Introduzione alla lectio divina VI dom. O/C 11.02.01

Geremia 17,5-8 per Lc 6,17.20-26

Così dice il Signore:/[5] "Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,/che pone nella carne il suo sostegno/e dal Signore allontana il suo cuore./[6] Egli sarà come un tamerisco nella steppa;/quando viene il bene non lo vede./Dimorerà in luoghi aridi nel deserto,/in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere./[7] Benedetto l’uomo che confida nel Signore/e il Signore è sua fiducia./[8] Egli è come un albero piantato lungo l’acqua,/verso la corrente stende le radici;/non teme quando viene il caldo,/le sue foglie rimangono verdi;/nell’anno della siccità non intristisce,/non smette di produrre i suoi frutti".

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Come in tutta la vetero-scrittura, anche qui i protagonisti sono due e in stretta relazione tra loro: Dio e, soggetto personale o collettivo, l’uomo.

Dapprima una radicale antitesi iniziale, Maledetto–Benedetto, che oppone "due vie", due modelli di atteggiamenti umani, ambedue modulati in rapporto al Signore: il primo di chi allontana da Lui il proprio cuore, in un movimento centrifugo; il secondo invece di chi a Lui offre una totale adesione fiduciale. Fondamento deuteronomico di questa primigenia teologia le parole messe in bocca a Mosè:"Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, … perché tu viva … Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti… certo perirete…: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita,… amando il Signore tuo Dio…e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita" (Dt 30,15-20). Tema delle due vie che sarà elaborato ancora dalla riflessione sapienzale: "La strada dei giusti è come la luce dell’alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio. La via degli empi è come l’oscurità: non sanno dove saranno spinti a cadere" (Pr 4,18-19) e: "Beato l’uomo che… non indugia nella via dei peccatori…, ma si compiace della legge del Signore" (Sl 1,1-2).

E tutto a partire dal luogo di appoggio delle proprie sicurezze: l’uomo-carne o Dio stesso. Ricordiamo che, nella cultura semitica, la carne, nella globalità della persona, è la dimensione della debolezza, della creaturalità, mentre il cuore è il centro decisionale, sede della intelligenza e della memoria, luogo dell’interiorità.

L’antitesi continua, con immagini dense di sovrasensi, anche nelle similitudini con il tamerisco, arbusto adattato ai terreni salini e con l’albero, ambedue fisicamente configurati dal rapporto di lontananza o vicinanza con l’Acqua-Vita. Detto degli infedeli, "…essi hanno abbandonato me,/sorgente di acqua viva,/per scavarsi cisterne,/cisterne screpolate/che non tengono l’acqua." Al primo, il tamerisco, si lega una sensazione di soffocamento e sterilità; al secondo, l’albero, è collegata, in un crescendo di pienezza, la fecondità. Oggi vi leggeremmo il nulla del fallimento del sé e la pienezza della realizzazione di sé. E non dati autonomi, irreperibili biblicamente, ma relazionati al Signore Dio e al progetto personale di vita-salvezza, che Egli ha per ciascuno degli uomini, solo che lo si accetti in dono.

Nel concreto storico il brano si situa nei tragici anni della fine della monarchia davidica, con Gerusalemme che ripetutamente passa da un’alleanza militare ad un’altra, nel tentativo di sopravvivere fra i tre colossi, Assiria, Egitto e Babilonia, suoi pericolosi vicini.

Già Isaia, circa un secolo prima, intorno al 703, aveva stigmatizzato come idolatria la ricerca di alleanze con gli Egiziani o gli Assiri: "Guai a quanti scendono in Egitto per cercare aiuto,/e pongono la speranza nei cavalli,/confidano nei carri perché numerosi/…senza guardare al Santo d’Israele/… L’Egiziano è un uomo, non un Dio, i suoi cavalli sono carne e non spirito" (31,1.3). Invece:"Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza" (30,15).

E ora Geremia concorda: Israele smetta di abbarbicarsi alla sua secolare realtà di Stato nazionale, cercando affannosamente appoggi stranieri, e si arrenda all’indecifrabile progetto del Signore. Ciò porterà pure la fine dell’indipendenza, la deportazione, la povertà, ma lo sguardo fiducioso dei profeti sa già intravedere intanto un popolo purificato: "…farò restare in mezzo a te/un popolo umile e povero;/confiderà nel nome del Signore" (Sof 3,12), poi, con visionaria lungimiranza, sa disegnare una inimmaginata ricchezza per il resto d’Israele, destinato al ruolo di luce delle Nazioni (2°Is 49,6).

Questa è l’incarnata parabola di ogni abbandono al Signore. "Io sono povero e infelice,/di me ha cura il Signore./Tu mio aiuto e mia liberazione" (Sal 40,18). Chi al suo Dio si abbandona, lascia sicurezze e progetti, scommettendo su una ricchezza e una beatitudine che non ancora può vedere, ma che, gustandone già le briciole, accredita a Dio.

L’accostamento, che il liturgista ha fatto di questo brano a quello lucano delle Beatitudini, tanto aperto ad una pluralità di legittime interpretazioni, privilegia allora una pista di lettura:

l’uomo che confida nella carne è l’autosufficiente, il ricco che, pensando di salvarsi da sé, si decentra da Dio e si perde; chi sceglie di confidare nel Signore compie un atto di spogliamento di sé, rinuncia ad un’autosalvezza, si fa umile e povero, si abbandona alla pienezza e dalla pienezza viene colmato.

Con chi il Cristo Gesù poteva dunque congratularsi della scelta, dopo averli appena chiamati a percorrere quella via già da lui percorsa, se non con chi poteva sempre dirgli:"Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito" (Lc 18,28)?