Ogni
discorso utopico definisce un mondo, sia questo un’“isola”, una “città”, un
“pianeta”, un “castello”, od un’“astronave”. Questo mondo è una unità causale
spazio-temporale, nella quale esistono oggetti e relazioni, all’interno della
quale si verificano situazioni e stati di essere. Molti di questi oggetti,
relazioni e stati possono essere riscontrati anche nel nostro mondo, cioè nella
realtà. Ma quello che rende l’utopia diversa e distinta, è che raccoglie anche
altri specialissimi oggetti, relazioni e situazioni che non appartengono alla
realtà.
Alexander Tzonis, Counterfacts, Counternorms and Transworld Mental
Lines [1]
Quali sono i nuovi luoghi
dell’utopia? L’etimologia della parola non potrebbe essere più chiara: la
società utopica non esiste in alcun luogo (dal greco: ou topos). La
storia di Utopia è narrata a Tommaso Moro da un personaggio chiamato “Itlodeo” (dal greco ithlos,
“ciarla”, e daíein “dare, spargere”). Itlodeo (il “ciarlatano”) descrive
una terra che non esiste, la cui capitale Amauroto (dal greco amauros
“ignoto”) è sconosciuta, lambita dalle acque del fiume Anidro,
“senz’acqua”. Eppure dietro i giochi delle parole privative greche, utilizzate
dal Moro per descrivere la società fantastica, vi sta una proposta
“controfattuale”[2] -
quella di utopia o, per usare il termine di Platone “topos ouranios” (luogo celeste)[3] -
che attirerà enorme attenzione, dibattito ed un elevato numero di imitatori e
studiosi.
Nella sua opera stampata nel 1516,
a pochi decenni di distanza dalla scoperta dell’America, Tommaso Moro identifica proprio nel Nuovo Continente la terra di Utopia. Itlodeo, il
viaggiatore, sarebbe stato compagno di Amerigo Vespucci (“per bramosia di andar
osservando il mondo tutto si unì ad Amerigo Vespucci, né più lo lasciò nei tre
ultimi viaggi, dei quattro che fece... Infatti cercò, e ottenne a viva forza
dal Vespucci di far parte anch’egli di quei ventiquattro che rimasero laggiù,
nel castello, all’estremo limite dell’ultimo viaggio”).[4] Nella nuova terra, fatti amici tra la popolazione, lui e
cinque compagni, “viaggiando per giorni e giorni” trovarono “castelli e città e
interi Stati con popolazioni numerose, le cui costituzioni non erano le
peggiori di questo mondo”.[5] Tra questi, “sotto l’equatore” ed al di là di “vasti
deserti, bruciati sempre dal cielo infuocato”, si trova - proprio in America - l’isola di Utopia.
La separazione dell’Utopia qui è
evidente: per raggiungerla bisogna intraprendere un viaggio transatlantico che
a quell’epoca equivaleva ad una missione spaziale, difficile ma non
impossibile. Al di sotto dell’equatore, Utopia si trova in posizione
“capovolta” rispetto all’Europa occidentale;[6] ubicata in zona tropicale, contiene tutto il fascino
dell’esotico. Se non si fosse conosciuto che era una finzione, raffrontata con
racconti analoghi, provenienti d’oltre Oceano, la storia di Utopia avrebbe
potuto essere plausibile per gente di modesta cultura. La finzione viene
accentuata dal fatto che la prima edizione della storia viene presentata
semplicemente come Relazione dell’Eccellentissimo Raffaele Itlodeo sulla
miglior forma di Repubblica per opera dell’Illustre Tommaso Moro, Cittadino e Visconte di Londra, famosa città
d’Inghilterra.
Come ha giustamente notato Isnardi
Parenti, l’equivoco di Utopia pone quest’opera completamente al di fuori del
tessuto politico e sociale del tempo. L’utopia non è dedicata ad un Principe - come molti altri lavori di politica, dopo il Machiavelli - non è una proposta empirica, non un programma proponibile,
ma un “paradigma ideale immobile posto a specchio rovesciato dell’attuale
società, serio e pensoso gioco, ma gioco dell’intelligenza, che intende in tal
modo criticare radicalmente, ma, appunto in virtù di tal radicalismo, non in
modo che possa servire di base a trasformazione e azione concreta”.[7]
Al lucido sogno di Utopia il Moro contrappone una descrizione - a volte fatta da lui stesso nel dialogo con Itlodeo (il
suo alter ego utopico) -
della realtà europea politica ed economica contemporanea, contrassegnata da
guerre con relative “offese, saccheggi e confische”, conflitti religiosi, lotte
di potere, soprusi dei potenti e brigantaggio tra i poveri, carestie ed
epidemie, riportandoci dalla controfattualità utopica allo squallore della
realtà storica da lui vissuta. In tale situazione Itlodeo rifiuta di far da consigliere
a qualsiasi potente. Tale è del resto l’irriducibilità del Moro, che va incontro alla propria condanna, nel 1535, per non essersi
sottomesso all’Atto di supremazia.[8]
Il “luogo” dell’utopia di Moro si differenzia nettamente da alcuni importanti precedenti letterari,
che vengono descritti da J.C. Davis in Utopia and the Ideal Society
(1516-1700). È chiaro che il tentativo di Davis è quello di collocare
quest’opera, che ha rilanciato il concetto di utopia in tutto il mondo moderno,
in un contesto di storia delle idee e della società.[9]
Il Medioevo non fu privo di utopie, descritte anche con estrema dovizia di
particolari. Tra esse dominò il “Paese della cuccagna”, decantato in poesie e
raffigurato in numerosissimi quadri.[10] Il Paese della cuccagna è innanzi
tutto simbolo di abbondanza: il cibo - scarso nella realtà medievale - è qui abbondante per tutti. La salute non manca mai: nessuno appare
malato, al contrario tutti possono godersi la vita e l’amore. Il paese è in
eterna festa: tutti, nobili e poveri, partecipano convivialmente al banchetto
ed ai giochi, senza distinzione di classe, almeno per quel che riguarda
l’accesso alle risorse. La cuccagna è godimento dei sensi: nell’ambiente
carnevalesco della cuccagna il sesso non è un tabù.[11]
L’utopia della cuccagna evita
accuratamente ogni riferimento a divisioni di classe, di ceto, di partito o
fazione, di religione o di setta che potrebbero risultare esclusive di alcuni
dai suoi desiderabili benefici. Il piacere accomuna tutti indistintamente; si
potrebbe dire, utilizzando uno slogan del ‘68, che in questo paese “è proibito
proibire”. Gli appelli sono diretti al soddisfacimento di bisogni individuali,
né ci si chiede chi lavori per mantenere tutti i consumatori del paese della
cuccagna.
Nei giorni odierni - vista dagli africani e da altri poveri del mondo - l’Europa occidentale rappresenta il Paese della cuccagna.
E non potrebbe essere altrimenti per chi proviene da territori semi-desertici
nei quali, fra siccità e carestie, l’acqua ed il cibo scarseggiano ogni giorno.
Ottenere un visto di ingresso per il Paese della cuccagna significa, anzi
tutto, esser sicuri di non morire di fame per il resto della vita, anche se
fatica e sfruttamento non sono certo risparmiati ai nuovi arrivati.
Una seconda tradizione utopica è
rappresentata dal ritorno al primitivo, dal ritorno alla terra di Arcadia.
Anche in questo caso l’utopia medievale è caratterizzata dal regresso, non
verso la libidine dei sensi, ma verso il passato antico ed originario.
L’Arcadia è popolata da pastori. Non vi è agricoltura, si vive di caccia e di
pesca; non vi sono altre attività che giustifichino una ulteriore divisione in
classi; non vi sono condizioni che giustifichino sacrifici e rinunzie. Non vi
sono città, feudi e stati. L’Arcadia è terra di calma e solitudine, riflessione
e contemplazione, in un’atmosfera rarefatta; vi regnano la semplicità e l’arte,
l’amore e la poesia.
Pur essendo un mito classico, uno
stile di vita arcadico verrebbe ritrovato, secondo Montaigne ed altri
scrittori, nelle culture tropicali del Nuovo Mondo recentemente scoperte dagli
esploratori.[12] Questi popoli, “buoni selvaggi” non ancora soggiogati,
possono godere le comodità offerte da una natura generosa, che evita loro la
coltivazione della terra; possono approfittare di un clima mite che rende
superflui i vestiti e la costruzione di abitazioni per ripararsi dal freddo;
possono prosperare in assenza di nemici, naturali e sociali. Ancora oggi i miti
tropici (le Bahamas, Bali, le Maldive) sono meta di un turismo di massa, pronto
ad insediarsi in villaggi predisposti per le vacanze, ed i “selvaggi” vengono
ammansiti con buoni stipendi.
Il mito dell’Arcadia continuerà a
resistere dopo l’Utopia di Moro, che ne riprende alcune tematiche, ed anzi tenderà a riaffermarsi non
solo nel romanticismo,[13] ma anche in questo secolo, sotto la spinta dei movimenti
ecologisti e protezionisti di fauna e culture in estinzione, che vorrebbero
stabilire un’arcadia in tutto il pianeta.
Un terzo tipo di utopia è quella
millenaristica, che si collega con gli scritti dell’Apocalisse. “Il profeta
Giovanni ‘vede’ dall’alto la calata dal cielo della Gerusalemme Celeste e con
la sua testimonianza rivoluzionaria - il vecchio mondo deve essere distrutto perché il nuovo
trionfi - ridà speranza ai perseguitati
ed ai diseredati. La contrapposizione psicologica e simbolica tra Babilonia
città meretrice e terrena, umiliata e distrutta (vista da un deserto) - e Gerusalemme città vergine e celeste, trionfante (vista
da un monte), costruisce il brano biblico: la distruzione di Babilonia è il
preludio all’avvento di Gerusalemme. La geometrica e simbolica città di pace
adorna di ogni splendore, modello del paradiso cristiano, è quindi l’effetto di
un processo di cui è l’ultimo atto perfetto, e non può essere pertanto letta
indipendentemente dalla sequenza degli eventi”.[14]
È un’utopia fatta di scadenze e di
attese, di profezie e di preparazione ad una migliore vita futura, nella quale
i buoni saranno separati per sempre dai cattivi.
Fino al sec. XVI inoltrato - scrive Koselleck -
la storia della cristianità è in larga misura una storia di attese (o meglio
una costante attesa) della fine del mondo, da un lato, e dei suoi continui
rinvii, dall’altro. L’attesa era più o meno immediata a seconda delle
situazioni, ma le figure fondamentali del tempo finale restavano identiche. I
travestimenti mitici dell’Apocalisse di Giovanni potevano essere adattati alle
situazioni del momento, e anche le profezie non canoniche presentavano, salvo
piccole variazioni, sempre gli stessi personaggi che dovevano comparire alla
fine dei tempi: per esempio i pastori angelici, l’imperatore della pace, oppure
i precursori dell’Anticristo, come Gog e Magog che, secondo una tradizione
orientale nota in Occidente, Alessandro teneva confinati nel Caucaso fino alla
fine del mondo.[15]
Particolari situazioni storiche
hanno reso l’Apocalisse più credibile. Le sanguinose guerre di religione - connesse alla Riforma - possono essere comprese facendo ricorso al comune “senso
della fine” che ha scosso l’umanità di quel tempo. “Lutero - scrive ancora il Koselleck -
diceva che la fine doveva essere attesa per l’anno prossimo, anzi, per l’anno
in corso”.[16] In Europa, l’esperienza acquisita in un secolo di lotte
cruente è che “le guerre civili di ordine religioso non portavano al giudizio
universale, almeno non nel senso concreto e tangibile in cui lo si intendeva un
tempo”.[17] Con la pace di Augusta (1555) i ceti si misero d’accordo
per istituire una “pace costante, durevole, incondizionata, perpetua, eterna”.[18] Si poneva così fine al principio di una imminente
giustizia divina, alla separazione tra buoni e cattivi, alla condanna di
innocenti travolti nella lotta, alla disperazione connessa al presentimento
della fine.
Il secolo XVII, al contrario del
precedente, “è caratterizzato dalla demolizione delle profezie”. Spinoza non si
limitò a combattere le visioni religiose con l’argomento che costituivano un
pretesto al quale, ai suoi tempi, ricorrevano abitualmente partiti ambiziosi e
pericolosi per lo Stato. Fece un passo più in là, cercando di smascherare
perfino i profeti canonici, come vittime di un’“immaginazione” primitiva.
Fontenelle scrisse l’Histoire des oracles, una battaglia letteraria,
condotta con formule sicure, freddamente razionali, raggiungendo la massima
eleganza stilistica.[19]
Vista con gli occhi dei
contemporanei, questa esperienza del mondo occidentale appare preziosa per
controbattere l’ondata di fanatismo religioso che scuote i paesi emergenti coi
quali si hanno rilevanti rapporti di scambio economico. Ad una “simultaneità
dei tempi” non corrisponde una parallela evoluzione delle idee: il mito della
guerra santa contro il “Grande Satana” e del sacrificio dei combattenti
islamici rievocato da Saddam Hussein ci riporta indietro nella storia alla
utopia millenaristica del Medioevo. La guerra ed il suicidio altruistico come
forma di riscatto individuale appaiono all’Occidente forme di lotta e soluzioni
inadeguate per affrontare i grossi problemi dello sviluppo e della coesistenza
tra i popoli.
Un quarto tipo di utopia, al quale
l’opera di Moro si ricollega più strettamente, è quella del Commonwealth
perfetto, della comunità ben amministrata, del Principe saggio, in grado di
mantenere prosperità e pace e di stabilire un ordine morale. In questo caso la
costruzione politica e sociale ha come riferimento il Principe che ne diventa
il cardine ed il principale garante.
La scelta del tempo e del luogo
dell’Utopia, in questo caso, non sono casuali, in quanto indicano un preciso
referente politico e la speranza di passare dal livello dell’utopia a quello
del “progetto” realizzabile. È di questo tipo una famosa utopia successiva al
Moro: la Repubblica di Oceana di James Harrington, ideata sul modello politico della Repubblica Veneziana.[20]
Ad essa seguiranno svariati
modelli di città del Principe che hanno però caratteristiche comuni:
- se per utopia si intende il “non luogo”, ovvero una inattingibile
collocazione, spostata, tramite espedienti letterari, in un tempo ed uno spazio
estranei e comunque irraggiungibili, la città del Principe si presenta come
progetto collocabile, ed in parte realizzabile, data una volontà regale;
- se per utopia si intende uno stato perfetto cui il mitico
fondatore-legislatore ha conferito una forma, ovvero una configurazione fisica,
ma anche e soprattutto un assetto sociale, entrambi fissati una volta per tutti
a garanzia di un’esistenza basata sull’ordine, la pace ed il benessere, la
città del Principe non è tale, in quanto non mette in dubbio la sovranità di
quest’ultimo rispetto ai fautori dell’utopia. “Il Principe, in quanto dotato di
potere, autorità e mezzi economici, è l’unico possibile mediatore tra utopia e
realtà, ma già la stessa mediazione rende ineffettuali le caratteristiche
essenziali dell’utopia”.[21]
Del resto, nel secolo
dell’assolutismo, l’utopia non può che essere concepita come volontà di un
potere assoluto e sovrano. “La vera rappresentazione del potere assoluto si
celebra [...] in quegli impianti residenziali extra-urbani che, costruiti per
il soggiorno del re e della sua corte, sono in realtà dei piani ideali. In essi
l’allusione si esplicita attraverso il gesto autoritario del principe che
ordina la costruzione e modifica e stravolge a proprio piacimento gli stessi
dati naturali”. È così che sorgono dal nulla parchi, boschi e giardini per le
feste regali, montagne artificiali, cascate e giochi d’acqua. Il palazzo che
domina i giardini di corte contiene tutti i lussi e tutto il necessario per
svolgere una vita completamente separata. L’esempio più famoso è quello di
Versailles, che rappresenta l’espressione più completa della pianificazione
urbana e territoriale del XVII secolo.[22]
L’utopia in questo caso
corrisponde ad un’opera di pianificazione totale (almeno dal punto di vista
territoriale). Oltre i palazzi principeschi extra urbe, altri esempi di
pianificazione totale sono dati dalle città fortificate, nate come baluardi
militari per scopi di difesa, secoli prima delle città industriali inglesi.
Da questa
tematica si evolve, fino ad oggi, un diverso filone dell’utopia, alternativo a
quello letterario e filosofico, tramandato fin dai tempi classici. Qui l’utopia
diviene “piano”, “progetto” artistico ma anche tecnologico ed economico. Per
usare le parole di Cabet:
Immagina, sia a Parigi, sia a Londra,
la più bella ricompensa promessa per la pianta di una città-modello, un grande
concorso aperto, ed un grande comitato di pittori, di scultori, di scienziati,
di viaggiatori che riuniscono le piante e le descrizioni di tutte le città
conosciute, che raccolgono le opinioni e le idee di tutta la popolazione e
anche degli stranieri, che discutono tutti gli inconvenienti e gli svantaggi
delle città esistenti e dei progetti presentati e che scelgono tra migliaia di
piani-modello il piano-modello migliore. Concepirai una città più bella di
tutte quelle che l’hanno preceduta. Potrai quindi avere una prima idea
d’Icaria, soprattutto se non ti scorderai che tutti i cittadini sono uguali,
che è la repubblica che realizza tutto e che la regola invariabilmente e costantemente
seguita in tutto è: prima il necessario, poi l’utile, infine il dilettevole.[23]
La componente progettuale, lo
sforzo scientifico e d’ingegneria prevale sull’aspetto politico e sociale, la
cui natura non può del resto essere contraddetta. Questo tipo di architettura
utopica, basata su grandi progetti, al limite della realizzabilità, viene
usata, dal 1700 in poi, per celebrare il trionfo della politica: non solo di
quella del sovrano assoluto, ma anche di quella rivoluzionaria, come mostrano
prima i progetti redatti nel periodo della Rivoluzione francese da E.L. Boullée
e C.N. Ledoux,[24] poi quelli seguenti alla Rivoluzione bolscevica, proposti
dal costruttivismo russo[25] e quelli proposti dall’architettura fascista. Scrive il
Baczko in un capitolo del suo libro esplicitamente dedicato
all’utopia e alla città nel XVIII secolo:
Ricordiamo che nei testi di
Boullée si incontrano spesso temi utopistici, e che questi abbondano nell’opera
scritta di Ledoux. Per chi si ponga delle domande circa i rapporti esistenti
tra la loro architettura e l’utopia ciò rappresenta indubbiamente un segno
importante, anche nel caso in cui si tratti soltanto di un’idea o di
un’immagine banale, del tutto avulsa dall’originalità dell’opera
architettonica. Una ricerca sull’affinità di quest’opera con lo spazio sociale
utopistico deve necessariamente spingersi oltre questi elementi e volgersi a
indagare gli schemi immaginativi operanti nell’architettura stessa, la fusione
delle immagini utopistiche con lo specifico linguaggio architettonico...
L’architettura rivoluzionaria costituisce un capitolo di tanto maggiore
interesse nella storia dell’utopia dell’illuminismo, in quanto è proprio nel
perfezionamento della loro arte, o meglio, nella ricerca della perfezione
tramite e all’interno della loro arte che i suoi massimi esponenti si
orientarono verso gli orizzonti utopistici. Ciò si verificava soprattutto
allorché l’architetto si vedeva libero da ogni limitazione legata alla presenza
di un “committente” e poteva dedicarsi ai progetti ideali.[26]
Alla grandiosità del progetto
architettonico utopico e della sua volontà di pianificazione globale, si
contrappone, proprio nel XIX secolo:
- la crescita disordinata ed impetuosa di una città industriale
priva di servizi, di impianto urbanistico, una vera e propria babele sociale;
- la realizzazione di una vita comunitaria di eguali, nella sperimentazione
socialista inglese e francese ed in quella religiosa e mistica statunitense.
Proprio Parigi, luogo della rivoluzione francese e centro dei più ambiziosi
tentativi di ristrutturazione urbanistica e di riprogettazione monumentale
nell’epoca napoleonica, diviene, con la Comune del 1848, teatro del più
drammatico esperimento di anarchismo e comunismo.
Il nuovo “ordine utopico” proclamato dalla rivolta proletaria parigina
non riesce ad affermarsi che per poche settimane. “Evidentemente, - scrive Giorgio Muratore -
la società francese non era ancora matura per una ‘rivoluzione’ di quella
portata e le speranze di quanti ambivano ad un rinnovamento radicale delle
condizioni di vita e di lavoro dovevano indirizzarsi altrove. La città europea
diventerà invece il momento privilegiato di rappresentazione dei ‘fasti’ del
Capitale e, per restare alla Francia, proprio Parigi diventerà il luogo ed il
simbolo di uno sviluppo industriale ed economico che attraverserà il secolo
trascinando con sé il destino di una società nata dalle illusioni della
rivoluzione dell’ottantanove”.[27]
Parigi, città degli sventramenti
di Hausmann e delle grandi esposizioni universali, capitale mondiale del lusso
e dei commerci, alla quale Walter Benjamin dedicherà tante pagine memorabili,
resterà per le classi subalterne - proprio quelle che Fourier immaginava “liberate” - la città dei “Miserabili”, dei mille disperati personaggi
di Zola, di Hugo e di Grandville, come pure ancora quella di Marx ed Engels.
Con lo spegnersi di uno spirito rivoluzionario, si estingue parimenti
l’ambizione di creare un’isola di comunismo al centro delle capitali europee
(Londra e Parigi). L’utopia viene emarginata[28] e per proteggerla dai potenti, a distanza di due secoli
dalla fantastica descrizione di Moro, i gruppi utopici americani (tra cui molti socialisti emigrati
dall’Europa) avrebbero collocato le loro comunità in terre di frontiera: le
zone interne della Pennsylvania, ai confini con gli insediamenti indiani, nelle
praterie dell’Ohio, nei deserti dello Utah ed infine presso i giacimenti
auriferi della California. Mentre le utopie del nuovo mondo venivano vissute in
quanto tali, in Europa Jules Verne, nell’epoca della restaurazione borghese, spostava l’utopia su altri
mondi: lo spazio extraterrestre o gli abissi sottomarini del Capitano Nemo.
Ancora una volta la letteratura tende a precedere la scienza e la politica
nella scelta del luogo dell’utopia.[29]
La scelta del luogo dell’utopia
ancora divide i pensatori moderni, e – come abbiamo visto – queste scelte
possono essere raggruppate in diversi tipi:
·
un luogo non specificato,
soluzione comune nella letteratura fantastica e fantascientifica;
·
un luogo remoto ed
irraggiungibile, lo spazio, altri pianeti;
·
un luogo isolato,
relativamente indipendente dal punto di vista politico, con una privacy
protetta dal territorio circostante;
·
un luogo centrale e
determinante, in genere scelto dall’architettura utopica rivoluzionaria.
La realizzazione dell’utopia, non
solo come progetto architettonico, ma anche e soprattutto come progetto sociale
alternativo, risulta comunque limitata, nel XIX secolo, ad una “condizione
periferica ed emarginata che non vede il prodotto del proprio lavoro al di
fuori di un circuito che non sia quello dell’autoconsumo o della piccola serie”
anche per le reazioni negative che l’esperimento utopico suscita tra la
borghesia.[30] Il Familistero di Guise, fondato sul modello di Fourier e che produceva ferro smaltato, le comunità industriali
tessili di Owen, le acciaierie di Bethlehem costituiscono rare eccezioni, anche
se schernite da Marx. Questi utopisti:
(...) sognano ancora di sperimentare le loro utopie sociali, di
fondare falansteri isolati, di stabilire “colonie in patria”, di
stabilire una “Piccola Icaria” - riduzioni e volgari della Nuova Gerusalemme - ma per realizzare tutti questi castelli per aria, sono
sempre costretti a far ricorso alle simpatie ed alla borsa dei borghesi.[31]
La maggior parte delle comunità
utopiche ottocentesche, più che essere una punta avanzata di sperimentazione
industriale, un esempio di “organizzazione scientifica” del lavoro,
dell’economia e dei rapporti sociali di produzione, premesse per un comunismo
scientifico come avrebbero voluto Marx ed Engels, in realtà costituiscono un
nostalgico ritorno all’agricoltura in un’epoca di crescente industrializzazione.
La ricerca di un diverso
riferimento per l’utopia si arricchisce di alternative con l’evoluzione tecnica
e scientifica. Le utopie letterarie di fine secolo precedono di decenni la
scienza con la fantascienza: gli abissi degli oceani ed i viaggi interplanetari
sulla Luna, su Venere e su Marte, costituiscono i nuovi orizzonti sui quali
organizzare la fantasia e l’inventività utopica su basi più ampie.
H.G. Wells, discutendo su dove collocare la sua “Utopia moderna”, propone
senz’altro di collocarla su un altro pianeta. La terra ormai sfruttata,
densamente popolata, dominata da tiranni ed imperi che si estendono su gran
parte di essa (e si fa riferimento sia al nazismo, sia al comunismo) non
offrirebbe spazio e sicurezza sufficienti per fondare una nuova civiltà.[32] Altri considerano invece l’utopia come società “recintata”
e difesa, cinta da poderose barriere simili a quelle della muraglia cinese, da
un mondo esterno dove prevale la barbarie (A. L. Huxley, Brave New World).
L’utopia felice è qui sottoposta a permanente e minaccioso assedio, e giusto la
potenza militare e la superiorità tecnica di difesa possono evitare che questa
civiltà opulenta non sia prontamente distrutta dall’invasione del nemico
esterno.
La corsa allo spazio che ha
caratterizzato gli anni ‘60, dal lancio del primo satellite sovietico (1956)
alla discesa dell’uomo sulla Luna (20 luglio 1969), ha rappresentato, per L.
Mumford, il rincorrere di un mito di potenza (“Il Pentagono del
potere”) fortemente correlato all’utopia meccanicistica e solo parzialmente
realizzato, che ha causato alla popolazione statunitense molti sacrifici. La
corsa alla conquista spaziale - sotto molti aspetti - è stata simile ad una vera e propria corsa all’oro, la
conquista di una frontiera che giunge ai confini del sistema solare. Nei
laboratori della NASA vi è chi ha ipotizzato la colonizzazione dello spazio,
progettando astronavi più potenti, insediamenti orbitanti sempre più ambiziosi,
dove sia possibile la ricerca sui nuovi materiali e sulla ingegneria genetica
di nuove forme di vita. Per i tecnici della NASA la terra sarebbe stata - citando le famose parole di Wells - “uno stuoino sul quale
ergersi per raggiungere le stelle”.[33] In questa denaturalizzazione dell’ambiente vissuto,
Buckminster Fuller descrive l’uomo come “macchina progredita” che potrebbe
essere migliorata con l’apporto di ulteriori “protesi” tecnologiche. L’uomo è
un:
bipede autoequilibrante a 28 giunture,
completo di generatore elettrochimico, di batterie ed altre riserve di energie,
atto ad operare migliaia di trazioni idrauliche e pneumatiche, nei motori
periferici; contiene 62.000 capillari, milioni di sensori, sistemi di scambio e
smistamento dei segnali; mandibole e tenaglie... se ben gestito, l’apparato non
avrebbe bisogno di manutenzione per circa 70 anni; questo intero e
straordinariamente complesso meccanismo è guidato da una torretta nella quale
sono ubicati sensori telescopici e microscopici, apparati di telemetria di
precisione, uno spettroscopio, ecc.[34]
Questo modo di pensare
l’onnipotenza della tecnologia genera una sua opposizione. Già nello stesso
anno in cui l’uomo raggiunge la Luna, negli Usa si verificano gravissimi
incidenti razziali. Viene denunciata la sproporzione tra i soldi spesi per le
missioni spaziali e quelli dedicati all’assistenza sociale per le minoranze.
Col costo delle missioni lunari si sarebbero potuti varare importanti programmi
di risanamento urbano. Ci si rende conto che il futuro nello spazio sarà
comunque riservato a pochi eletti, mentre le masse non privilegiate saranno
destinate a condurre la loro esistenza sulla terra ridotta a “spazzatura” (wasteland).
Originariamente la coscienza
planetaria è emersa soprattutto in negativo, imposta da eventi minacciosi per
la vita degli uomini. L’esplosione di Hiroshima del 6 agosto 1945 ha annodato i
fili della vita e della morte di innumerevoli individui ai rapporti di forza
fra superpotenze agli antipodi del pianeta. La guerra arabo-israeliana del 1973
ha mostrato come un conflitto regionale, provocando un’interruzione locale di
flussi materiali ed energetici, avesse la capacità di far precipitare il mondo
in una crisi economica globale e di far vacillare, se non altro per un momento,
le sicurezze degli esperti e dei futurologi. Negli anni ottanta, abbiamo
assistito impotenti alla devastazione ambientale prodotta dall’avventatezza e
dalla trascuratezza di molti governi e di molti complessi industriali, che
rischia di scuotere anche i più consolidati equilibri della biosfera. La sfida
che oggi si impone ad ogni uomo, ad ogni comunità, ad ogni aggregazione
economica e politica è di vivere, invece, questa coscienza in positivo, di
considerare l’appartenenza ad un tessuto globale di interazioni come l’unica
condizione e l’unico strumento adeguati per garantire e per migliorare la
qualità della vita, dei singoli come delle collettività.[35]
Le numerose esplorazioni lunari, e
quelle delle sonde inviate su Marte, senza vita, su Venere, inospitale, e su
Giove e Saturno, glaciali e tenebrosi, hanno purtroppo dimostrato quale piccolo
rifugio possano offrire questi altri pianeti “visti da vicino”. Secondo James
Lovelock, la colonizzazione di Marte, “la nostra seconda casa”, richiederebbe
almeno un riscaldamento della temperatura del pianeta, che potrebbe essere
compiuto provocando in Marte con i clorofluorocarburi quello stesso “effetto
serra” che oggi sta provocando un innalzamento nella temperatura media
terrestre. Il riscaldamento del pianeta potrebbe liberare quella notevole
quantità di acqua che è oggi congelata nelle calotte polari marziane. In
secondo luogo, dovrebbe subentrare una “colonizzazione batterica” di Marte,
capace di predisporre una base per lo sviluppo di un ecosistema marziano,
magari limitato a quegli ambienti (i grandi canyon scavati dalle acque
primordiali che solcavano una volta Marte) dove si può raccogliere e
controllare una miscela d’aria respirabile. Ma è possibile rendere abitabile un
pianeta delle dimensioni di Marte in un tempo minore di un secolo - periodo entro il quale si verificheranno enormi
cambiamenti nel nostro ecosistema - quando la nostra ecosfera, per svilupparsi, ha impiegato
milioni di anni? Lo stesso autore confessa che l’avvio di una “ecopoiesi” di
dimensioni planetarie, nella scala temporale umana, sarebbe “insopportabilmente
lento”. Può essere accelerato sfruttando forme di energia (ad esempio una
centrale nucleare) capaci di trasformare allo stato gassoso quegli elementi
necessari alla vita che rimangono congelati sul suolo marziano.[36]
Cresce negli anni ‘70 una critica
ecologica che rivendica un migliore uso della biosfera e vuole porre vincoli
allo sviluppo del sistema industriale:
Tutte le forme di vita - ha scritto Fulvio Torretti -
trovano il loro sostentamento nell’ambiente naturale, tutte, quindi, svolgono
attività che mirano ad appropriarsi delle risorse naturali necessarie ai propri
bisogni. Gli organismi vegetali assorbono le radiazioni solari, i sali minerali,
l’acqua; gli animali, a loro volta, si nutrono di organismi vegetali o di altri
animali che si sono nutriti in precedenza degli organismi vegetali. L’uomo è
inserito completamente in questa catena, in quanto trae l’energia che gli è
necessaria per la sua esistenza fisiologica, dallo sfruttamento terminale di
queste complesse catene alimentari. La sua dipendenza dall’ambiente naturale è,
perciò, fuori discussione, al di là del più sofisticato sviluppo tecnologico
che egli può raggiungere.[37]
Le sue idee sono condivise da
molti altri che reputano urgente porre un limite all’idea di “progresso” inteso
come “consumo” di risorse non rinnovabili.
Negli anni ‘80, l’incidente fatale
alla navicella spaziale Shuttle, in cui persero la vita gli astronauti, pone
fine ad un periodo di successi ininterrotti e mette in crisi il programma
spaziale americano. Neanche il varo di un programma di “difesa stellare” contro
l’URSS, denominato dal Presidente Reagan “l’impero del male”, è capace di
rimetterlo in piedi. I poderosi problemi tecnici posti dalla sicurezza dei voli
spaziali e dal funzionamento completo di tutti gli apparati tecnici esposti a
condizioni estreme (dallo sportello ermetico che perde ossigeno, al pannello
solare non funzionante, al braccio automatico per porre in orbita i satelliti
“congelato”) fanno di una missione astronautica una continua corsa ad ostacoli,
capace in ogni istante di mettere a rischio la vita dell’equipaggio e rendono,
altresì, incerto il successo dello “scudo spaziale”.
È così che, di fronte a complessi
problemi, ed una minore disponibilità politica e finanziaria, il “luogo”
dell’utopia ritorna sulla terra, la quale è vista non più come pianeta da
abbandonare (dopo esser stato industrialmente sfruttato), ma come pianeta da
recuperare, unico sistema ecologico che siamo in grado di amministrare in una dimensione
spazio-temporale che attualmente l’uomo si è dimostrato incapace di superare.
Agire localmente, nel senso di curare con attenzione il proprio ambiente
senza pretendere di interferire con quello appartenente ad altri popoli, e pensare
globalmente nel senso di rendersi conto del rapporto di interdipendenza che
ci lega agli altri, appare il nuovo modo di agire degli anni ‘90.[38] Lester R. Brown, direttore del Worldwatch Institute, ha
messo in evidenza nel rapporto sullo Stato del mondo 1990, come
“all’inizio di una nuova decade, il mondo abbia un’opportunità di riordinare le
priorità degli obiettivi, e di mettere a fuoco i pericoli che minacciano il
nostro futuro comune”, e fa riferimento all’ondata di riforme sociali che hanno
attraversato l’Europa orientale come esempio di come le mentalità possano
trasformarsi per rispondere a nuove pressanti esigenze mondiali. Lester Brown
fa presente come:
nel 1989, leader politici
nazionali, sensibili ed astuti, si sono resi conto della crescita di
un’opinione pubblica preoccupata del futuro del nostro pianeta. Alcuni, come il
Primo Ministro Thatcher ed il Presidente francese Mitterand, hanno promosso
conferenze su questo tema... Tutte queste iniziative, tuttavia, abbondano in
retorica e scarseggiano in decisioni. A breve termine, i leader politici
possono evitare i problemi con discorsi e manifestazioni di buona volontà. A
lungo termine, tuttavia, la costruzione di una economia sostenibile
dall’ambiente richiede programmi particolari e scelte difficili. La gente è
preoccupata del degrado ambientale del pianeta, e vuole azione.[39]
La realizzazione di una società
industriale (o -
meglio - postindustriale)
“compatibile” con la biosfera che la ospita, anzi sostenibile da questa
biosfera, senza che la crescita dell’una avvenga a spese dell’altra terminando
con un disastro planetario, costituisce l’obiettivo più urgente che viene
assegnato ai popoli della terra, verso il quale tutti i paesi debbono
rivolgersi. Ciò richiede cambiamenti profondi di molti dei “sacri” valori della
società industriale, tesi alla:
- rinnovabilità delle risorse. Le scelte produttive debbono rispettare
la disponibilità delle risorse naturali; non sprecarle se sono scarse;
utilizzare solo risorse rinnovabili; riciclare gli scarti ed i rifiuti senza
produrre ulteriori inquinamenti;
- soddisfazione delle esigenze che riguardano la qualità della vita,
piuttosto che la quantità di merci possedute; ciò significa sostituire servizi
a consumi, e rinunciare ad un tipo di materialismo basato sul possesso e sulla
disponibilità personale;
- produzione a bassa dipendenza energetica, con scarso impatto
ambientale ed alta occupazione. I tre requisiti ovviamente non sono sempre
compatibili. È particolarmente difficile far crescere una società su consumi
energetici minori;
- limitazione della crescita della popolazione mondiale per permettere,
in quelle nazioni dove la popolazione cresce più rapidamente del reddito pro
capite, un miglioramento graduale della qualità della vita, del livello di
istruzione, il raggiungimento di condizioni di uguaglianza dei diritti;
- riduzione delle tensioni e dei conflitti regionali che portano non
solo a devastazioni, carestie e malattie, ma anche a crisi di funzionamento del
sistema di scambi internazionali, su cui l’economia mondiale è imperniata.
Cambiando gli obiettivi
socialmente condivisibili, l’ecotopia sposta l’interesse della scienza e della
tecnologia, nonché gli investimenti economici ad esse connessi, su altri campi
dello scibile. Diminuisce l’interesse per la ricerca fisica e nucleare, mentre
cresce drammaticamente l’interesse nella biologia e nell’ecologia. Non si
ricerca lo sviluppo di nuovi armamenti, ma nuove forme di equilibrio, stabilite
da una conoscenza ambientale capace di salvare equilibri in pericolo e crearne
di nuovi, per riciclare i prodotti di scarto generati dagli insediamenti umani.
Obiettivi prioritari per salvare la biosfera sono:
- il rallentamento della tendenza del clima a riscaldarsi, a causa
dell’immissione di CO2;
- la tutela ed il recupero di acque dolci per uso agricolo e per uso
sanitario;
- la tutela e l’espansione delle coltivazioni, senza distruggere il
patrimonio boschivo ed arrestando l’avanzamento dei deserti;
- il controllo del livello marino, tenendo presente la tendenza del
livello degli oceani ad innalzarsi, a causa dello scioglimento delle calotte
polari;
- il miglioramento della qualità dell’atmosfera, ai limiti della respirabilità
nei grandi complessi metropolitani;
- il riciclaggio ed il riuso, facendo in modo che la maggior parte
della materia prima impiegata dall’industria sia recuperabile.
Il centro di questa “ecotopia” è
dunque il “pianeta azzurro” per la superiore presenza di acqua e di ossigeno.
Paragonandolo agli altri mondi presenti nel sistema solare, e che orbitano in
esso, James Lovelock ha formulato la teoria di Gaia, secondo la quale non vi
sarebbero esseri viventi sulla terra come entità autonome, ma una “terra
vivente” alla quale appartengono i vari esseri che respirano e si muovono su
essa, sfruttando i resti organici di quelli deceduti che hanno contribuito a
creare la fertilità delle rocce terrestri, delle acque e degli oceani, a produrre
l’ossigeno contenuto nell’atmosfera, ed in conclusione l’abitabilità della
terra.
Secondo Lovelock, quindi:
1. La vita è un fenomeno planetario. Su tale scala la vita
è quasi immortale e non ha bisogno di riprodursi.
2. Non ci può essere un’occupazione parziale di un pianeta
da parte di organismi viventi. Sarebbe tanto precaria quanto un mezzo animale.
Al contrario è necessaria la presenza di un certo numero di organismi viventi
per regolare l’ambiente di un pianeta. Dove l’occupazione è incompleta lo renderebbero
inabitabile le forze dell’evoluzione chimica e fisica.
3. La nostra interpretazione di Darwin è cambiata. Gaia
orienta la nostra attenzione sulla fallibilità del concetto di attenzione. Non
è più sufficiente sostenere che “gli organismi che si adattano meglio di altri
sono i più capaci a moltiplicarsi”. È necessario aggiungere che la crescita di
un essere vivente influenza anche il suo ambiente fisico e chimico;
l’evoluzione delle specie e l’evoluzione dei suoli sono pertanto strettamente
connesse, in un unico, indivisibile processo.
4. Il dominio dell’ecologia teorica si è ingrandito.
Considerando in un unico sistema le specie viventi ed il loro ambiente fisico,
possiamo per la prima volta costruire modelli ecologici stabili, capaci di
includere un vasto numero di specie. In questi modelli un ampliamento del
numero delle specie porta ad una migliore regolamentazione ambientale.[40]
Di fronte a questa impostazione
teorica che connette il mondo fisico (inorganico) con quello organico, essendo
ambedue generati da uno stesso processo vivente, durato milioni di anni,
l’ecologista non può nascondere la sua “rabbia istintiva” per l’insensata
distruzione di specie animali e vegetali che soccombono di fronte al progresso
della deforestazione e dell’uso industriale delle materie prime (un “ecocidio
globale”). Per produrre oggetti del tutto effimeri l’uomo manda alla rovina un
mondo prodotto dalla terra a partire da 3.6 miliardi di anni fa: un tempo così
remoto che nessuno di noi è capace a rappresentarsi, né riferendosi al passato
e, tanto meno, riferendosi ad un futuro che, gradualmente, si sta annientando
di fronte ai nostri occhi. La salvezza della vita di Gaia è anche un recupero
di futuro per il genere umano.[41]
Quali sono i luoghi dell’utopia scelti dai più giovani? Prima di rispondere a
questa domanda, così complessa, è necessario mettere in evidenza come essi
siano più vari di quanto la rassegna precedente, basata sulla storia delle
utopie, non avesse fatto prevedere. I “percorsi” scelti dalla fantasia
giovanile sono di diverso tipo, e possono essere riassunti nella tabella
n. 1.
Da questa tabella, costruita in
base alle informazioni rilevate, e contenute nella appendice di analisi
lessicografica,[42] risulta che può essere identificata una dimensione latente
della collocazione del “luogo” della propria utopia, corrispondente all’asse
“socialità-asocialità”. È evidente che
chi colloca la propria utopia in un altro pianeta, ed in un altro tempo, tende
a rifiutare complessivamente la realtà in cui vive ed ad allontanarsi il più
possibile da essa. Al contrario, chi vede aspetti utopici nel rapporto che
intrattiene con gli altri (coloro che ama ed i più stretti amici), oppure
identifica prospettive di sviluppo nel territorio nel quale abita (ad esempio,
il conseguimento dei propri obiettivi di vita), mostra un maggiore grado di
integrazione rispetto alla società alla quale appartiene.
L’analisi sistematica dei temi ha
mostrato come tutte le varianti siano possibili. Esse verranno esaminate in
maggiore dettaglio nelle pagine che seguono.
Non sono molti coloro che
identificano l’utopia nel presente, anche perché, proprio nel presente si
identificano le maggiori carenze. La più bella utopia nel presente è
sicuramente l’amore, al quale molti fanno riferimento. Il rapporto con la
persona amata non permette di superare, ma almeno di “tollerare” molte
insostenibili carenze dell’ambiente nel quale si vive; esso permette altresì di
“lottare” per un futuro migliore, alimentando con l’amore la speranza che in un
futuro prossimo molte situazioni personali versino per il meglio.
Non riesco ad immaginare il luogo
dove riporre la mia utopia – scrive una ragazza – molto diverso da quello in
cui vivo ora: vorrei vivere in un piccolo capoluogo di provincia dell’Italia
del nord, lontana dalle sofferenze e dalle angosce con una famiglia unita e
felice. Sarebbe questo un luogo in cui poter rivivere la mia vita daccapo: la
mia infanzia, la mia adolescenza, la mia amicizia e i miei amori senza
commettere tutti gli errori che ho fatto, eliminando il mio egoismo e la mia
introversione. In questo luogo avrei una madre e un padre felici di stare
insieme finché la morte non li separi e tanti amici con i quali condividere
tutto: dolore e gioco, studio e vacanze, amore e amicizia.[43]
È
evidente, in questo tema, come la considerazione sulle persone con cui vivere
l’utopia (e tutti gli affetti che sono ad essa connessi) prevalga sulla scelta
del luogo fisico entro il quale essa si svolge. L’utopia vera e propria è, per
questa ragazza, l’amore, l’amicizia e l’accordo familiare: “vorrei poter
abitare in una casa piccolina ma accogliente, immersa nel verde e nell’aria
pulita; in un luogo in cui il denaro non abbia valore, per riuscire così ad
impostare l’esistenza nella semplicità, lontano da quelli che sono i desideri
di guadagno e di potere”. A questo proposito è ancora più esplicita una seconda
studentessa:
Il luogo della mia utopia è il
cuore degli esseri umani, un cuore che sia limpido puro come quella distesa
azzurra. Infatti solo se cominceremo a mettere le basi nei nostri animi, nelle
nostre coscienze, potremo sperare di realizzare qualcosa di bello sulla terra.
Allora, anche se non vivremo mai in un altro pianeta o nel mondo del “dolce far
niente”, non piangeremo accanto alle nostre utopie, poiché sarà già speciale
esistere nel mondo reale.[44]
Un’altra ragazza vorrebbe
portarsi appresso, in un’isola lontana da tutto e da tutti, i compagni
migliori:
Ho sempre immaginato di vivere in
un altro mondo, oppure di trovarmi in un luogo diverso da quello in cui vivo.
Ho desiderato, fin dall’infanzia, di trascorrere la mia esistenza su di
un’isola, lontana da tutto e da tutti, un’isola su cui abitare con poche
persone. Questi miei pochi compagni sarebbero di certo individui con le stesse
mie idee (o quasi) e con la stessa voglia che ho io di cambiare tutto quello
che ci circonda.[45]
In altri casi, il luogo dell’utopia rappresenta il desiderio di isolamento
con la persona amata, con la quale si vorrebbe approfondire un legame che,
evidentemente, si è appena stabilito a questa età:
Mi piacerebbe, come al tempo dei
pionieri, vivere in una zona sconosciuta ed inesplorata. Sconosciuta in quanto
non vorrei avere contatti con nessuna persona del mondo esterno, ma vivere in
solitudine con Paolo. Io e Paolo saremo i protagonisti di questa storia
fantastica.
Un’altra ragazza scrive:
14 giugno 1999, ore 5.00. In
questi due giorni io e R. ci siamo costruiti un piccolo rifugio vicino alle
acque del fiume T. ed un piccolo capanno dove poter riporre i nostri attrezzi.
È un luogo meraviglioso situato in un bellissimo promontorio, da dove si può
osservare un panorama incantevole. Sto osservando proprio ora il sorgere del
sole. La luce che via via diviene sempre più intensa, sembra animare tutto il
paesaggio circostante. Verso Nord si può scorgere una bellissima foresta che si
stende per diversi km.[46]
Per amore si possono accettare i
sacrifici di una vita primitiva:
“Vorrei vivere in una capanna
sopra un albero di una tribù di quest’isola (di utopia) ma solo se io sia in
compagnia di una delle più belle ragazze”.[47]
In altri casi, l’isolamento viene
concepito come soluzione a problemi di natura sentimentale, anche se potrebbe
essere difficile superare le scomodità poste dal ritorno ad una vita primitiva:
“Io vorrei invece, dopo aver superato i miei problemi, capirlo interiormente e
aiutarlo… – scrive una seconda ragazza delle scuole professionali a proposito
del suo rapporto con un uomo – Vorrei che la nostra vita isolata ci aiutasse a
superare le nostre difficoltà; a farci capire il vero senso della vita. Certo a
essere sicuri non so se io potrei adattarmi a una simile vita e convivere con
gli scarafaggi e le formiche, ad alzarsi all’alba e andare a dormire al
tramonto, e tanto più a vivere senza mia madre...”[48] Sono evidenti le incertezze di una tale scelta di
isolamento dalla vita civile, che potrebbe implicare grosse rinunzie e
sacrifici. La tendenza ad identificare l’utopia come luogo isolato ed irreale
potrebbe essere associabile alla componente del ritiro narcisista, nella
solitudine.
Altri criticano l’isolamento già esistente in questa società che
determina l’esclusione dal rapporto col prossimo:
Ci sono anche giovani che tentano
di capire, di agire, che dibattono insieme i loro problemi, che cercano di non
perdere i contatti con una dimensione politica essenziale della nostra società,
né con le masse occupate, con gli adulti, con i genitori, con la scuola, vale a
dire con elementi e strutture fondamentali di un unico e inscindibile contesto
comunitario. Molti altri, si ripiegano in se stessi, si isolano
amareggiati, sfiduciati, lasciandosi trasportare dalle cose, dalle circostanze,
in attesa passiva di tempi diversi.[49]
Viene anche criticata
l’esclusività della coppia:
Conosco una ragazza che sta per
sposarsi dopo un lungo periodo di fidanzamento, questa coppia non ha amici e
sono sempre isolati, a me questo non piace e spero di non finire come
loro perché penso che stare a contatto con molta gente mi aiuta a crescere a
rendere meno monotono il rapporto di coppia.[50]
In altri casi l’isolamento si
traduce nel rifugio in una “privacy” che il lusso può garantire meglio,
contrapposto a condizioni personali di affollamento e convivenza:
È sempre più evidente la tendenza
di chiudersi, di isolarsi, di crearsi ognuno un proprio piccolo mondo, che per
i più fortunati consiste in un appartamento di lusso. Le persone diventano
sempre più passive, meno costruttive, spesso tendono a reprimere le proprie
ambizioni.[51]
Non potendo individuare soluzioni,
la gente ricorre a quella fonte di “sogni preconfezionati” rappresentata dalla
televisione, capace di condizionare l’immaginazione:
La nostra società ormai lascia
pochissimo spazio ai sogni ed all’immaginazione, ormai tutta la nostra cultura
ci propina sogni preconfezionati, vari esempi li possiamo avere dalla
televisione che ogni giorno ci fa sorbire ore e ore di stupide soap operas
poco realistiche... Io spesso per fuggire dalla realtà quotidiana cerco di
isolarmi completamente dalla frenesia che mi circonda...[52]
Il sogno ad occhi aperti si può
anche realizzare nella propria stanza, pensata come cabina in una barca persa
in mezzo al mare:
Quando “sogno” di essere sulla
barca ormeggiata a largo mi vedo solo, nella mia cuccetta stretta e piccola,
dove vi sono solo un letto, un paio di oblò, un televisore, uno stereo e alcuni
libri, un posto quindi completamente isolato dal resto del mondo, dove posso
passare giorni interi e pensare di essere rimasto il solo in tutto il mondo.[53]
Questo aspirante marinaio cerca
una vita “senza problemi né preoccupazioni, senza guerra, senza politica e
senza inquinamento, dove non sento il bisogno neanche di pensare a nessuna
forma di problema”.
Il recupero di una dimensione
naturale costituisce un motivo coerente in tutte le testimonianze esaminate:
Io vorrei - scrive uno studente - non una città, ma un mondo che sappia far convivere i
grandi grattacieli, simbolo di un elevato grado di sviluppo tecnico-economico,
con il verde e gli animali, cioè con la natura, che per molti motivi, che per
molti anni è stata alla base dell’economia e della vita della umanità. Deve
essere anche un mondo attivo che possa garantire un posto di lavoro sicuro per
tutte le genti, ma allo stesso tempo, a differenza di quella attuale, che deve
anche concedere un po’ di tempo libero da passare con la famiglia, in modo da
poter rivivere la gioia di un picnic con i propri cari.[54]
È chiara qui l’esigenza di far
coesistere una qualità della vita “civile” con il recupero di valori ed
ambienti genuinamente naturali. Lo stesso ribadisce, più innanzi che “In una
città ideale l’ambiente, quindi la natura, va rispettato moltissimo; cosa che
non accade nelle metropoli odierne dove una giungla di cemento e di asfalto
soffoca il troppo poco verde, rendendo così l’aria circostante irrespirabile ed
oltretutto dannosa”.
La presenza della natura, e delle
sue principali qualità (aria ed acqua pulite), costituisce quindi una premessa
indispensabile per un buon vivere urbano:
La città da me agognata è un
perfetto equilibrio tra natura e modernismo, tra grandi e razionali complessi
abitati e improvvise aperture in spazi verdi, ma, al di là di questo, ed arrivo
al lato più utopico del pensiero, con una diversa mentalità dei cittadini, con
una maggiore disponibilità della comunità per un agire sia collettivo che
individuale, impegnato civilmente e determinato per affrontare realmente
insieme i problemi.[55]
Uno studente, delineando
l’impianto di una tipica città-giardino, scrive:
vorrei una città dove le case
fossero basse in modo da poter vedere il paesaggio, la natura piena di verde,
di fiumi di laghi e di luoghi di svago. Una città priva di caos con poche
macchine e poco smog, insomma con tutto e anche con molte persone, persone che
fanno tutto un lavoro, ma un lavoro che viene retribuito, un lavoro nel senso
che le persone possano rendersi utili per la società, in cui ognuno di noi
occupa in settore ben specializzato, una città in cui le persone si aiutano
l’una con l’altra e se si vuole qualcosa basta chiederla.[56]
La città utopica deve essere
moderna sotto tutti gli aspetti:
Vorrei vivere in una città, ovvero
in una società libera, dove ognuno è libero di avere le proprie idee. Vorrei
che le fabbriche anche se sono utili avessero dei depuratori, e che vengono
site in luoghi ove non vi sono abitazioni, le fognature le farei finire non in
mare bensì in un luogo dove purtroppo non so neanche io. Non vorrei avere più
il terrore di camminare per strada per paura di calpestare siringhe infette e
sdraiarmi rilassata senza paura nei prati che sorgono nella mia città. In
conclusione la mia città ideale deve essere moderna in tutti i campi.[57]
Altri, coscienti delle difficoltà
politiche ed economiche che ciò implica, collocano la loro città giardino in un
altro pianeta “simile alla terra”:
Io immagino un pianeta simile alla
terra per quanto riguarda la conformazione geografica, ma con notevoli
differenze sul piano sociale, politico e tecnologico. Un mondo nuovo,
costituito, da più facciate; da una parte le città che devono essere poche, ma
enormi, delle vere e proprie megalopoli e dall’altra la natura che deve essere
mantenuta intatta. Le città devono avere molto verde all’interno e non devono
essere molto inquinate. Le città saranno divise in quartiere tutti uguali, i
cui abitanti si differenzieranno a seconda dell’attività e del compito sociale
politico che svolgono.[58]
Chi pone la propria utopia nella
città deve, evidentemente, affrontare non solo i problemi di liberare
l’ambiente urbano dai più gravi problemi attuali (fra i quali l’inquinamento e
la violenza), ma anche individuare principi solidi ed innovativi di convivenza
sociale. “La città ha infatti acquisito, ormai da secoli, un ruolo preponderante
nella vita e nella società”, scrive uno studente del liceo classico, “ed ora
soprattutto sta acquistando quei caratteri che saranno essenziali per un futuro
moderno ed efficace, sia dal punto di vista lavorativo, che culturale e dello
spettacolo, ma dovrà essere pianificata e gestita da organi amministrativi
competenti, per far sì che tutto ciò si possa realizzare, anziché avviarsi
verso una società di nuovo stampo medievale”.[59] Non risolvere i grossi problemi urbani significherebbe un
“ritorno alla barbarie”. Se tale ritorno dovesse effettivamente avvenire,
sarebbe meglio vivere in campagna.
Le considerazioni appena fatte
sulla città, resa “invivibile” dall’inquinamento, dalla disorganizzazione e
dalla delinquenza, ci portano ad esaminare le altre ipotesi, di una vita non
urbana, che può assumere varie connotazioni. Non si tratta di una scelta
“facile”, neppure dal punto di vista utopico, come testimonia una studentessa,
romana indecisa tra le fatiche della vita rurale e le nevrosi della vita
urbana:
Ho sempre amato la campagna e i
luoghi incontaminati. A volte mi viene voglia di fuggire dalla mia città e
andare a vivere in campagna deve sarei circondata da tanto verde e dagli
animali. So, però che la vita in campagna richiede molti sacrifici, non si
hanno a disposizione tutte le comodità che invece offre la città, ma è
certamente più salutare, più naturale, è più vera. La vita in città al
contrario è monotona, frenetica, irregolare e stressante, ti fa diventare
nevrotico, non ti fa apprezzare le cose belle della vita, tutto passa e non
resta nulla nel tuo cuore, niente ti colpisce.[60]
La rinunzia alla città, e quindi
ad un maggiore livello di socialità, dev’essere compensata dalla tranquillità,
dall’amore, da un ritorno alla natura e ad un’esistenza sana, dall’applicazione
di principi morali antichi e fondamentali, come scrive questa studentessa:
Vorrei vivere con l’uomo con il
quale intendo condividere la mia vita. In questo luogo vorrei crescere i miei
figli, educarli, insegnarli la norme secondo le quali loro devono conformarsi
in una società rurale, insegnargli dei valori che oramai in una società urbana
non si riscontrano più o poco, come il rispetto per la natura. Inoltre vorrei
vivere in una grande casa con i figli e magari anche i nipoti, ritornando
quindi ad una famiglia patriarcale, dove vige maggior comunanza tra i
familiari.[61]
Ci si trova dinanzi ad un forte
senso della natura, ad un’utopia dai contorni ben definiti, ad un uso della
campagna che non è specificamente corrispondente a quello della tradizione
agricola. Si vogliono infatti inserire nella vita rurale tutti i recenti
progressi della tecnologia moderna.
Per quanto riguarda la mia vita,
sarebbe fantastica accanto ad un uomo che mi voglia bene con dei bambini ed
essere tanto felice. D’estate si potrebbe andare al mare, prendere il sole,
tuffarsi in un acqua limpida senza la paura di prendere qualche malattia, fare
lunghe passeggiate sulla spiaggia senza il pericolo di ritrovare con una
siringa sotto il piede. (Vorrei) possedere una villa dove si potranno passare
giorni indimenticabili ogni qual volta lo si vorrà. I villini devono essere
fatti di materiale non inquinante per l’ambiente, e così anche tutti gli
utensili ad esempio in vetro o in legno. Le case devono essere in circolo con
tutto un viale alberato che gira intorno e nel mezzo un bellissimo parco con un
bel prato verde con tanti fiori, con una fontana con gli spruzzi di acqua
colorata e tanti pesci colorati, panchine altalene, scivoli, ecc. L’alimentazione
deve essere basata solo sui cibi sani e genuini, come ho detto prima senza
conservanti e polifosfati.[62]
In altri temi si profila una vita
idilliaca non difficilmente realizzabile, avendo mezzi economici sufficienti a
soddisfare anche particolari esigenze sportive:
ogni mattina andrei nella stalla,
prenderei il mio cavallo Dafne e farei lunghe galoppate nelle campagne
circostanti, poi mi fermerei vicino un ruscello, dove l’acqua è limpida e
fresca, per far riposare il mio Dafne, mi sdraierei su un profumato prato verde
e, guardando il cielo bianco e celeste, comincerei a sognare ad occhi aperti.
Nel mio mondo però non esistono persone che comandano, tutti gli uomini sono
uguali, ed ognuno ha rispetto per gli altri.[63]
Un’altra studentessa, appassionata
di cavalli, scrive:
Mi dedicherei completamente ai
cavalli, cercherei di entrare nel loro mondo, di capirli, di amarli sempre più.
Conoscere questi animali è stato sempre il sogno della mia vita ed in questo
mio luogo utopico potrei assaporare finalmente quella che è la vita equestre
con tutte le difficoltà che crea, le soddisfazioni che può dare. In questo
mondo i cavalli sarebbero amati, curati, apprezzati da tutti gli abitanti e la
nostra più ambita aspirazione sarebbe quella di creare un circolo ippico attrezzatissimo
ed efficientissimo dove ognuno potrebbe lavorare appassionatamente.[64]
Altre giovani autrici fanno
proposte più facilmente realizzabili, come insediarsi in una baita di montagna,
in un casolare, in una fattoria, scegliendo compagnie ed amicizie:
Vorrei vivere in una casa di
montagna, dove c’è tranquillità, serenità, dove si possono fare delle lunghe
passeggiate, percorrendo quei bei sentieri che attraversano i boschi, senza
avere timore di niente e di nessuno. Stare in mezzo alla natura e agli animali.
Mi piacerebbe che la casa fosse grande e situata in un posto un po’ isolato,
con un grande caminetto e l’arredamento in stile rustico. Un bel cagnone
pastore belga o maremmano, che la sera mi si accoccola accanto, davanti al
caminetto accesso, mentre leggo un bel libro di storie avventurose.[65]
In un altro caso:
L’ideale sarebbe vivere in una
foresta di montagna con una mia futura famiglia, in una casa naturalmente
costruita in legna e circondata da un recinto dove terrei qualche animale
domestico; dovrebbe essere situata in prossimità di un lago o di un fiume in
modo di avere indispensabile riserva di acqua. La vita sarebbe basata sulla
cooperazione di tutti i membri della famiglia, impegnati anche nel mantenimento
dell’equilibrio naturale, messo in pericolo dalla società umana.[66]
Il mio luogo utopico è una campagna che abbia queste
caratteristiche: vorrei che fosse ricca di verde, circondata da molti alberi,
fiori, con intorno animali naturalmente liberi nell’ambiente e lontano da ogni
forma di inquinamento. Proprio per questo vorrei che in questo luogo non
transitino le macchine, perché a lungo andare danneggerebbero l’ambiente
naturale.[67]
Il desiderio di utopia può essere
maggiore di tutto ciò e superare quel minimo realismo necessario per impostare un
progetto di vita. In questo caso, l’utopia non viene più individuata nella
campagna, nel contatto con la natura, ma nella fuga nell’arcadico e nel selvaggio,
e viene rappresentata da un eterno paradiso terrestre:
È un bosco in primavera, magari
simile al Paradiso terrestre di Dante: tanti alti alberi tra le foglie il sole si diverte a fare capolino;
fiori di mille specie e dai mille colori sparsi un po’ ovunque; animali
tranquilli nel loro operare quotidiano. Nel centro del bosco ci sarebbe uno
splendido lago dalle acque limpide come il fiume dantesco Leté: io vivrei in
una casetta di legno sul cui soffitto ci sarebbe una piccola finestra sotto cui
ci sarebbe il mio letto e dalla quale potrei ammirare il cielo stellato della
notte, prima di addormentarmi.[68]
Oppure da un ambiente selvaggio ed
incontaminato, dove vivere di caccia e di pesca, in modo tecnologicamente
primitivo, ma socialmente civile.
L’esistenza dell’uomo non deve
violare la natura:
Il luogo della mia utopia invece è
molto simile ad una foresta o ad un bosco immenso. Non importa se inesplorato
già in passato, è sufficiente che non sia insediato da nessuna civiltà che
possa comprometterne la naturale bellezza.[69]
Il contatto con la natura viene
vissuto come un incanto, da chi è abituato all’inquinamento urbano:
Di fatto, però, la fantasia in cui
più spesso mi capita di perdermi riguarda un posto inesplorato, selvaggio come
ad esempio una foresta dove proprio il contatto diretto con la natura mi fa
sentire parte di “Lei”, annullata in questa atmosfera incantata.[70]
Per alcuni si tratta di una vera e
propria esperienza mistica:
Un luogo dove si possa fare tutto
senza sottostare a delle regole; un luogo dove trionfi il bene. Vorrei in
questo mondo stare da sola, vorrei essere una donna primitiva e vivere in una
foresta a contatto con l’acqua. Mi immagino passeggiare in questo prato soffice
per mano con Dio, ed è una sensazione straordinaria; sentirsi leggeri, felici a
tal punto che manca il respiro.[71]
La vita selvaggia implica
sacrifici che si potrebbero accettare:
Inizialmente sarebbe difficile
l’adattamento a causa dell’apparente ostilità del luogo e del clima, la
presenza di animali pericolosi, l’isolamento assoluto e la mancanza dei
cosiddetti comfort della civiltà, ma sicuramente con il passare del tempo
sarebbe facile adattarsi potendo così godere in modo totale la serenità, la
semplicità, il piacere di respirare di guardarsi intorno, oltre alle molte
soddisfazioni che può trasmettere un simile paesaggio e una simile vita
destinata, probabilmente a rimanere un utopia.[72]
La vita selvaggia non preclude una
socialità, che assumerebbe, sotto determinati aspetti, forme di raggruppamento
socializzanti:
Vorrei organizzare delle intere
giornate a pesca con le canoe nel silenzio della natura, fare delle escursioni,
andare a caccia e al termine della giornata accendere un fuoco sulla riva del
fiume e cucinare senza poi alla fine della giornata (come ogni giorno nella
vita reale) si debbano svolgere i lavori quotidiani.[73]
Il luogo dei mie sogni è una casa
abitata da me e dai miei amici, situata lungo una spiaggia contornata da verde.
Vorrei che questo fosse un luogo selvaggio, dove dovremmo vivere dei frutti
della natura, e andare in cerca di selvaggina durante la giornata, per poi
preparare tutti insieme un delizioso pranzo sulla spiaggia.[74]
Alcuni riescono ad identificare la
presenza di tali luoghi in altre parti del mondo, nelle quali si vorrebbero
recare, come l’Australia:
L’Australia è il nuovo continente,
il continente quasi inesplorato, ricco di natura e di persone che credono
ancora nei valori morali, sono affascinata e attratta da questo continente e mi
piacerebbe moltissimo visitarlo per magari viverci. Potrei trasferirmi là anche
dal prossimo anno, dopo la licenza liceale, frequentare l’Università
(veterinaria naturalmente!), costruirmi una casa grandissima con una decina di
chilometri quadrati di “giardino” pieno di animali, soprattutto gatti e
cavalli.[75]
Oppure foreste e giungle
inesplorate, contenenti antiche civiltà:
In questo mondo così libero forse
vivrei di caccia e di pesca, e ci sarebbero sempre spedizioni esplorative;
partire all’avventura e scoprire animali rarissimi, ritrovare templi di antichi
tribù, pietre e amuleti preziosi, e poi tornare alla città ed essere accolti
con grandi festeggiamenti; organizzare gare, giochi, canti per le grandi feste
e vivere sempre tutti insieme, libere di scegliere la propria vita senza
condizioni.[76]
Quello che io voglio è dare
origine ad una civiltà umana in mezzo alla foresta cioè creare migliaia di
Tarzan accompagnati dalle loro Jane. Come ogni civiltà, anche quella della
foresta ha bisogno di organizzazione, di scopi e di aspirazioni. Per me
l’organizzazione l’insegna direttamente la natura, perché noi siamo legati ad
essa come una catena quindi basta guardarsi intorno, sentire il cinguettio
degli uccelli, il rumore dei ruscelli e vedere la luce filtrare tra gli alberi
per riuscire ad organizzarsi.[77]
Oppure fruire delle comodità di
“...un’isola tropicale con tanto di palme, di natura selvaggia e incontaminata,
di terra feconda (in modo da offrire un sostentamento indipendente) tutto sullo
sfondo dell’azzurro e cristallino mare dei tropici. Sarebbe senza dubbio magnifico,
comincerebbe una vita più pura, più vivibile in tutti i sensi e paventata da ogni
uomo, cancellando le giornate uggiose del passato”.[78]
Se si prescinde dall’immediato
contesto nazionale, le possibilità di vita utopica offerte nel resto del mondo
appaiono essere moltissime, tanto da rendere impossibile una rassegna completa.
Ciò premette ad un’ultima impostazione, data dagli studenti, alla questione
del “luogo dell’utopia”, quella cioè di eleggere l’intero pianeta terra, come
utopia, oppure di spostare l’utopia al di fuori della terra.
Si è già visto, nella sezione 5 di
questo capitolo, come negli anni ‘60 la fantascienza, da un lato, e la ricerca
spaziale, dall’altro, abbiano portato ad “esportare” l’utopia su altri pianeti
e mondi del tutto sconosciuti. Questa tendenza si è contratta, nei successivi
anni ‘80, a concezioni che -
comparativamente alle precedenti - appaiono più realistiche e ristrette al solo pianeta
terra, inteso come mondo da “recuperare” sia dal punto di vista dei rapporti
sociali e politici, sia dal punto di vista degli equilibri ecologici.
Si ha un riscontro di tale
trasformazione delle prospettive futuribili anche nei temi esaminati nel corso
della ricerca. Pochi sono infatti i temi che parlano di avventure spaziali, di
incontri intra- ed extragalattici, facendo esplicita allusione alla narrativa
fantascientifica, e molto più numerosi sono gli interventi di una “politica
utopica globale” che riguardi le attuali e future condizioni dell’umanità. Tale
scelta viene ben evidenziata da uno studente del 3° Liceo classico:
Ritengo che sia difficile con
l’attuale cosmopolitismo riuscire ad immaginare un singolo luogo ideale come
un’isola od un villaggio nel quale vivere. Se, infatti, è vero che il nostro
pianeta si è ormai avviati verso la realizzazione del villaggio globale non ci
si può che ritenere cittadini della terra. Il luogo della mia utopia quindi,
anche per non parlare di egoismo, deve essere considerato il mondo intero nella
sua totalità e non una singola parte di esso dove vive una parte dell’umanità.
Non credo che sia necessario nella realizzazione del mio luogo utopico
immaginare la vita su un altro pianeta perché il vero problema non è l’ambiente
dove viviamo, ma siamo noi uomini con tutti i nostri difetti.[79]
Lo studente immagina una
“neoterra” ed un’umanità “neoterrestre”; un’utopia nella quale il “luogo” è lo
stesso, “ma i suoi abitanti sono mutati, l’egoismo, la cupidigia, il
menefreghismo, la cattiveria, l’invidia, l’odio non trovano spazio. Si
sostituisce così alla filosofica l’interpretazione di ‘homo homini lupus’
quella che potremmo dire ‘homo homini aminus’”.
Una scelta analoga è compiuta da
una studentessa della stessa scuola, che scrive:
Ogni uomo che abbia un minimo di
dignità esprime il desiderio di un’esistenza migliore di questa che siamo
costretti a vivere. Sinceramente non mi interessa trovare o creare un posto per
poter attuare la mia utopia, perché sono convinta che il nostro bellissimo
pianeta ci offra quotidianamente degli scenari adatti a questo scopo. L’unico
vero limite alla sua organicità è proprio l’uomo che, da quando è comparso, non
ha fatto altro che distruggere sempre di più quello che ha trovato.[80]
La vita sulla terra, scrivono
altri, è una meraviglia che si ripete ogni giorno, al sorgere del sole. Ad essa
non bisogna affatto rinunziare:
Pianeta terra: febbraio 1991
“Operazione utopia”. È l’alba di un giorno nuovo, diverso: fuori c’è
l’arcobaleno. Stanotte ha piovuto molto; l’aria è fresca e piena di germogli in
fiore. Come è piacevole svegliarmi una mattina e scoprire che quasi per “incantamento”
l’oggetto della tua ispirazione ideale non è più un’utopia. Ho sempre provato
ad immaginare un mondo umano dove poter vivere e crescere in armonia e pace.
Poteva essere un luogo selvaggio ed inesplorato, un pianeta lontano, - perché no? -, ma per la mia utopia ho scelto un pianeta che “nessuno
conosce”: il pianeta terra. È vero, nessuno lo conosce, e voglio che tutti,
almeno per un mese un indimenticabile attimo, crescano e vivano insieme a me...[81]
Tutti costoro però riconoscono che
per essere resa di nuovo abitabile civilmente, il lavoro da compiere è enorme.
“La vita che vi si condurrebbe, sarebbe orientata esclusivamente verso il
recupero globale della natura... l’organizzazione di questo nuovo mondo potrebbe
essere, in principio, molto complicata”.[82] Una ragazza non perde la fiducia che in tutti noi esista
una vocazione di utopia:
Lo sapevate che in tutti noi c’è
un potenziale architetto? Non ci credete? Ebbene si, tutti sono capaci di fare
un progetto. Non occorrono lauree per progettare il futuro, anzi no, il
presente. Io il mio progettino l’ho fatto, non ho molte pretese ma credo che
meriti di essere guardato. La mia prima grande aspirazione è la pace, ed oggi
il mio desiderio è diventato realtà. Per un solo attimo di gioia, la pace del
mio mondo immaginario, ci unisce in fratellanza. Non solo non esistono guerre e
ostilità ma vige la solidarietà, la comprensione e l’amore. Noi siamo amore e
bene; l’odio nasce da coloro che vogliono sottrarsi a questo amore. Nel mio
mondo utopistico nessuno pratica il male. Tutti i popoli della terra ci fanno
parte e la collaborazione che si basa perfettamente sulla fiducia reciproca tra
essi è il perno che lo fa ruotare.[83]
A distanza di anni i risultati di
una generazione costruttiva potrebbero divenire tangibili. Le future
generazioni potranno dire che:
Noi ragazzi di oggi, avevamo
cambiato il mondo: non c’erano state più guerre; le nuove fonti di energia
avevano sostituito il petrolio che aveva lasciato gravi ferite all’ecologia;
bianchi, neri e gialli vivevano bene insieme, anzi la parola razzismo era
scomparsa dai vocabolari; le condizioni di vita dei paesi del terzo mondo erano
migliorate grazie ai contributi volontari delle nuove organizzazioni mondiali
per l’aiuto ai popoli bisognosi; Sovietici e Americani godevano dello stesso
tenore di vita come la maggior parte dell’umanità...[84]
Altri giovani non se la sentono di
assumersi grossi impegni nel sociale. Preferiscono pensare ad un altro pianeta,
forse “simile” alla terra, e si domandano perché siano finiti in “questo”
mondo:
L’uomo, proprio quando intuisce la
sua limitatezza e finitezza è teso paradossalmente all’infinito, al metafisico.
È questo, penso, che tante volte mi porta a sognare, a pensare come sarebbe la
mia vita su un altro pianeta, con altre abitudini e costumi. Come scrisse il
Foscolo: “Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazi
dell’universo che mi circondano”. Mi trovo come attaccato ad un piccolo angolo
di una spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui
che altrove.[85]
Ognuno porta nel cuore la sua
utopia, avendo come immagine di riferimento la “nostra amata terra”, con
qualche importante variazione:
Come ogni uomo, anch’io porto con
me la mia utopia che consiste in un mondo diverso non situato però in un altro
pianeta, in un altro tempo; sarebbe semplicemente la nostra amata terra con
qualche piccola variante: più natura meno asfalto, più alberi meno industrie,
più amore, fratellanza, uguaglianza e meno odio. Con queste poche
caratteristiche, credo di aver sinteticamente dato l’idea del mondo in cui mi
piacerebbe vivere, sicuramente un mondo più vivibile per tutti ma difficile da
realizzare.[86]
Eventualmente anche chi prende una
navicella spaziale per fuggire dal presente, desidera un luogo simile alla
terra originaria:
Spesso ho sognato di fuggire da
questa realtà, di trovare molto lontano un altro pianeta, incondizionato,
incontaminato e senza corruzione. Salivo su una nave spaziale e partivo per
l’ignoto. Arrivavo a destinazione restando sbalordito dalla bellezza del luogo.
Un immenso verde, il mare degno del suo nome.[87]
L’insediamento nel nuovo mondo
potrebbe dare la forza e l’entusiasmo di ricominciare a ricostruire tutto da
capo, evitando gli errori compiuti sulla terra:
Ed ora è giunto il momento di dire
quale è il luogo della mia utopia: è vero sono già diciotto anni che vivo in
città, ma non è proprio questo il posto che fa per me: desidererei vivere in un
altro pianeta, deserto e inesplorato, con la mia famiglia, i miei amici, tanti
animali, e lì partendo dal nulla mi piacerebbe costruire un mondo
tecnologicamente avanzato, con tutte le comodità, dove tutti siano uguali e
possano condurre una vita serena, piena di gioia e divertimenti, senza angosce
né problemi di alcun genere.[88]
Troviamo anche un altro studente
desideroso di ricostruire tutto da capo sul pianeta nel quale si è trasferito,
assieme ad un ristretto gruppo di amici. In questo caso, tuttavia, lascia anche
un grosso spazio alla natura ed agli animali:
Con queste persone quindi mi metterei
al lavoro per far sì che questo pianeta diventasse abitabile. Da una parte
costruirei le abitazioni necessarie agli uomini che naturalmente si
accontenteranno del minimo necessario per sopravvivere. Il resto del pianeta lo
lascerei selvaggio a disposizione dei tanti animali che troverebbero così un
rifugio sicuro dai maltrattamenti che subiscono ora. Su questo pianeta non
esisterà la caccia e tanto meno la vivisezione.[89]
Una studentessa si accontenterebbe
di compiere passeggiate intergalattiche che assomigliano alle uscite del sabato
sera:
Il tempo lasciato libero dal
lavoro sarà dedicato allo sport, cultura e ad un impegno diverso più umano e
civile. Ci saranno spettacoli interplanetari, passeggiate da un pianeta
all’altro, navicelle spaziali velocissime che anche i ragazzi potranno guidare,
così invece di andare al cinema in centro, come oggi, si farà una capatina su
Marte, su Venere “per vedere cosa c’è stasera”. Un mondo tutto diverso dove
tutti, avranno lo stesso quoziente di intelligenza.[90]
C’è invece chi pensa che la
tranquillità e la pace nel nuovo mondo debba essere garantita da un ferreo
rispetto delle nuove leggi, in grado di dominare la cattiveria degli uomini
insediati:
Il luogo da me immaginato è vario,
è un susseguirsi di paesaggi diversi tra loro, affinché possa adattarsi alle
menti di ogni individuo e ai loro stati di animo. Il pianeta non deve essere la
terra, anzi deve trovarsi lontano da questa per non essere influenzato dal male
e dalla corruzione che la domina. Organizzerei questo pianeta con regole
altamente democratiche, ma ferree, attuate nel modo migliore da una squadra
speciale di sorveglianza, che permetta di far rispettare la libertà di ogni
individuo. Le uniche persone degne di abitare tale luogo sono bambini non
ancora influenzati da cattivi principi, studiosi di ogni campo scientifico per
far progredire il modo di vivere e la civiltà che secondo me è determinata da
buoni rapporti interpersonali per i quali si riesce a fare più di quello che ci
aspettiamo.[91]
Un altro, infine, darebbe il
governo della sua utopia agli animali che, a partire dal ventesimo millennio,
“nel 19993 avrebbero raggiunto un livello di progresso che gli rivelò la verità
suprema alla quale essi aspiravano fin da tempi preistorici”:
Il luogo inesistente che io ho
chiamato “De Rerum Ludendi” si trova all’interno della Luna. È coperto dalla
crosta lunare che funga da scudo spaziale. All’interno vi sono quattro sistemi
solari, otto galassie, sedici nebulose, e una grande landa di terra dove vi
sono gli animali e gli uomini. Gli animali vivono in grandi città, lavorano,
hanno delle case dove vivono con i figli ed i consorti. Questi animali
partecipano attivamente alla politica ed hanno un grande consiglio dove
eleggono tre ministri. Ogni ministro ha un potere legislativo, esecutivo e
giudiziario. Inoltre è anche il capo di un partito politico. Quindi vi sono tre
partiti che tradotti in termini lunari: animali, anicratico, animistra. Il fine
di questi animali è di raggiungere la verità con il progresso scientifico,
economico e culturale. Alcuni di questi animali sfruttano gli uomini. Ad
esempio, nelle campagne gli uomini vivono in grandi fattorie dove hanno il
compito di fornire la carne che mangiano gli animali, i capelli per i cappotti
delle femmine dell’animale e il latte delle donne (femmine degli uomini) per
farlo bere ai figli degli animali. Altri animali invece sono più sensibili e
lasciano gli uomini liberi per le campagne, i boschi, le foreste, i parchi, o
li addomesticano...[92]
[1]. Alexander Tzonis, Counterfacts, Counternorms and Transworld Mental Lines, in Utopia e Modernità. Teorie e prassi utopiche nell'età moderna e postmoderna, a cura di Giuseppa Saccaro del Buffa e Arthur O. Lewis, Gangemi, Roma-Reggio Calabria, 1989, p. 71.
[2]. “Il distacco tra il mondo utopico e quello reale - scrive ancora Tzonis - che è generalmente rappresentato, nel discorso utopico, da una distanza temporale e/o spaziale, può essere ovviamente superato, in senso metaforico. Infatti, mentre si parla nell'utopia di viaggi, itinerari, traversate, voli, immersioni o proiezioni ad altre epoche con la macchina del tempo, ci si riferisce, implicitamente, ad un paragone con realtà vissuta nel presente, congiunta con le linee mentali dell'universalità (transworld mental lines)”. A. Tzonis, Counterfacts, Counternorms..., cit. p. 72.
[3]. “As Bloch noted, ever since Plato used the term topos ouranios (heavenly space or place, the locus of Plato's ideas), a clear signal had been given that utopian location (Ortung) is only seemingly spatial, if spatial is to be taken in the positivistic sense of photographable places”, Darko Suvin, Locus, Horizon and Orientation: The Concept of Possible Worlds as a Key to Utopian Studies, in Utopia e modernità. Teorie e prassi utopiche nell'età moderna e postmoderna, op. cit., Roma, 1989, p. 57.
[4]. Tommaso Moro, Utopia, 6a edizione a cura di Tommaso Fiore, con Prefazione di Margherita Isnardi Parente, Laterza, Bari, 1990, p. 14. Vedasi a questo proposito il saggio di Francesca Cantù, Scoperta del nuovo Mondo e visione utopica nel Cinquecento, in Utopia e Modernità, a cura di G. Saccaro del Buffa e A. Lewis, op. cit. pp. 749-776.
[5]. Ibidem, p. 15.
[6]. Naturalmente si tratta di una metafora. Cfr. G. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, Boringhieri, Torino, 1963; e successivamente, C. Hill, Il mondo alla rovescia, Torino, 1972.
[7]. Margherita Isnardi Parente, Prefazione, a Utopia di Tommaso Moro, a cura di Tommaso Fiore, Laterza, Bari, VII ediz., 1990, p. xxiii.
[8]. Successivo alla delibera parlamentare del febbraio 1531, l’Atto di supremazia proclamava definitivamente il Re d'Inghilterra capo della Chiesa nazionale.
[9]. Per una bibliografia italiana sul concetto di utopia si veda: AA.VV., Forma dell'utopia, La Pietra, Milano 1979; M. Adriani et al., L'utopia nel mondo moderno, Vallecchi, Firenze 1969; D. Andriello, Il pensiero utopistico e la città dell'uomo, Minerva, Napoli, 1966; M. Baldini (ed.), Il pensiero utopico, Città Nuova, Roma, 1974; A. Baldissera, Il concetto di utopia. Problemi e contraddizioni, in G. Giannotti (ed.), Concezione e previsione del futuro, Il Mulino, Bologna, 1971; B. Bronislaw, L'utopia, Einaudi, Torino, 1976; B. Cattarinussi, Utopia e società, Angeli, Milano 1976; B. Cattarinussi, “Utopia”, in Nuovo Dizionario di Sociologia, Paoline, Milano, 1987; E.M. Cioran, Storia e utopia, Adelphi, Milano,1982; V. Fortunati, La letteratura utopica inglese. Morfologia e grammatica di un genere letterario, Longo, Ravenna, 1979; G. Genovesi, T. Tomasi Ventura, L'educazione nel paese che non c'è. Storia delle idee e istituzioni educative in Utopia, Liguori, Napoli, 1985; G. Grassi, Utopia morale e utopia politica, D'Anna, Firenze, 1980; R. Mamoli Zorzi, Utopia e letteratura nell'Ottocento americano, Paideia, Brescia, 1979; N. Matteucci (ed.), L'utopia e le sue forme, Il Mulino, Bologna, 1982; A. Nesti, Utopia e società. Per una sociologia dell'utopia, Ianua, Roma, 1979; A. Petrucciani, La finzione e la persuasione. L'utopia come genere letterario, Buffini, Roma 1983; I. Roventi (ed.), Luoghi dell'utopia, D'Anna, Firenze 1979 ; S. Sarti, Utopismo e mondo moderno, Palumbo, Palermo, 1960; G. Uscatescu, Tempo di utopia, Giardini, Pisa, 1967.
[10]. Per le origini classiche di questo mito nella letteratura greca, in particolare Ferecrate, cfr. The Old Comedy and the Land of Cokaygne, in Frank E. e Fritzie P. Manuel, Utopian Thought in the Western World, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1979, pp. 78-81.
[11]. J.C. Davis, Utopia and the Ideal Society. A Study of English Utopian Writing (1516-1700), Cambridge University Press, Cambridge England, 1981, pp. 20-22.
[12]. J.C. Davis, op. cit., p. 23.
[13]. Vedasi a questo proposito Von Reinhold R. Grimm, Arcadia und Utopia. Interferenzen im neuzeitlichen Hirtenroman, in Utopieforschung. Interdisziplinäre Studien zur neuzeitlichen Utopie, a cura di Wilhelm Vosskamp, J.B. Metzler, Stuttgart, 1982, vol. 2, pp. 82-100.
[14]. Franca Fedeli Bernardini, Paradiso terrestre, Utopia, Apocalisse, in Le città dell'utopia a cura della stessa, Provincia di Roma, Assessorato alla Pubblica Istruzione e Cultura, Roma, 1988, pp. 9-10.
[15]. Reinhart Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova, 1986, pp. 13-14.
[16]. Ibidem, p. 14.
[17]. Ibidem, p. 17.
[18]. R. Koselleck, op. cit., p. 17. Aggiunge l'autore: “la pace adesso significava placare i fronti religiosi della guerra civile, congelare il loro status quo. Oggi è ben difficile valutare l'enormità, per quel tempo, di una tale pretesa. Ma il compromesso nato dalla necessità celava in sé un nuovo principio, quello della ‘politica’, che si sarebbe pienamente affermato nel secolo successivo” (p. 16).
[19]. Koselleck, cit. p. 19.
[20]. James Harrington, La Repubblica di Oceana, tra. it., a cura di Giuseppe Schiavone, Angeli, Milano, 1985. Anche Harrington ebbe difficoltà a far accettare il suo scritto. “Prima che la pubblicazione fosse completata, l’opera fu requisita dalle autorità. Tutti i suoi sforzi per la revoca del provvedimento si rivelarono inefficaci, finché, disperato, non si rivolse alla figlia prediletta di Cromwell, Lady Claypole, perché intercedesse in suo favore”. Dalla introduzione al volume di G. Schiavone, La figura di James Harrington: Scienza, politica e utopia, p. 23. Le differenze tra Moore ed Harrington sono notevoli e fondamentali. Per citarne alcune: eliminazione della proprietà privata e del denaro nel primo, conservazione e ridistribuzione del reddito e della proprietà nel secondo; aspra critica dell'aristocrazia nel primo, mediazione con le classi al potere nel secondo; abolizione della guerra nel primo, conservazione di una forza difensiva nel secondo.
[21]. Paola Zampa, La città del Principe, in Le città dell'Utopia a cura di Franca Fedeli Bernardini, Roma, 1988, p. 25.
[22]. Ibidem, p. 29.
[23]. E. Cabet, Viaggio in Icaria, cit. da Paola Zampa.
[24]. Cfr. a proposito E. Kaufmann, Tre architetti rivoluzionari: Ledoux, Boullée, Lequeu, Milano, 1976.
[25]. Milka Bliznakov, The Dynamic Egalitarian City: Twentieth Century Designs for Urban Development in Russia and their Utopian Sources, in Utopia e Modernità, op. cit., pp. 401-438.
[26]. Bronislaw Baczko, L'utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell'età dell'illuminismo, Einaudi, Torino, 1978, p. 353.
[27]. Giorgio Muratore, Dalla città dell'utopia alla città della merce, in Le città dell'utopia, op. cit. p. 33.
[28]. Specialmente, vogliamo precisare, quella che associa la realizzazione di un mondo utopico con la rivoluzione socialista. Per una rassegna sulle origini degli insediamenti americani vedi: Charles Nordhoff, The Communistic Societies of the United States, 1875, ripubblicato da Schocken, New York, 1965.
[29]. Scrive Alfonso Cardamone sul teatro di strada, una esperienza rapidamente decaduta in Italia dopo gli anni settanta. “Molti hanno sostenuto e sostengono che il teatro non può essere rivoluzionario. Come l'intellettuale, che può al massimo rappresentare la coscienza critica, la spia di certi movimenti della storia e del pensiero che non vengono colti dal momento della politica e della contingenza, ma mai l'attore diretto ed esclusivo della rivoluzione. E' vero. Ma è altrettanto vero che sarebbe sbagliato continuare a coltivare l'illusione (ha poca importanza stabilire se più leninista o più socialdemocratica) che per cambiare il corso della storia occorra attaccare il Palazzo d'Inverno. L'Utopia di cui abbiamo parlato era, all'opposto, quella di un cambiamento non attraverso l'attacco al Palazzo d'Inverno, ma attraverso la crescita della coscienza, a partire dall'Arte, se vogliamo dal Teatro e dalla Festa, che avrebbe potuto portare (e sia pure all'interno di una comunità limitata e ristretta, ma si trattava di un esempio) la classe degli emarginati quanto meno a condizioni di vita e di pensiero diverse”. Id., L’utopia negata, Dismisuratesti, Amm. Provinciale di Frosinone, 1987, pp. 25-26
[30]. G. Muratore, op. cit., p. 34.
[31]. Citato da Adam Ulam, Socialism and Utopia, in “Daedalus”, primavera 1965, p. 392.
[32]. H.G. Wells, A Modern Utopia, University of Nebraska Press, Lincoln, 1905, ristampa del 1967, pp. 12-13.
[33]. Cit. da Lewis Mumford, The Myth of the Machine. The Pentagon of Power, Harcourt, Brace, Jovanovich, New York, 1970, p. 309.
[34]. R. Buckminster Fuller, Operating Manual for Spaceship Earth, Carbondale, Illinois, 1969 (citato dal Mumford, op. cit., p. 56). Un’opera che anticipa di dieci anni l’invenzione del cyborg. Il manuale di istruzioni per la gestione del terrestre, proviene da una fonte spaziale.
[35]. Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Edgar Morin, Turbare il futuro. Un nuovo inizio per la civiltà planetaria, Moretti e Vitali Editori, Bergamo, 1990, pp. 101-2.
[36]. James Lovelock, The ages of Gaia. A biography of our living earth, Bantam, New York, 1990, cap. 8.
[37]. Fulvio Torretti, Lo sviluppo capitalistico come autodistruzione della specie umana, in Macchine e utopia. Il lavoro, la metropoli, il dominio, e la ribellione di fronte alla “rivoluzione informatica”, a cura di Marco Melotti, Dedalo, Bari, 1986, p. 239.
[38]. Hazel Henderson, Thinking Globally - Acting Locally. Ethics for the Solar Age, “Alternative Futures”, winter 1981, vol. 4(1), pp.100-114. Per i giovani vedi il recente manuale di comportamento ecologico: The Earth Works Group, 50 Simple Things Kids Can Do To Save the Earth, Universal Press Syndicate Co., Kansas City, 1990; e per gli adulti: The Earth Works Group, 50 Simple Things You Can Do To Save the Earth, Universal Press Syndicate Co., Kansas City, 1990.
[39]. Lester R. Brown, Acknowledgements, in Lester R. Brown (a cura di), State of the World 1990, A Worldwatch Institute Report on Progress toward a Sustainable Society, W.W. Norton, New York, 1989, pp. vii e viii.
[40]. J. Lovelock, The Ages of Gaia, op. cit., p. 63 (la traduzione all'inglese è nostra).
[41]. J. Lovelock, The Ages of Gaia, cfr. l'Epilogo, pp. 235-7.
[42]. Si veda il sito internet di questo libro:
http://scienzaesocieta.cassino.edu/laborato/giovani/index.htm
[43]. T. n. 25, F., Roma, 3° Liceo Classico.
[44]. T. n. 309, F., Roma, Itis.
[45]. T. n. 468, M., Roma, Liceo Scientifico.
[46]. T. n. 61, F., Roma, Istituto Professionale Femm.
[47]. T. n. 383, M., Roma, Istituto Tecnico Nautico.
[48]. T. n. 87, F., Roma, Istituto Professionale Femm.
[49]. T. n. 629, F., Roma, Liceo Scientifico.
[50]. T. n. 63, F., Roma, Istituto Professionale Femm.
[51]. T. n. 93, F., Roma, Istituto Professionale Femm.
[52]. T. n. 57, F., Roma, Istituto Professionale Femm.
[53]. T. n. 390, M., Roma, Istituto Tecnico Nautico.
[54]. T. n. 7, M., Roma, Liceo Scientifico.
[55]. T. n. 28, F., Roma, Liceo Classico.
[56]. T. n. 388, M., Roma, Istituto Tecnico Nautico.
[57]. T. n. 50, F., Roma, Istituto Professionale Femm.
[58]. T. n. 368, M., Roma, Istituto Tecnico per Geometri.
[59]. T. n. 31., M., Roma, Liceo Classico.
[60]. T. n. 96, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[61]. T. n. 67, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[62]. T. n. 37, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[63]. T. n. 36, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[64]. T. n. 96, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[65]. T. n. 38, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[66]. T. n. 128, M., Roma, Liceo Scientifico.
[67]. T. n. 67, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[68]. T. n. 294, F., Roma, Liceo Linguistico.
[69]. T. n. 128, M., Roma, Liceo Scientifico.
[70]. T. n. 92, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[71]. T. n. 89, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[72]. T. n. 128, M., Roma, Liceo Scientifico.
[73]. T. n. 87, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[74]. T. n. 65, F., Roma, Istituto Professionale Femminile.
[75]. T. n. 126, F., Roma, Liceo Scientifico.
[76]. T. n. 262, F., Roma, Ipsia.
[77]. T. n. 362, M., Roma, Itgs.
[78]. T. n. 174, M., Roma, Liceo Scientifico.
[79]. T. n. 27, M., Roma, 3° Liceo Classico.
[80]. T. n. 1, F., Roma, 5° Liceo Scientifico.
[81]. T. n. 173, F., Roma, 3° Liceo Scientifico.
[82]. T. n. 325, M., Roma, Itis.
[83]. T. n. 173, F., Roma, 3° Liceo Scientifico.
[84]. T. n. 461, M., Roma, 1° Liceo Scientifico.
[85]. T. n. 150, F., Roma, 5° Liceo Scientifico.
[86]. T. n. 247, M., Roma, Ipsia.
[87]. T. n. 341, M., Roma, Ist. Tecn. Geometri.
[88]. T. n. 121, F., Roma, 5° Liceo Scientifico.
[89]. T. n. 154, F., Roma, 5° Liceo Scientifico.
[90]. T. n. 184, F., Roma, Ist. Magistrale.
[91]. T. n. 257, M., Roma, Ipsia.
[92]. T. n. 291, F., Roma, 4° Liceo Linguistico. Questa utopia è chiaramente ispirata da George Orwell, La fattoria degli animali (1945), trad. it. Mondadori, Milano, 1995.