, quando udì quella confessione… Lei lo amava! E lui amava lei… C’era voluto molto tempo per ammetterlo con se stesso, ma adesso ne era certo. Non avrebbe mai dimenticato la sua defunta moglie e suo figlio, ma ora amava Ottavia. Ruotò su se stesso e le prese il mento con la mano, costringendola a sollevare la testa e a guardarlo negli occhi.

“Anch’io ti amo, già da qualche tempo, ma fino ad oggi non ho potuto esprimerti i miei sentimenti.” disse lui, quindi sorrise, notando l’espressione raggiante che le si era dipinta sul viso.

“Davvero? Mi ami veramente?”

“Sì, certo, ti amo. Dopo la morte di mia moglie e di mio figlio, credevo che mai più mi sarei innamorato… Infatti, desideravo solo morire e raggiungerli nell’aldilà. Ma poi ho incontrato te e Marzia; voi avete dato un nuovo scopo alla mia vita, e adesso voglio solo restare qui, occuparmi di voi, rendervi felici.” Si fermò per alcuni istanti poi aggiunse,con la massima serietà, “Vuoi sposarmi, Ottavia?”

Gli occhi di Ottavia si spalancarono per la sorpresa, quindi gridò, “Sì! Centomila volte sì!”

Massimo le sorrise gentilmente. “Una è più che sufficiente.” scherzò, quindi batté la mano sulla coscia e le disse, “Vieni qui.” Ottavia si alzò da terra e gli si sedette con delicatezza in grembo, ben attenta a non poggiare il peso del corpo sulla sua gamba ferita.

Lui mise le braccia intorno alla schiena e l’attirò contro il suo petto, stringendola forte. Rimasero così qualche istante, quindi lui allentò la stretta, le sollevò il mento e chinò la testa a baciarla. Il bacio fu dolce, esitante in un primo momento, ma subito dopo divenne passionale e selvaggio, come se l’amore a lungo nascosto avesse assunto il controllo dei loro corpi. Infine si separarono, respirando affannosamente, un largo sorriso dipinto sui visi. Ottavia sospirò, felice, e mormorò, “Ma come baci bene, Ispanico…”

Lui sorrise e disse, “Massimo”

“Cosa?”

“Il mio nome è Massimo. Massimo Decimo Meridio per la precisione.”

“Massimo…” ripeté lei quasi assaporando il suono di quella parola, “Mi piace: un grande nome per un grande uomo.” Lui le sorrise ancora, prima di baciarla un’altra volta.

 

PARTE SECONDA

7 - NOTIZIE SPIACEVOLI

Massimo posò le braccia sulla staccionata e ci mise sopra il mento, mentre ammirava in silenzio il puledro nero che trotterellava dentro lo spazio recintato. Al suo fianco, un elegante ciccione continuava a saettare lo sguardo da Massimo al cavallo.

Infine l’uomo domandò con ansia, “Allora, Ispanico, che te ne pare del mio Bucefalo?”

Lo sguardo dell’Ispanico lasciò il cavallo per soffermarsi sul suo interlocutore. “E’ una vera bellezza, Proconsole: ha una splendida testa, gambe eleganti e groppa robusta,” replicò, astenendosi dal fare commenti a proposito della scarsa fantasia del grassone nello scegliere i nomi.

Il politicante s’illuminò compiaciuto, udendo le lodi che il miglior esperto di cavalli di tutta la provincia stava riservando all’animale. “Pensi di riuscire a domarlo per la fine del mese prossimo?”

Massimo rifletté per qualche istante, quindi annuì, anche se non era affatto sicuro che quel puledro spiritato fosse il destriero adatto per un cavaliere così fuori forma.

Il Proconsole sospirò soddisfatto e commentò, “Sono intenzionato di farne omaggio al nostro Cesare…”

Intendendo la parola “Cesare” Massimo sentì tutto il sangue defluirgli dalla faccia, ma grazie alla sua abbronzatura, il Proconsole non lo notò e continuò tranquillamente a parlare, “…si è imbarcato per un lungo viaggio nelle province africane e giusto ieri ho avuto l’annuncio che egli sarà qui verso la fine di ottobre. Non è una bellissima notizia? Io spero che la sua presenza porterà dei vantaggi a Zucchabar e conto di poter ottenere dei finanziamenti per la costruzione del nuovo acquedotto cittadino…”

Massimo riuscì solamente ad accennare con la testa un paio di volte, finché la mente gli si snebbiò e comprese la gravità della situazione.

Commodo stava per giungere a Zucchabar…

*****

Ottavia diede un’ultima occhiata al figlioletto addormentato, quindi soffiò sulla candela e scivolò tra le lenzuola, stringendosi al corpo caldo di suo marito. Con un breve sospiro, gli posò la testa sul petto, ascoltando i battiti del suo cuore. Dopo pochi istanti durante i quali nessuno dei due si mosse, Ottavia cominciò lentamente a coprirgli il torace e il collo di baci, ma, con sua grande sorpresa, Massimo la fermò dicendole, “Per favore, non questa notte.”

Gli occhi della donna si dilatarono per lo stupore, quindi lei domandò, “C’è qualcosa che non va, Massimo? Da quando sei tornato dalla villa del Proconsole, mi sembri un po’ strano.”

Massimo restò per qualche attimo in silenzio, pensando a quel che avrebbe detto, quindi sussurrò, “Oggi sono stato informato che Commodo verrà in visita a Zucchabar; sarà qui in ottobre.”

Ottavia riuscì a malapena a trattenere un suono inorridito. Prima che si sposassero, Massimo le aveva raccontato della propria vita passata e così lei era al corrente di come l’Imperatore fosse responsabile dell’assassinio brutale della prima moglie e del figlio di suo marito, della perdita delle sue proprietà e della sua riduzione in stato di schiavitù. Quando Massimo le aveva narrato il suo passato, non era rimasta sorpresa nell’apprendere che era stato un valoroso generale, comandante in capo delle legioni del nord (già da tempo aveva capito che suo marito era un uomo speciale) ma era rimasta stupita nell’apprendere che Marco Aurelio lo aveva designato suo erede al posto del figlio.

Ottavia ricordò l’espressione addolorata e lo sguardo gelido che Massimo aveva mentre le raccontava di come Commodo avesse ucciso il padre e ordinato la sua esecuzione e il massacro della sua famiglia e s’irrigidì all’improvviso, temendo che il suo amato potesse approfittare di quella visita inattesa per mettere in atto la sua vendetta contro l’imperatore.

Massimo percepì la tensione del corpo della moglie e, intuiti i suoi pensieri, cercò di calmarla dicendole, “Non preoccuparti Ottavia, non ho intenzione di fare pazzie. Se fossi solo, forse potrei provare a mettere in atto la mia vendetta, ma non sono solo… Ho te, Marzia e il piccolo Massimo a cui badare, quindi, per favore, tranquillizzati e stai calma.”

“Sono felice di sentirtelo dire.” Mormorò Ottavia, prima di baciarlo con tenerezza.

Massimo ricambiò il gesto con passione, negando la sua stessa affermazione. Ottavia sorrise e gli mormorò, con fare seduttivo, “Hai cambiato idea, mio Ispanico?” Quelle parole erano ora il suo nomignolo più intimo per lui.

Suo marito le carezzò il corpo voglioso e replicò con gentilezza, “Ogni tuo desiderio è un ordine, domina.”

Le loro labbra si incontrarono nuovamente ed entrambi si persero nel reciproco abbraccio, dimenticando all’istante tutte le loro preoccupazioni.

8 - GIUNGE L’IMPERATORE

Agosto e settembre trascorsero in fretta e con l’approssimarsi del mese di ottobre la città di Zucchabar si immerse in una miriade di attività per prepararsi ad accogliere degnamente l’Imperatore.

Per Massimo Decimo Meridio, quelli furono probabilmente i mesi più difficili della sua vita. Come aveva detto alla moglie, l’idea di avere Commodo così vicino lo rendeva nervoso e ansioso. Temeva quello che avrebbe potuto fare se si fosse trovato faccia a faccia con l’imperatore. Il soldato che era in lui non era morto, era ma semplicemente addormentato dentro il tranquillo fattore e addestratore di cavalli, e l’odio che provava per il modo in cui Commodo aveva trattato la sua famiglia, era cresciuto quando era venuto a conoscenza di come costui mal governasse l’impero. Tuttavia Massimo si era ripromesso di non interferire nella situazione onde evitare di mettere la sua attuale famiglia in una situazione di pericolo.

*****

“Ispanico, sei davvero grande!” esclamò il proconsole Licinio ammirando come Bucefalo rispondesse prontamente ai comandi che l’addestratore gli dava.

Massimo sorrise e balzò di sella, incamminandosi verso il limitare del recinto, seguito dal puledro. Aveva sempre amato cavalcare ed era grato agli dei che la sua zoppia non gli impedisse di trascorrere molto tempo in sella. Gli piaceva domare i cavalli e i suoi metodi di addestramento, basati sulla pazienza e la gentilezza, piuttosto che sulla coercizione e le bastonature com’era consuetudine, erano molto apprezzati in tutta la provincia, garantendogli molto lavoro e cospicui guadagni per il benessere della sua famiglia.

Zoppicando, Massimo si avvicinò ai cancelli e diede le redini di Bucefalo a uno schiavo del Proconsole, che portò via l’animale.

Licinio, entusiasta di ciò che aveva appena visto, non esitò a mettere in mano a Massimo una borsa piena di monete e a battergli sulla spalla dicendo, “Hai fatto un lavoro meraviglioso: adesso il mio cavallo è un dono degno di un Imperatore!”

Il sorriso scomparve dal viso di Massimo, che domandò, “Quando arriverà?”

“Dovrebbe essere qui per le Idi… Di certo verrai in città ad ammirare il corteo, vero?”

Massimo mosse la testa e al Proconsole sembrò che avesse accennato a un sì… In realtà l’ex generale non aveva alcuna intenzione di recarsi in città fintantoché Commodo fosse rimasto lì.

*****

Tuttavia, come spesso accade nella vita, il fato decise diversamente e il giorno successivo alle Idi di ottobre, Massimo lasciò il suo podere per recarsi in città. Uno dei morsi speciali da lui usati per la doma si era rotto ed era necessario farlo riparare da un fabbro. Così saltò in groppa a Tago, lo stallone sauro che Ottavia aveva comprato due anni prima dietro suo consiglio, e si preparò ad andarsene. Aveva appena iniziando a guidare l’animale fuori dal cortile quando sentì la voce di Marzia chiamarlo. Si voltò e vide la bambina corrergli incontro, prima di rallentare e mettersi a camminare, quando lei si ricordo che le era stato insegnato a non correre appresso ai cavalli.

Marzia gli si fermò vicino e gli chiese, “Posso venire con te?”

Massimo avrebbe voluto rifiutarsi, ma lo sguardo supplichevole della bambina glielo impedì… C’era qualcosa in quegli occhi che gli rendeva impossibile dirle di no e sospettava che Marzia questo lo sapesse bene! Sorridendo tra sé e sé, si chinò sulla sella, tese le braccia alla bambina e la prese su, facendola sedere tra le proprie gambe.

“Pronta?” domandò Massimo e Marzia assentì, afferrando la criniera del cavallo. Egli toccò leggermente con i talloni i fianchi dell’animale e partì al trotto in direzione della città, senza immaginare la sorpresa che gli dei avevano in serbo per lui.

9 - LUCILLA

L’Augusta Lucilla stava passeggiando per le viuzze polverose di Zucchabar, osservando come viveva la gente del posto. Ciò era dettato dalla curiosità di conoscere le costumanze locali, ma anche dalla necessità di constatare i danni provocati da quasi quattro anni di malgoverno di suo fratello. Al loro arrivo, due giorni prima, la città aveva allestito una grande celebrazione, ma era chiaro come la maggioranza dei cittadini fosse stata costretta ad assistervi. Il malcontento dilagava per tutta la provincia, alla stessa maniera di quanto avevano visto nelle altre città da loro visitate di recente. C’erano state anche delle ribellioni, in alcune regioni dell’impero, ma tutte erano fallite e soffocate nel sangue, per la mancanza di organizzazione con cui erano state condotte.

L’attenzione di Lucilla fu attratta da un confuso rumore e, vedendo come alcuni Pretoriani stessero trattenendo una folla di mendicanti di fronte a lei, decise di abbandonare la strada principale e di voltare in una delle vie secondarie, seguita dai suoi cortigiani. Il vicus, su cui si affacciavano numerose botteghe era deserto, eccettuata la presenza di due persone che camminavano davanti a lei: un uomo dalle spalle larghe, che zoppicava leggermente dalla gamba destra, e una bambina di sei, sette anni. L’uomo teneva nella propria grande mano quella della piccola e aveva la testa piegata sul lato, come se stesse ascoltando con attenzione i discorsi della sua giovane interlocutrice.

Ad un tratto, la bambina si fermò e disse a voce alta, indicando l’ingresso di una bottega che avevano appena superato, “Possiamo guardare lì dentro?”

Lucilla sorrise quando udì quel tono concitato, notando che la bambina aveva “puntato” la bottega di un copista, ma il suo sorriso si spense non appena udì il resto della frase.

“Dai, Massimo, entriamo dentro!”

L’uomo e la bambina si fermarono e si voltarono, ma Lucilla non li vide, persa com’era nei ricordi.

Massimo. Quel nome causava ancora dolore e rimpianto nel suo cuore, perfino dopo quattro anni. Un’immagine apparve davanti ai suoi occhi: un bellissimo viso fiero…due occhi color acquamarina…un corpo così forte eppure capace di gesti tanto teneri…

Lucilla sentì una gran rabbia montarle dentro: a cosa serviva lasciarsi andare ai rimpianti? Perché continuava a torturarsi con i ‘se’ , i ‘ma’ e i ‘forse’? Chiuse gli occhi per scacciare i ricordi, ma quando li riaprì, quella faccia emersa dal passato era ancora lì. Anche se sembrava un po’ diversa da come lei la ricordava.

Molto più abbronzata.

Leggermente invecchiata.

Viva.

Lucilla si portò una mano alla bocca per soffocare un grido di stupore, quindi sussurrò, “Massimo…”

Allungò una mano esitante per toccargli il braccio, prima di ritrarla di scatto. Cercò un’altra volta di parlargli, ma lo sguardo di lui glielo impedì e allora capì: c’erano troppi testimoni.

L’azione si svolse in pochi secondi, e Massimo la concluse facendosi da parte con un profondo inchino e lasciandola passare. “Augusta Lucilla…” disse rispettosamente, senza tradire un briciolo del proprio sconvolgimento.

Lucilla accettò il suo omaggio con la stessa graziosa indifferenza con cui aveva accettato quello degli altri cittadini e se ne andò, seguita dai servitori e dalle guardie, riuscendo a stento a trattenersi dal voltarsi a cercarlo, mentre la sua mente si abbandonava a frenetiche congetture. Come aveva fatto Massimo a sfuggire ai pretoriani incaricati di ucciderlo? Perché si trovava a Zucchabar? E, più importante di tutto, che cosa poteva significare, per Roma, la sua presenza?

10 - UNA VISITA

 

Massimo era seduto nel portico della sua villa, intento a compilare il libro mastro sulle attività del podere, ma quel pomeriggio gli era pressoché impossibile concentrarsi sulle cifre. Il suo incontro con Lucilla risaliva a poche ore prima e, non solo doveva ancora riaversi del tutto riavuto dallo sconvolgimento, ma l’istinto gli diceva che presto si sarebbero incontrati un’altra volta.

Massimo alzò gli occhi dalla tavoletta incerata e per l’ennesima volta maledisse la propria stupidità, per essersi recato in città quando sapeva che l’imperatore e il suo seguito erano lì. Ma, d’altra parte, il nuovo morso gli era necessario per il lavoro: aveva parecchi cavalli da domare e non poteva lasciarli fermi per più di due giorni.

Contro la propria volontà, la sua mente formò l’immagine di Lucilla ed egli vide ancora il viso pallido e stanco di lei, così diverso da quello della giovane donna che aveva conosciuto anni prima. Così diverso dal viso di una donna serena.

Un leggero rumore lo distrasse e Massimo si voltò verso la culla dove suo figlio stava giocando con un sonaglio di terracotta, agitando in aria le gambe. Con un tenero sorriso egli si alzò, si avvicinò alla culla e, chinatovisi sopra, cominciò a solleticare con delicatezza il pancino del piccolo Massimo che reagì afferrando le dita del padre e gorgogliando ancora più forte. L’Ispanico continuò a muovere piano l’indice e ad emettere piccoli versi con le labbra.

Poco dopo, un servo entrò nel portico mettendo fine a quel breve momento di gioco.

“Mi dispiace disturbarti, domine, ma hai ospiti.” disse l’uomo e Massimo inarcò un sopracciglio, mentre un brivido freddo gli percorreva la schiena.

“Sta qui e tieni d’occhio mio figlio finché non sarò tornato.” Ordinò, prima di andare ad accogliere gli ospiti.

 

Massimo entrò a passo svelto nell’atrio, ma si bloccò quando vide chi erano i suoi visitatori. Come aveva immaginato uno dei due era Lucilla, ma non era in compagnia di una delle sue ancelle, bensì di un pretoriano. Un’altra figura emersa dal suo passato.

L’uomo che lo aveva fatto arrestare.

Il suo migliore amico.

Quinto.

Cadde il silenzio nella stanza, l’aria satura di tensione. Massimo si irrigidì vedendo Quinto lasciare il proprio posto accanto a Lucilla e avvicinarsi a lui e la mano gli si strinse sull’elsa del pugnale che aveva infilato alla cintura prima di entrare nell’atrio.

Quando si trovò di fronte all’ex comandante, Quinto si fermò e, guardando l’altro uomo dritto negli occhi, lasciò cadere a terra il gladio e il pugnale, allontanandoli poi con un calcio. Quindi, lentamente e con determinazione, si inginocchiò, chinò la testa, lasciando esposto e vulnerabile il collo e mise la propria vita nelle mani di Massimo.

Per qualche istante, l’Ispanico rimase immobile, quindi aprì la mano e lasciò cadere il pugnale.

“Alzati, Quinto,” disse con voce carica di emozione e il pretoriano ubbidì. I due uomini si fissarono mentre Lucilla si avvicinò loro, posando lo sguardo ora sull’uno, ora sull’altro.

Massimo accenno con il capo, “Venite con me.” E li guidò nel peristilio.

“Mettetevi comodi,”disse, indicando due sedie. Si accomodò quindi alla scrivania e, messi via i libri contabili, licenziò il servitore che stava badando al suo bambino addormentato.

Lucilla e Quinto si sedettero e seguì un imbarazzato silenzio, interrotto da una domanda di Massimo, “Che cosa volete?” Il suo tono perentorio lasciava capire che non aveva tempo e pazienza da perdere in convenevoli.

I suoi ospiti erano della stessa opinione. “Siamo venuti a chiedere il tuo aiuto per eliminare Commodo,” disse Lucilla con voce decisa.

Massimo fu a malapena in grado di mascherare il proprio stupore e, socchiudendo gli occhi, chiese, “Perché dovrei farlo?”

“Per il bene di Roma,” replicò la donna e Quinto assentì.

“Perché avete scelto me?”

“Perché sappiamo che mio padre voleva te come erede.”

Questa volta, Massimo non riuscì a nascondere la sorpresa e Quinto, notandolo, gli spiegò, “La mattina successiva alla morte di Cesare, mentre sorvegliavo i servi che preparavano il suo cadavere per il ritorno a Roma, trovai sotto i cuscini del letto un rotolo contenente l’atto ufficiale con cui ti designava a Protettore di Roma dopo il suo decesso. Evidentemente, Commodo non era riuscito a scovarlo…” Quinto abbassò gli occhi e proseguì, “Non appena lo lessi, compresi perché tu avessi rifiutato di stringergli la mano e intuii che avevo appena commesso il più grande errore della mia vita. Io…Io provai a rimediare inviando un messaggero per fermare i pretoriani diretti a casa tua, ma non ce la fece ad arrivare in tempo.” Quinto si fermò, indirizzò una breve occhiata al volto dell’Ispanico, quindi aggiunse, “Mi dispiace, Massimo. Avrei dovuto sapere che tu non avresti mai tradito Roma e che dovevi avere un motivo per rifiutare di obbedire a Commodo. Mi dispiace di non averlo capito subito e di non averti protetto, com’era mio preciso dovere.”

Massimo mosse la mano per arginare quel fiume di parole. “Basta così, Quinto. Quel che è fatto è fatto: non possiamo tornare indietro, e piangere sul latte versato è inutile. Concentriamoci sul presente e spiegatemi cosa volete da me.”

“Vogliamo che tu torni a Roma e reclami davanti al Senato la tua carica di Protettore.” Lucilla diede inizio alle spiegazioni, “Noi, ossia io, Quinto e un senatore chiamato Gracco, abbiamo creato una legione di truppe scelte che odiano Commodo e sono pronte a combattere sotto il nostro comando. Molti ex membri della Legione Felix si sono uniti a noi, dopo aver saputo ciò che mio fratello ti aveva fatto. Tuttavia fino a questo momento non abbiamo potuto agire perché mancavamo di un’effettiva alternativa a Commodo, un uomo forte e carismatico in grado di tenere sotto controllo il popolo e le altre legioni…Tu sei quell’uomo, Massimo: il ricordo delle tue numerose vittorie è ancora fresco nella mente dei soldati, e persino il popolo conosce il tuo nome e, ancor più importante, io conservo ancora le ultime volontà di mio padre…”

Massimo la fronteggiò in silenzio, quindi disse, “No.”

Gli occhi di Lucilla si spalancarono, “No?! Hai sentito bene? Tu sei l’unico che possa salvare l’impero prima che mio fratello lo trascini alla rovina!”

“No.” ripeté Massimo con freddezza.

“Vorresti lasciare il trono a quel pazzo?” sbottò Quinto, “Lo sai che sta distruggendo tutto ciò che suo padre aveva faticosamente costruito con anni di sacrifici? E’ così che ricambi la fiducia di Marco Aurelio? Dov’è finito il tuo senso del dovere?”

Massimo non riuscì più a contenersi, “Non venirmi a parlare di dovere! Ho fatto il mio dovere per Roma e lo sai che cosa mi è costato? Mi è costato la famiglia, la casa e la libertà…Sì, perché ho trascorso più di un anno della mia vita da schiavo! Non conta che la mia padrona fosse la donna che adesso è mia moglie, trovarsi privi di qualsiasi diritto è una maledizione per un uomo nato libero. Ma sono stato capace di costruirmi una nuova vita, una nuova casa e una nuova famiglia e non voglio fare nulla che possa metterle in pericolo.”

Udendo il padre gridare, il piccolo Massimo si svegliò e si mise a piangere. L’Ispanico corse da lui, lo prese in braccio e provò a calmarlo. Tenendo il bambino, tornò da Lucilla e Quinto e aggiunse, con calma, “Vedete quant’è piccolo? Non ho mai avuto la possibilità di stare vicino al mio primo figlio, Marco, come sto facendo con lui. Quando ho abbracciato Marco per la prima volta, aveva già due anni. La seconda volta che sono andato a trovarlo ne aveva quasi cinque…E l’ultima volta che l’ ho visto era morto, bruciato e crocifisso mentre era ancora vivo, come sua madre…Mi dispiace di non potervi aiutarvi: fossi stato solo, lo avrei fatto senza esitazione, ma adesso ho Massimo Iunior, sua madre e sua sorella da proteggere e da mantenere come avrei voluto fare con Marco e Selene.” Massimo continuò a stringere il bambino, il cui faccino era la copia del suo volto, pregando con gli occhi Lucilla e Quinto di comprendere le sue ragioni.

Infine Lucilla annuì tristemente e sussurrò, “Ti capisco, Massimo…Farei qualunque cosa mio figlio Lucio.” Si alzò e Quinto la seguì. “Ti auguro buona fortuna e una vita felice per te e per i tuoi cari. Addio.”

Quinto lo salutò portandosi il pugno al cuore e se ne andarono, lasciando Massimo solo con suo figlio, e la tempesta delle sue emozioni che gli sconvolgeva il cuore.

11 - COMMODO

 

Sbadigliando annoiato, Commodo diede le spalle al Proconsole Licinio e se ne andò, lasciando che l’uomo continuasse a parlare di Zucchabar e dei suoi problemi ad una stanza vuota.

Movendosi veloce lungo i corridoi marmorei, l’Imperatore raggiunse un’ampia terrazza e uscì fuori ad assaporare la piacevole frescura della giornata autunnale.

Dei, quanto detestava quel continuo supplicare e richiedere e piagnucolare dei governatori locali! Avevano sempre qualcosa da recriminare o richieste di sovvenzioni e finanziamenti da fare…Commodo si appoggiò alla balaustra e guardò giù in strada. Al contrario dei modelli romani, la villa del proconsole era alta tre piani e, dalla terrazza al secondo, si poteva ammirare la splendida veduta della città e del paesaggio circostante. Le montagne che poteva vedere all’orizzonte erano magnifiche ed egli giudicò un’ottima idea farsi costruire una residenza da quelle parti per il suo uso personale.

L’Imperatore mosse lo sguardo per osservare le attività della gente che si muoveva in strada e fu allora che notò una della più belle donne che avesse mai visto. Aveva lunghi, lucidi capelli neri e indossava una tunica rosa pallido e una stola bianca. Non era giovanissima, infatti Commodo pensò che dovesse avere qualche anno in più di lui, ma era snella, con tutte le curve al posto giusto. C’era qualcosa in lei che la distingueva dalle altre donne del mercato, povere creature consumate dal lavoro, dagli anni e dalle troppe gravidanze.

Commodo la fissò per qualche istante, quindi prese la sua decisione. “Guardia!” chiamò.

Un giovane Pretoriano si fermò dinanzi a lui chinando il capo. “Cesare?”

“La vedi la donna con i capelli neri, vestita di rosa?” domandò l’Imperatore indicando la folla.

“Sì, Cesare.”

“Bene, scendi giù e dille che il suo imperatore desidera parlarle.”

“Come desideri, Cesare.” E l’uomo se ne andò.

 

Commodo tornò a guardare in strada e vide la guardia avvicinarsi alla giovane donna e rivolgerle la parola. Dalla propria posizione elevata, egli non udiva le voci, tuttavia poté vedere il Pretoriano puntare nella sua direzione lo sguardo e la donna fare lo stesso. Commodo sorrise e gesticolò con la mano. La donna lo fissò a bocca spalancata, quindi seguì il Pretoriano dentro il palazzo. L’imperatore rientrò, percorrendo veloce la grande sala coperta di marmo per ricevere la sua ospite.

Quando gli fu finalmente di fronte, egli trasalì: era molto più bella di quanto avesse immaginato, con lucenti occhi castani e pelle di seta. Le tese entrambe le mani, invitandola ad alzarsi dalla sua posizione inginocchiata.

“Signora, quando ti ho vista dal mio terrazzo, sono rimasto incantato dalla tua bellezza e ho desiderato incontrarti.”

“Sei troppo buono, Cesare” rispose lei, imbarazzata.

Commodo sorrise al suo impaccio e le indicò un triclinio. “Siediti.”

L’ospite ubbidì ed egli poté notare quanto fosse nervosa. Beh, forse un po’ di vino l’avrebbe aiutata a sciogliersi. Batté le mani e subito apparve un servo che recava un vassoio d’oro con un’anfora e due coppe. La donna prese una coppa e se la portò alle labbra, imitando Commodo.

“Desidero conoscere il tuo nome,” le disse.

“Mi chiamo Ottavia, Cesare.”

“Un bellissimo nome per una bellissima donna.

“Tu mi aduli, Cesare.”

“Ti prego, non chiamarmi così: il mio nome è Commodo.” Egli sorseggiò ancora il suo vino e aggiunse, “Ti voglio mia ospite stasera a cena.” E non solo per mangiare, pensò.

Ottavia posò la coppa sul tavolo e, scegliendo con cura le parole, disse, “Mi dispiace, Cesare, ma non posso accettare il tuo gentile invito: mio marito mi sta aspettando a casa.”

“Manderemo un messaggero per dirgli che stasera farai tardi,” commentò lui senza esitare, ma lei scosse la testa.

“Ho anche due bambini a cui badare…”

Commodo era un po’ seccato da quel rifiuto, anche se, in un certo qual modo, non gli dispiaceva affatto: non c’era nessuna soddisfazione ad avere una donna facile…Già, gli sarebbe piaciuto conquistarla. Così disse, “Capisco. Spero comunque che potremo incontrarci ancora, nobile Ottavia.” Entrambi si alzarono e si salutarono. Quindi Cesare ordinò ad una delle guardie d’accompagnare l’ospite alla porta. Non appena Ottavia se ne fu andata, Commodo chiamò con un gesto Quinto, che aveva osservato tutta la scena nascosto nell’ombra, e disse, “Seguila e fammi sapere dove vive, chi è suo marito, di che cosa si occupa; insomma, tutto. Potrei avere bisogno di informazioni onde “persuaderla”.

Quinto annuì e lasciò la stanza imprecando sotto voce: conosceva bene il comportamento di Commodo con le donne e temeva che la giovane signora sarebbe andata incontro a un sacco di guai.

 

12 - QUINTO

 

“Te ne rendi conto, Ispanico? Non solo ha rifiutato di elargirmi i fondi per la costruzione di un nuovo acquedotto, ma adesso pretende che aumenti le tasse perché vuole costruirsi una nuova villa QUI! Che cosa se ne fa di una villa? Quando se ne andrà, dimenticherà questo posto e non ci metterà più piede! Inoltre vuole combattere nella nostra arena, per cui sarò costretto ad acquistare dei gladiatori dai lanistae, così lui potrà mostrare a tutti quanti com’è bravo con la spada! Quell’uomo è una catastrofe!” Gli occhi del proconsole Licinio sembravano prossimi a schizzargli via dalle orbite mentre elencava le prodezze di Commodo e Massimo sorrise amaro, pensando a quanto nefaste fossero le conseguenze dell’avvento al potere del nuovo Cesare, se era riuscito a far uscire fuori dai gangheri perfino un bonaccione accomodante come Licinio. Essi stavano parlando in prossimità delle scuderie pubbliche di Zucchabar, dove il Proconsole, dopo aver lasciato furibondo il proprio ufficio, aveva incontrato Massimo che aspettava, vicino al suo carro, il ritorno della moglie. Erano scesi in città perché la donna aveva bisogno di acquistare nuove fasce per il loro bambino, ma lui era impaziente di lasciare la città e tornare in campagna. Massimo si guardò intorno mentre il compagno riprendeva fiato dopo la sua filippica, e sorrise vedendo Ottavia avvicinarsi verso di loro. Salutò il Proconsole e le andò incontro, prendendole le borse dalle mani, “Hai trovato tutto quel che ti serviva?”

“Sì,” replicò lei piano, “possiamo tornare a casa.”

“Bene.”

Raggiunsero il carretto e lui l’aiutò a salire, prima di sedere a cassetta e di incitare il cavallo a muoversi.

 

Quinto li vide allontanarsi lungo la strada che collegava la città alle colline circostanti, quindi si recò alle stalle e prese per sé un cavallo.

Mentre galoppava lungo il sentiero polveroso, pensò che gli dei avevano davvero il senso dell’umorismo… Un crudele senso dell’umorismo, e non si poteva definirlo diversamente, visto che con tutte le donne che c’erano in Africa, Commodo aveva posato gli occhi proprio sulla moglie di Massimo…

Una volta giunti a casa, Ottavia entrò dentro, mentre Massimo portò il cavallo nella scuderia. Lei aveva bisogno di stare un po’ da sola per decidere che cosa avrebbe dovuto fare. Avrebbe dovuto raccontare a Massimo del suo incontro con l’Imperatore? O stare zitta? E che fare se Commodo si fosse messo in testa di rivederla?

Massimo guardò la moglie entrare nella villa e aggrottò la fronte: era stata stranamente silenziosa durante il viaggio di ritorno, e lui cominciava a sospettare che ci fosse qualcosa che andava. Tolse i finimenti al cavallo, quindi lasciò la stalla e si diresse verso casa. Mentre attraversava il cortile, vide un cavaliere galoppare lungo la strada che portava alla fattoria e, una volta che fu abbastanza vicino, riconobbe in lui le fattezze di Quinto. I sospetti di Massimo divennero certezza: era accaduto qualcosa in città, e Ottavia vi era coinvolta. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena ma lo ignorò e si preparò ad accogliere il Pretoriano.

“Quinto…” disse, afferrando le redini del cavallo.

“Massimo…”replicò Quinto smontando di sella.

L’Ispanico indicò ad un servo di occuparsi dell’animale e gli chiese. “Che cosa sei venuto a fare?”

“Sono venuto ad avvertirti che Commodo ha messo gli occhi su tua moglie.” Disse Quinto senza troppi preamboli.

“CHE COSA?!”

Il Pretoriano raccontò a Massimo tutto quello che era accaduto, usando un tono più gentile rispetto a prima, “…e così mi ha ordinato di seguirla per scoprire dove viveva, chi era suo marito e quant’altro. Vuole queste informazioni nel caso sia necessario “persuaderla” ad accettare le sue attenzioni. Non è la prima volta che capita qualcosa del genere, e posso garantirti che nessuna donna lo ha mai rifiutato dopo essere stata “persuasa”…”

Massimo ascoltò in silenzio, mentre sulla sua faccia la rabbia prendeva il posto della sorpresa. Quel bastardo stava minacciando la sua famiglia, la sua ragione di vita e lui non poteva permetterlo. Guardò Quinto e disse, “Vieni con me, voglio sapere tutto del piano tuo e di Lucilla per eliminare Commodo.”

 

Ottavia stava percorrendo le scale per recarsi in cucina quando fu distratta da alcune voci provenienti dal peristilio. Una era quella di Massimo, ma non riconobbe l’altra. Uscì e vide suo marito parlare con un Pretoriano. Aggrottò la fronte domandandosi che cosa ci facesse quell’uomo a casa loro, ma i suoi pensieri furono interrotti dalla voce irosa di Massimo, “Giuro che l’ammazzo! Passerò quel serpente a fil di spada, fosse l’ultima cosa che faccio!”

“NOO!”Urlò Ottavia lasciando il suo nascondiglio, “Non devi farlo.”

Massimo e Quinto scattarono in piedi e lei si precipitò tra le braccia del marito, “Avevi promesso che avresti lasciato perdere l’Imperatore! Che non avresti cercato di vendicarti!”

Lui l’abbracciò e disse, “Questo prima che lui cercasse di sedurti! Quinto mi ha raccontato quel che è successo oggi e non posso permettere che Commodo faccia del male a te o ai bambini. Ho giurato a me stesso che vi avrei sempre protetto e farò di tutto qualsiasi cosa pur di garantire la vostra sicurezza!”

Ottavia lo guardò con occhi imploranti, il viso rigato di lacrime, ma Massimo aveva preso la sua decisione e nessuno avrebbe potuto fargli cambiare idea.

13 - PROXIMO

Il giorno seguente, Massimo lasciò presto la fattoria per recarsi a visitare la più famosa scuola di gladiatori di Zucchabar, che apparteneva ed un ex combattente, Elio Proximo. Sapeva che costui era il lanista dal quale Licinio intendeva acquistare lo schiavo che si sarebbe scontrato con Commodo e l’Ispanico aveva un’interessante proposta da fargli.

Massimo raggiunse i cancelli di ferro e disse all’uomo che stava di guardia, “Vorrei parlare con il tuo padrone.”

La guardia osservò l’abbigliamento del forestiero, notò che era di buona qualità e, contento del fatto che non si trattasse di un accattone, lo fece passare, “Seguimi.”

L’ex generale si guardò intorno con un misto di disgusto e di curiosità. Su di un lato del cortile che stava attraversando si apriva una serie di gabbie, dentro le quali erano rinchiusi, in certe bestie feroci, in altre uomini. Nella parte più lontana, poté vedere alcuni combattenti che si allenavano usando spade di legno sotto gli occhi attenti di un omaccione dalla barba grigia. Massimo socchiuse gli occhi e un ricordo lontano gli fece capolino nella mente: aveva già visto quell’uomo, era lo stesso che lo aveva esaminato quando era stato messo in vendita al mercato degli schiavi. Quasi quattro anni erano trascorsi da quel giorno fatale, ma Massimo ricordava ancora le ultime parole di quell’uomo: “Lascialo stare. Quella ferita può ancora ucciderlo prima che io possa mandarlo nell’arena e non ho denaro da sprecare. Prendi l’altro.” Per un attimo pensò che quella avrebbe potuto essere la sua vita, se Proximo l’avesse scelto, e si guardò attorno con occhi differenti…Quel posto sarebbe potuto essere la sua casa sua…la sua prigione…il suo luogo di sepoltura…Scosse la testa e si concentrò su quel che aveva da dire.

Proximo stava seduto sotto un baldacchino, osservando il primo allenamento di alcuni schiavi reclutati di fresco quando vide uno dei suoi sorveglianti avvicinarsi a lui seguito da un uomo alto e robusto che camminava con una leggera zoppia.

“Padrone, quest’uomo vorrebbe parlarti,” gli disse la guardia.

Proximo inarcò un sopracciglio, un po’ sorpreso, quindi annuì.

La guardia fece cenno al visitatore di avvicinarsi al suo padrone, quindi si allontanò di qualche passo, per discrezione.

L’uomo bruno si avvicinò a Proximo, che non si era alzato per salutarlo, e gli domandò, “Elio Proximo?”

Questi annuì.

“Ho per te una proposta molto vantaggiosa.”

“Davvero? E sarebbe?”

“Voglio diventare gladiatore.”

Proximo esplose in una grassa risata che gli fece addirittura lacrimare gli occhi, credendo di aver a che fare con un matto. Infine si asciugò le guance e squadrò il forestiero preparandosi a un caustico commento. Ma le parole gli morirono sulle labbra, osservando lo sguardo fiero del suo ospite. Quell’uomo non era un pazzo e l’espressione decisa del viso lasciava intendere che non gli piaceva affatto essere preso in giro. L’atteggiamento di Proximo cambiò e, indicando una sedia vicina, gli disse bruscamente, “Siediti e dimmi tutto quello che devi dirmi.”

Massimo trascinò più vicino la sedia, si accomodò ed esordì, “So che fra due giorni ci sarà uno scontro nell’arena e che l’imperatore stesso combatterà contro uno dei tuoi gladiatori.”

La faccia di Proximo si rabbuiò pensando a quell’atleta che avrebbe dovuto lottare contro Cesare e che andava a tutti gli effetti considerato un cadavere ambulante, visto che Commodo si garantiva le vittorie facendo ferire gli avversari prima dei combattimenti. Tuttavia, non capendo quel che il forestiero aveva da dire, lo lasciò continuare.

“Voglio prendere il posto del tuo schiavo nel duello contro l’imperatore.”

“Allora sei matto sul serio, come avevo pensato appena hai iniziato a parlare…Vuoi davvero combattere, con quella gamba zoppa? Non capisci che quello lì ti farà a pezzi? Sei così stufo di vivere?”

Massimo sorrise crudelmente, “Questo non è affar tuo. L’unica cosa di cui dovrebbe importarti è che potrai risparmiare il tuo gladiatore e guadagnare lo stesso la somma che il Proconsole Licinio pagherà per la sua prestazione. In quanto a me, ho qualche conto da regolare con il nostro caro imperatore…Beh, che ne dici? Ti piace la mia idea?”

Proximo rimase per diversi minuti in silenzio. Egli sapeva che Cesare era odiato in ogni angolo dell’Impero , ed egli stesso lo detestava, perché correva voce che avesse ucciso perfino il padre, l’uomo che gli aveva dato la libertà quando era un gladiatore, per avere il trono. Era vero che aveva riaperto i Giochi al Colosseo e quindi dato lavoro a molti lanistae, ma il soggiorno romano di Proximo si era risolto in un mezzo disastro finanziario, allorché tutti i suoi gladiatori erano stati massacrati durante la messa in scena della Battaglia di Cartagine. Quando l’aveva saputo, Proximo era stato tentato di ritirare i suoi uomini, ma l’Imperatore lo aveva costretto ad onorare i termini dell’accordo.

Infine Proximo annuì e gli disse, “Sta bene. Presentati nei sotterranei dell’arena un’ora prima del combattimento ed effettueremo lo scambio di persona.”

Massimo assentì e strinse la mano al lanista che la scosse e, fissandolo in faccia, gli domandò, “Chi sei?”

“Qui a Zucchabar mi conoscono come l’Ispanico. Ma il mio vero nome è Massimo Decimo Meridio.”

“Come il generale che era il braccio destro Marco Aurelio in materie militari?” chiese Proximo guardandolo con occhi nuovi.

Massimo chinò, ringraziandolo per il complimento, “Precisamente.”

“Credevo fossi morto, ucciso per ordine di Commodo, o almeno così ho sentito dire da qualche soldato, quando stavo a Roma.”

“E’ vero…Così adesso sai di che cosa vorrei discutere nell’arena con il nostro Imperatore…”

Proximo sghignazzò, studiando da vicino il viso dell’ex generale, “Ci siamo visti altre volte, non è vero? La tua faccia non mi è nuova.”

“Acquisti sempre le tue reclute al mercato degli schiavi?”

“Sì.”

“Allora, forse è lì che ci siamo incontrati,” e dicendo questo, Massimo si scoprì il braccio sinistro e lo mostrò a Proximo. Il lanista notò la profonda cicatrice proprio sotto il tatuaggio SPQR, e ricordò uno schiavo febbricitante che aveva visto qualche anno prima e che aveva una ferita proprio in quel punto.

“Non dirmi che quello eri tu?!”

Massimo annuì.

“Mi stai dicendo che mi sono lasciato scappare le possibilità di trasformare in gladiatore uno dei più grandi generali dell’impero?” La voce di Proximo suonò quasi offesa.

Massimo sorrise, “Così sembra. Tuttavia, se ciò può esserti di conforto, avrai l’opportunità di farlo in un paio di giorni!”E detto questo si alzò e se ne andò. Proximo osservò la sua forte schiena allontanarsi ed esplose in una risata. La vita in quel villaggio infestato dalle pulci cominciava a farsi molto più interessante!

14 - NELL’ARENA

Due giorni dopo, Zucchabar si animò con centinaia di persone giunte dai villaggi vicini per assistere al grande scontro nell’arena locale. Le dicerie secondo cui l’Imperatore si sarebbe battuto contro un gladiatore si erano propagate in fretta, e molte persone volevano assistere allo spettacolo. L’arena era situata in una depressione del terreno circondata da colline, in modo che anche il pubblico non ricco potesse assistere ai giochi senza pagare.

Massimo e Quinto erano fermi all’interno di uno degli stretti, bui e polverosi sotterranei dell’arena, nelle cui celle i gladiatori venivano tenuti prima del combattimento. Il posto puzzava di sangue, sudore e urina. Era l’odore della paura, della morte, e Massimo aveva imparato a conoscerlo nei giorni in cui militava nell’esercito. Quante volte l’aveva annusato, prima della battaglia, passando vicino alle linee nemiche, o fermandosi di fronte a qualche legionario giovane e inesperto? Tuttavia sapeva che, in un modo o nell’altro, quella sarebbe stata l’ultima volta. Proximo si avvicinò e gli porse una tunica di ruvida lana azzurra e una semplice armatura di cuoio, l’uniforme dei suoi gladiatori. Con l’aiuto di Quinto, Massimo si cambiò i vestiti, quindi tese le braccia in modo che l’amico gli bendasse i polsi con morbide fasce di cuoio nero.

“Sei sicuro di voler procedere con questo piano?”gli domandò il pretoriano, “Siamo ancora in tempo per cambiare idea e cercare un’altra soluzione.”

“Sono sicuro. Finirà qui e finirà oggi,” replicò Massimo, tranquillo, “E’ tutto pronto?”

Quinto annuì, facendo un ultimo nodo, “La gente sa della tassa che Commodo vorrebbe imporre per costruirsi la villa e non mi stupirei se oggi stesso ricevesse una salva di fischi. Il Proconsole è stato informato che potrebbe succedere qualcosa e penso di non aver mai visto un cospiratore più soddisfatto. Per quanto riguarda Lucilla, come hai domandato, non sa niente della cospirazione, mentre tua moglie e i tuoi bambini sono già sotto la protezione dei miei uomini di fiducia…Ti giuro sulla mia vita che, qualsiasi cosa accada, loro saranno tutelati.”

Massimo annuì, “Ti ringrazio, amico.”

“Non devi ringraziarmi. Sto solo compiendo il mio dovere nei tuoi riguardi, come avrei dovuto fare in Germania.” La voce di Quinto era amara, piena di disgusto contro se stesso.

“Per favore, Quinto, non un’altra volta. Il passato è passato e nessuno può cambiarlo. Ma possiamo influenzare il futuro, se ci concentriamo su di esso, non ti pare?”

Quinto annuì e proseguì a descrivere il modo in cui aveva collocato uomini fidati nei punti strategici dell’arena, poiché era chiaro ad entrambi che, in un modo o nell’altro, Commodo non sarebbe uscito vivo dall’edificio. Come il grande Giulio Cesare aveva detto, ‘il dado era stato tratto’, e il destino dell’Imperatore deciso: era giunto per lui il tempo di pagare il prezzo dei suoi misfatti.

 

*****

Commodo e il suo seguito entrarono nell’arena al suono di molte buccine, ma l’accoglienza della folla fu tutt’altro che entusiasta. Egli scambiò un’occhiata con la sorella, quindi sedette nella tribuna delle autorità e si apprestò ad assistere ai primi combattimenti della giornata. Fu presto raggiunto da Quinto, il capo delle sue guardie, e senza staccare gli occhi dal centro dell’arena, gli chiese, “Fatto?”

“Sì, Cesare, il gladiatore è pronto.”

Lucilla sbuffò udendo quelle parole, perché sapeva bene cosa significassero. Commodo era troppo vigliacco per combattere contro un lottatore forte e integro, così tutti i suoi avversari venivano opportunamente “preparati” per i combattimenti con una coltellata in mezzo alle reni o a qualche altro organo, in modo da fiaccarli e indebolirli, assicurando così a suo fratello una facile vittoria. Lucilla piegò la testa e mormorò una preghiera silenziosa per il poveretto che attendeva la morte nei sotterranei dell’arena.

Commodo non vedi l’espressione disgustata sul viso della sorella e, soddisfatto perché tutto andava per il meglio, si guardò intorno, osservando l’attenzione con cui la folla seguiva i giochi.

Fu allora che la vide.

Ottavia. Stava seduta sulle tribune, tra le persone più ricche della città, e questo rese Commodo orgoglioso. Il suo ego era talmente smisurato da renderlo sicuro che la giovane fosse venuta per vederlo combattere e si immaginò quanto impressionata sarebbe rimasta dalla sua vittoria.

*****

In realtà Ottavia era andata nell’arena per veder combattere suo marito. Massimo non avrebbe voluto che lei assistesse ai giochi ma lei non aveva dato ascolto alle sue parole. Sebbene sperasse fervidamente che così non fosse, quello avrebbe anche potuto essere, per il suo amato, l’ultimo giorno di vita, e lei voleva essergli vicina. Massimo Iunior e Marzia erano rimasti a casa sotto la sorveglianza di venti soldati ben armati pronti a scortarli via da Zucchabar e dall’Imperatore se fosse accaduto qualcosa a suo marito, e lei era altresì protetta da otto soldati mischiati alla folla nei paraggi. Sapeva che Quinto aveva ordinato loro di trascinarla via a forza se il piano fosse fallito.

Ottavia e fissò le porte di legno oltre le quali Massimo probabilmente aspettava il proprio turno. L’attesa era deleteria per i suoi nervi e dentro di sé era tormentata dal desiderio che tutto cominciasse, così la tortura avrebbe avuto termine, e il desiderio che i cancelli non si aprissero mai per rilevare davanti la figura del marito.

Ad un tratto la folla urlò forte e, voltandosi verso sinistra, Ottavia vide Commodo rivestito da una bianca armatura, lasciare il palco delle autorità circondato da dei pretoriani, tra cui Quinto. Un brivido freddo lungo la schiena e lei capì che il momento della verità era arrivato. Ottavia chiuse gli occhi e mormorò una preghiera agli dei perché aiutassero Massimo. E allo stesso modo pregò Marco e Selene affinché, dall’aldilà, proteggessero il loro amato.

15 - ATTESE

 

Massimo stava aspettando, dietro una massiccia doppia porta. La parte superiore del suo viso era coperta da un elmo, che Quinto aveva insistito che indossasse, per evitare che Commodo, riconoscendolo, potesse fare ricorso a mosse illegali o si rifiutasse di combattere. Il copricapo era confortevole e il suo peso gli ricordava quello dell’elmo che aveva indossato innumerevoli volte guidando all’assalto la cavalleria della Legione Felix.

Massimo provò un paio di fendenti, tagliando l’aria con la lama, e sorrise soddisfatto della condizione del suo tono muscolare. Fin dal suo ritorno alla condizione di uomo libero, si era allenato ogni giorno con la spada per essere pronto a difendere la propria famiglia, nel caso fosse stato necessario farlo. A dire il vero, pensò, quello non era esattamente il modo in cui aveva creduto di doverli proteggere, combattendo in un’arena, ma il risultato era lo stesso.

Massimo udì il suono delle buccine, seguito dai passi di Proximo.

“E’ il momento. Cesare è sceso nell’anello di sabbia. Sii pronto ad uscire, perché i cancelli stanno per essere aperti.”

Massimo annuì e s’incamminò verso l’uscita, seguito dalle parole che Proximo era solito dire ai suoi gladiatori, “Va’ e muori con onore.” L’ex generale era calmo, la sua mente concentrata. Non c’era paura in lui, solo determinazione. Udì il ruggito della folla mentre i cancelli si aprivano e la luce invadeva il buio passaggio. Massimo strinse l’elsa della spada ed uscì, andando incontro al proprio destino.

*****

 

Commodo stava aspettando l’avversario al centro dell’arena, passeggiando avanti e indietro con le braccia tese. Faceva una notevole impressione con la corazza bianca che rifletteva i raggi del sole e splendeva come marmo e madreperla. Quando fu certo che la folla fosse stata sufficientemente colpita dal suo aspetto regale, indicò alle guardie di aprire i cancelli e lasciar uscire il gladiatore che il presentatore aveva chiamato l’Ispanico: doveva trattarsi di un combattente molto popolare, dato che il pubblico, dopo un momento di silenzio stupefatto, era esploso in un boato. Commodo sorrise: era felice che il suo avversario fosse famoso, perché battendo elementi come quello, egli accresceva la propria fama di eroe invincibile.Tuttavia il sorriso scomparve dal suo volto quando vide l’Ispanico avvicinarsi al centro dell’arena.

“Maledizione,” pensò l’Imperatore, “Quegli imbecilli di Pretoriani lo hanno picchiato troppo e adesso zoppica!” Era vero che lui non volesse rischiare combattendo contro gladiatori integri, ma non voleva nemmeno passare per codardo battendosi contro un uomo così palesemente infortunato. Commodo era sul punto di richiedere un altro combattente quando vide che l’Ispanico, lungi da far atto di sottomissione da schiavo qual era di fronte all’imperatore, se ne stava immobile a testa alta di fronte a lui e lo fissava con sguardo arrogante. Commodo divenne furioso e decise di dare allo schiavo impudente una sonora lezione, l’ultima della sua vita.

 

*****

Lucilla stava aspettando che il combattimento avesse inizio perché più presto fosse cominciato, più presto sarebbe finito e lei avrebbe così potuto lasciare quel luogo di morte e di dolore. Guardò con scarso interesse il gladiatore che si stava dirigendo verso suo fratello, ma dopo alcuni secondi aggrottò la fronte. C’era qualcosa di familiare nel modo in cui l’uomo camminava, ma… All’improvviso vide l’Ispanico, così lo aveva chiamato il presentatore, piantare la spada nel terreno e chinarsi a raccogliere un pugno di sabbia, strofinandola lentamente tra le mani. Lucilla sentì il sangue defluirle dalla faccia, mentre osservava quel gesto così familiare ai suoi occhi…Quante volte lo aveva preso in giro, perché lui non era in grado di spiegarle perché lo facesse!

Lucilla afferrò la balaustra con entrambe le mani e si preparò ad assistere ad una delle più importanti battaglie che mai si fossero combattute per il bene di Roma: quella tra il generale Massimo Decimo Meridio e l’imperatore Commodo.

 

*****

L’attesa di Ottavia terminò mentre guardava il marito camminare verso il centro dell’arena a passi lunghi e decisi, la testa alta, l’atteggiamento fiero e orgoglioso. Lo vide fermarsi di fronte all’imperatore, di fronte all’uomo che tanto dolore gli aveva causato e, malgrado l’elmo le impedisse di vederlo in faccia, era sicura che i suoi occhi verdazzurro stessero fissando il nemico con tutto l’odio che provava. Quindi Massimo si chinò a raccogliere un po’ di sabbia, in quello che lei sapeva essere il suo rituale propiziatorio prima delle battaglie. Dopo di che si alzò, prese la spada e si mise in posizione di difesa, mentre Commodo faceva altrettanto.

Vi fu un momento d’innaturale silenzio, come se tutto il pubblico stesse trattenendo il respiro, quindi la folla esplose in un ruggito, appena le due spade s’incrociarono tagliando l’aria e sprizzando scintille quando ferro colpì ferro.

Finalmente l’attesa era finita.

16 - IL CONFRONTO FINALE

 

Non appena il duello ebbe inizio, Commodo si rese conto che c’era qualcosa che non andava: il suo avversario poteva anche essere zoppo, ma di certo conservava intatto tutto il proprio vigore, come poteva sentire dalla forza dei suoi colpi. L’Imperatore sentì un torrente di adrenalina scorrergli nelle vene all’idea di dover combattere un vero duello. Infatti, anche se l’Ispanico non era stato indebolito secondo il solito, il fatto che zoppicasse costituiva uno svantaggio e Commodo era certo che la sua maggiore agilità gli avrebbe consentito di vincere.

Massimo stava attaccando con determinazione, cercando di non muoversi troppo. Il suo ginocchio destro era in grado di resistere a un certo sforzo, ma i suoi movimenti non erano veloci come un tempo.

Commodo era un provetto spadaccino, ma non aveva l’esperienza di un soldato e Massimo sperava che questo fattore avrebbe compensato la propria lentezza.

Si mossero avanti e indietro nell’arena, attaccando e ritraendosi, difendendosi e caricando, senza che nessuno dei due contendenti mostrasse un’evidente superiorità rispetto all’altro. Improvvisamente, Commodo vide l’Ispanico fare un passo falso con la gamba destra e gli si lanciò contro con tutto il suo peso, facendolo cadere e quindi tentò di decapitarlo con un colpo ben assestato. Massimo rotolò via appena in tempo, sentendo la punta della spada che gli lacerava la tunica sopra la spalla ma non le carni. In pochi istanti fu di nuovo in piedi, riguadagnando l’equilibrio, e attaccò un’altra volta. La folla ruggì in approvazione, perché quello era senza dubbio uno dei più bei combattimenti a cui avesse mai assistito.

Massimo portò un colpo particolarmente violento e Commodo barcollò sotto la sua forza, ma si riprese in tempo per parare un altro fendente che lo gettò in ginocchio. L’imperatore riuscì a stento ad alzare la spada per deflettere la botta successiva, e poi balzò di nuovo in piedi. Iniziava a sentirsi meno sicuro di se stesso, perché stava già respirando affannosamente, mentre l’Ispanico non sembrava affatto affaticato.

Vi fu un momento di pausa, quindi il combattimento riprese. Commodo tentò un altro attacco e, mentre l’Ispanico indietreggiava per parare il colpo, gli mollò un calcio molto forte al ginocchio offeso, facendolo cadere nella sabbia. Questa volta Massimo non riuscì a deviare il colpo e sentì il morso del metallo che gli penetrava nella coscia destra. Non appena il sangue iniziò a scorrere dalla ferita, egli poté sentire l’urlo della folla e, nonostante tutto quel clamore, gli parve di riconoscere la voce di Ottavia che gridava, “NOOO!!!”

Massimo si alzò in piedi, ignorando il sangue che gli scorreva lungo la gamba e lasciò che il dolore attizzasse la sua rabbia. Indomabile, egli partì ancora all’attacco e trovò Commodo con la guardia abbassata, non avendo costui pensato che l’altro potesse riprendersi così in fretta. Le due lame si incontrarono a poca distanza dal petto di Commodo e, mentre si fissavano negli occhi, Massimo premette sulla spada in mano all’uomo più giovane, obbligandolo a lasciarla cadere, se non voleva spezzarsi il polso.

Commodo sentì la lama cadere a terra e fu colto dal terrore, mentre si allontanava tenendosi il polso dolorante, e fissava con occhi spaventati l’Ispanico che era ancora pronto per attaccare.

Guardò dietro di sé e vide la propria spada, ma il gladiatore sembrò intuire le sue intenzioni e gli calciò in faccia della sabbia, accecandolo e costringendolo a indietreggiare di parecchi passi. Quando riaprì gli occhi, Commodo vide che l’Ispanico aveva calciato il gladio lontano da lui, riducendolo all’impotenza.

Cesare comprese di avere solo una possibilità quindi, stendendo le mani di fronte a sé, disse ad alta voce, “Hai vinto, Ispanico. Sei veramente il più forte gladiatore che abbia mai incontrato e sono stato felice del nostro combattimento. Adesso riponi la spada, questo duello è terminato.”

“Non credo, Principe,” replicò gelido l’Ispanico e Commodo fece una smorfia.

“Che cosa stai dicendo? Ti sto offrendo la possibilità di uscire da qui vivo e libero e tu osi darmi degli ordini?”

“Sì. Noi due abbiamo altre questioni da sistemare, Principe.”

Commodo socchiuse gli occhi e domandò, “Chi sei, schiavo?”

Massimo fece un respiro profondo quindi, con un movimento deciso del braccio sinistro, si liberò dall’elmo e stando dritto di fronte a Commodo, disse a voce alta, in modo che tutti potessero sentirlo, “Mi chiamo Massimo Decimo Meridio, comandante dell’Esercito del Nord, generale delle legioni Felix, servo leale dell’unico vero imperatore Marco Aurelio.” Camminò fino ad essere faccia a faccia con Commodo, e continuò, “Padre di un figlio assassinato, marito di una moglie uccisa e sto per avere la mia vendetta.”

Commodo rimase a fissare stupito la sua nemesi riemersa dal passato, e cercò di rispondere ma le labbra si mossero senza emetter alcun suono. Alla fine si riscosse e gridò, “Guardie! Uccidete questo traditore!” Ma con sua grande meraviglia nessuno obbedì, mentre Quinto, avanzando nell’arena, prese posto al fianco di Massimo, mostrando chiaramente a chi andasse la sua lealtà.

“Mi dispiace Cesare, ma il tempo degli onori è finito per te. Oggi realizzeremo le ultime volontà tuo grande padre.”

Commodo comprese cosa intendesse il Pretoriano e impallidì, pensando che ormai fosse tutto perduto… Tuttavia gli venne in mente un’idea disperata. Si morse il labbro inferiore per controllare la rabbia, assunse un atteggiamento sottomesso, quindi voltò la schiena ai nemici con una mossa di cui aveva calcolato il rischio. Sapeva che erano uomini troppo leali per colpirlo alle spalle e aveva bisogno solo di pochi istanti per estrarre il pugnale che teneva nascosto nella manica sinistra. Lo fece e si voltò nuovamente, avvicinandosi a Massimo e a Quinto con la testa china e le spalle curve.

Con voce conciliante cominciò a parlare, “Di certo possiamo trovare una soluzione al nostro problema, senza che nessuno si faccia male…”

Massimo socchiuse gli occhi quando un balenio metallico gli colpì lo sguardo e, spingendo via Quinto, alzò il polso sinistro fasciato col cuoio, deviando il colpo di pugnale che Commodo aveva diretto alla sua gola.

Furioso con se stesso per aver abbassato guardia, Massimo alzò il braccio destro armato di spada e pose fine alla vita malvagia di Commodo decapitandolo. La forza del colpo scagliò in aria la testa recisa, che ruzzolò nella sabbia a diversi passi di distanza dal corpo, che crollò invece ai piedi di Massimo.

L’ex generale guardò il cadavere del suo nemico e si sentì invadere dal sollievo. Era finita. Commodo era morto, la sua famiglia salva. Si voltò verso Quinto ma fu allora che la sua gamba strapazzata e ferita decise di cedere, facendolo cadere a terra in preda a un terribile capogiro. Quinto fu lesto ad afferrarlo e quando Massimo svenne a causa del sangue perso, lo fece tra le braccia del suo amico.

 

17 - CONCLUSIONE

 

Massimo aprì lentamente gli occhi, trovandosi sdraiato su di un soffice materasso. Si guardò intorno e si accorse di essere in una stanza sconosciuta, illuminata da diverse torce.

“Bentornato, Generale, mi fa piacere che tu ti sia svegliato. Ci hai fatto prendere un bello spavento!” La voce tonante di Proximo rimbombò nella stanza, quindi il corpulento lanista abbandonò il suo posto in prossimità della finestra e si avvicinò al letto.

Massimo si leccò le labbra e chiese, “Dove mi trovo?”

“Sei a casa mia, lungo disteso sul mio letto. Dopo che sei caduto nell’arena ti abbiamo portato qui perché era il posto più vicino.”

A Massimo tornò la memoria e infilò la mano sotto il lenzuolo per toccarsi la gamba destra. Le sue dita incontrarono uno spesso bendaggio, “Da quanto tempo mi trovo qui?”

“Questa è la seconda notte: hai perso molto di sangue e avevi bisogno di tempo per rimetterti in forze.”

Oh, pensò Massimo, Ottavia sarà in ansia perché non le ho detto che avrei fatto tardi…. Ottavia.. “OTTAVIA!” gridò ricordando che lei era andata a vederlo nell’arena. Provò ad alzarsi dal letto, ma Proximo lo fermò e lo spinse indietro sul materasso.

“Sta calmo, o ti si apriranno i punti. Tua moglie sta riposando in una stanza qui vicino. Povera donna, ha passato un giorno e mezzo ad assisterti e a badare ai bambini…”

“Allora sono tutti qui?”

“Certo, insieme all’Augusta Lucilla, al Generale Quinto e al Proconsole Licinio…Stanno tutti riposando nell’altra stanza. Vuoi che vada a chiamarli?”

“No, non è necessario, lasciali dormire; potrai dirmi tu stesso quello che è successo dopo che io…”

“Hai ucciso l’imperatore?”

“Sì.”

“Niente di speciale. Nessuno s’è messo a piangere, se è questo che t’interessa. Non ci sono stati disordini o rivolte, la folla era solo preoccupata per la TUA salute. Molte persone hanno trascorso la notte sotto queste finestre, finché il medico ha detto loro che andava tutto bene. Allora se ne sono tornati a casa, ma penso che qualcuno sia rimasto nei paraggi.”

Massimo fu commosso dall’interesse mostrato dai suoi concittadini e, sentendo la stanchezza avvolgerlo di nuovo, mormorò, “Grazie di tutto, Proximo.”

L’omaccione sorrise vedendo che gli occhi gli si chiudevano, “Adesso vado a dormire anch’io…Tuttavia, prima vorrei chiederti una cosa.” Fece una pausa e Massimo inarcò un sopracciglio, invitandolo a continuare, “Mi chiedevo… vorresti diventare un gladiatore professionista? Potresti guadagnare un sacco di soldi.”

Malgrado la sua stanchezza, Massimo rise e replicò, “Mia moglie mi ucciderebbe se mai dovessi accettare!”

Proximo si unì alla sua risata, “Lo immaginavo. Sembra una giovane donna molto determinata. E non ultimo, è una gran bella figliola.”

Massimo chinò la testa, accettando quel complimento e Proximo si incamminò verso la porta. La aprì, ma prima di lasciare la stanza aggiunse, “Comunque, è un peccato. Con le tue qualità e i miei consigli avresti potuto essere magnifico!”

 

*****

Quando Massimo si risvegliò, trovò la stanza piena di luce e molto affollata: Ottavia, Marzia, Massimo Iunior, Lucilla, Quinto, Licinio, Proximo…C’erano tutti e parlavano piano tra di loro. Marzia fu la prima a vederlo muoversi e ad annunciarlo agli altri gridando il suo nome e saltandogli tra le braccia. Egli la strinse a sé mentre il resto del gruppo si avvicinava al letto.

Gli occhi di Massimo incontrarono quelli di Ottavia, che si chinò e lo baciò gentilmente sulle labbra prima di dirgli piano, “Non farmi prendere mai più uno spavento del genere.”

“Lo prometto,” replicò lui con lo stesso tono.

Ottavia si sollevò, sorrise, prese Marzia e si allontanò, lasciando spazio a Lucilla, Licinio e Quinto.

Massimo si sedette sul letto appoggiandosi allo schienale, strinse le mani a Quinto e a Licinio e baciò quella di Lucilla. “Com’è la situazione? “chiese.

“E’ tutto sotto controllo. Abbiamo chiuso i confini in modo che nessuno possa lasciare la provincia e divulgare la notizia della morte di Commodo prima che noi ci imbarchiamo per Roma,” rispose Quinto.

Massimo annuì, “Cosa pensate di fare?”

“Ecco,” rispose Lucilla, “riteniamo che sarebbe meglio se tu venissi a Roma con noi, appena sarai in grado di muoverti e di viaggiare.”

Massimo cominciò a scuotere la testa, ma Lucilla allungò la mano, sorridendo, “Lasciami finire. So che non vuoi diventare un politicante, e non intendo chiedertelo.Voglio solo che tu venga a Roma e consegni pubblicamente al Senatore Gracco il potere di trasformare l’Impero in Repubblica. Mostreremo all’esercito, al Senato e alla popolazione le ultime volontà di mio padre e questo, supportato dalla tua presenza e dall’autorità mia e di Quinto dovrebbe garantire un tranquillo passaggio di consegne…Dopodiché sarei libero di lasciare la città e di tornare qui. Oh, beh, è probabile che il Senato vorrà offrirti delle terre come ricompensa e risarcimento, ma…”

“Verrò a Roma, ma non voglio niente,” la interruppe Massimo, ma subito dopo cambiò idea e aggiunse, a bassa voce, “Anche se mi piacerebbe riavere indietro la mia casa in Hispania…” Sapeva che, essendo stato accusato di tradimento, i suoi beni erano stati confiscati dall’impero, secondo quanto diceva la legge.

Lucilla sorrise e rispose, “E’ già tua.”

Massimo si illuminò quindi, rivolto ad Ottavia, che aveva ascoltato in silenzio, le disse, “Ti piacerà, vedrai. Il clima è meno afoso che qui, c’è grande abbondanza d’acqua e l’aria profuma di gelsomino…”

Ottavia sorrise alla sua espressione sognante e mormorò, “Non devi convincermi, sai che ti seguirei perfino nell’Ade…”

Marito e moglie si scambiarono una lunga occhiata e le persone presenti capirono che era giunto il momento di andarsene lasciandoli soli. Lucilla si avvicinò ad Ottavia e le chiese, “Posso?” prima di prendere il piccolo Massimo in braccio e di stingerselo al seno. Lo stesso fece Quinto con Marzia, che rimase impressionata dalle decorazioni sulla sua corazza, e poi, insieme a un commosso Licinio e a un gongolante Proximo lasciarono la stanza.

Massimo e Ottavia continuarono a guardarsi, poi lui sorrise e sollevò il lenzuolo che lo copriva, dicendo, “Vieni qui.” Era completamente nudo, eccetto il bendaggio bianco alla gamba destra, che spiccava contro la sua pelle abbronzata, e sua moglie deglutì, mentre il suo cuore cominciava a battere all’impazzata. Ottavia si liberò alla svelta dei vestiti e gli si sdraiò vicina nel letto. Si baciarono e si accarezzarono per qualche istante, quindi Ottavia gli sussurrò in un orecchio, “E adesso, mio possente gladiatore, vorresti mostrarmi la tua abilità con la… ‘spada’?”

Massimo sorrise, le strizzò l’occhio, quindi le rotolò sopra e incominciò a dimostrarglielo…

Fine

 

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