Lectio divina di Isaia 54,5-14

Gerusalemme riconciliata

Quarta lettura  della veglia pasquale

 

 

Poiché tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra.

6 Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, ti ha il Signore richiamata. Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Dice il tuo Dio. 7 Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore.

8 In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore.

9 Ora è per me come ai giorni di Noè, quando giurai che non avrei più riversato le acque di Noè sulla terra; così ora giuro di non più adirarmi con te e di non farti più minacce.

10 Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia.

11 Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sulla malachite le tue pietre e sugli zaffiri le tue fondamenta. 12 Farò di rubini la tua merlatura, le tue porte saranno di carbonchi, tutta la tua cinta sarà di pietre preziose.

13 Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli; 14 sarai fondata sulla giustizia. Sta’ lontana dall’oppressione, perché non dovrai temere, dallo spavento, perché non ti si accosterà.

 

 

Dopo la Creazione, primo atto di salvezza, dopo la prova di Abramo, che postula l’ascolto-obbedienza della fede, dopo le grandi opere di liberazione dall’Egitto, paese di schiavitù, prosegue l’itinerario ideale tra i grandi gesti della prima Alleanza, prefigurativi della nuova ed eterna.

Siamo alla fine del vibrante Libro della Consolazione del Deuteroisaia per contemplare un’altra liberazione, un secondo esodo da un altro paese di oppressione e dispersione: “Consolate, consolate il mo popolo… è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità” (Is 40,1-2).

Appena dopo il quarto e ultimo carme del Servo, che annunzia il valore redentivo della morte del giusto innocente (53), si leva il canto di riconciliazione tra un Dio già tante volte ferito e la sua comunità già severamente respinta.

Qui il profeta si fa pathos, tocca le corde più intime perché tentando di comunicare l’esperienza di Dio non esita a scendere nel profondo della relazionalità umana. Antropomorfismo? Ma, per alludere all’appartenenza reciproca che sostanzia la relazione Dio-popolo, cosa di più significativo dell’intimità degli sposi? [1]

Qui il profeta si è rivolto a Gerusalemme come a una donna afflitta dal ripudio e rattristata doppiamente dalla consapevolezza dei suoi fallimenti. Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza (Is 54,4).

Dio riprende l’iniziativa. I due dolori vengono annullati insieme. Il Signore per bocca del profeta riveste il suo abito di sposo, più che mai potente, ma anche redentore, garante della sorte dell’amata.  “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata” (Ger 31,3-4).

Irradiando immenso amore e affetto perenne, che a contatto della miseria umana si fanno pietà e misericordia, ripropone in dono nuziale la sua alleanza di pace. Il perdono gratuito che il Signore dona al popolo infedele è coerente alla promessa genesiaca successiva al Diluvio. Isaia attualizza le Scritture: non più punizione per il peccato di infedeltà, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza (Gen 8,21). Sì, costituiscono una coppia difficile Dio e il suo popolo. Il popolo è ribelle di natura, diffidente e incline a darsi altre sicurezze. Non sa accettare e non sa ricambiare. Ma lo Sposo è fedele per sé e per la sposa infedele. L’arcobaleno gli ricorda l’alleanza eterna, che lui solo garantisce. Ha giocato con lei a fare il risentito, ma non regge per molto il gioco. Allarga le braccia e accoglie, lui, l’accoglienza senza limiti, chi doveva aspettarsi solo il ripudio.

E’ il momento di grazia in cui la storia comunitaria/personale inverte la marcia. E’ vero, si è andati al fondo, ma si viene tirati su. Si riemerge dall’abisso della schiavitù, perché Qualcuno ci perdona, cancella il passato, dandoci ancora una volta fiducia. Ci proietta invece verso il futuro, che è ritorno alla comunione, alla presenza del volto di un Dio che si lascia ritrovare. Anzi ci “riprende”, verbo della danza amorosa che partners conflittuali vivono con alterni passi di distacco e di attrazione.

La fedeltà del Signore basta essa stessa a colmare ogni baratro umano, a compiere ogni incompiutezza. La Gerusalemme contrita e afflitta si rivedrà donare una veste luminosa. L’opacità e la pesantezza delle sue pietre si trasfigureranno nello splendore delle gemme.

Così la nuova comunità, irremediabilmente infedele, con le cicatrici vive delle sue ferite, ma finalmente riconciliata nella carne crocifissa e gloriosa del Cristo, sarà resa pronta a ricevere dalla sua Pasqua trasfigurazione e divinizzazione: “L’Amato mio è per me e io per lui” (Ct 2,16).



[1] Per l’uso della metafora sponsale nella dinamica di offesa e perdono cfr. Osea, 2; Ezechiele, 16; in archivio la lectio di Isaia 62,1-5.