Introduzione
alla Lectio divina di Genesi 2,7-9.3,1-7
per Mt 4, 1-11 I settimana di Quaresima /A
7 Allora il
Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un
alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
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Poi il Signore Dio piantò un giardino in
Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. 9
Il Signore Dio fece germogliare dal suolo
ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui
l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza
del bene e del male.
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3.1 Il
serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio.
Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare
di nessun albero del giardino? ”. 2 Rispose la donna al serpente: “Dei
frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3 ma del
frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare
e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. 4 Ma il
serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! 5 Il Anzi,
Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste
come Dio, conoscendo il bene e il male”. 6 Allora la
donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e
desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò,
poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7 Allora si
aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono
foglie di fico e se ne fecero cinture.
Ci aggiriamo, in questi
primi capitoli del libro della Genesi, nel mondo mitico degli archetipi. Ma con
la concretezza dei piedi ben piantati su una Roccia: la fede nel Signore,
Adonai. Anzi è a partire da Lui che l’Autore sacro compie a un certo punto un
cammino a ritroso nella storia delle origini, per presentarci il momento in
cui, usciti dalle sue mani, spazio e tempo sono stati donati al primo uomo,
ha-adam. E con essi ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare.
Qui, alla fine del percorso a ritroso, il
linguaggio figurato allude a grandi temi astratti come il male, la tentazione,
la caduta, la colpa, materializzati in un‘immagine: il serpente, il nachash,
che da allora nell’immaginario collettivo con esse si identifica.
Il serpente nella regione del vicino Oriente era un simbolo
ctonio, ovvero una immagine associata alle divinità del sottosuolo, degli
inferi e veniva legata alla tematica della morte e della continuità della vita.
Questo in forza del suo potere di scomparire tra le viscere della terra e riemergerne,
avendo deposto la pelle vecchia, rivestito di una nuova, segno di rinascita.
Da ciò il suo legame con l’orizzonte immediato
di fecondità della terra e dell’uomo, ma anche, più in assoluto, con
un’idea di salvezza[1].
Ricordiamo allora il passo dei Numeri in cui Israele, punito nel deserto da serpenti velenosi, che causavano la morte,
invoca il Signore, che prescrive a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra
un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita” (Nm
21,8). E a questa immagine si riferisce Gesù, nel colloquio con Nicodemo sul
tema del rinascere (Gv 3,4.14), lui vero mediatore di salvezza.
Anche nel nostro brano l’azione del serpente è
legata al tema della morte, fondamentale e ripetuto ossessivamente più volte,
in opposizione al precedente tema della vita. Infatti è là che gioca la prima
partita della tentazione, fase della “suggestione”, innestandola sulla parola di Dio:
“E’ vero…?” e seminando il dubbio.
Segue la seconda fase, la “conversazione”…altrimenti
morirete. - Morire. Non
morirete affatto!” Ovvero, come qualcuno ha tradotto,
l’amore che ti avvolge è una mistificazione, è una sudditanza; non è da
credere. A questo punto, ultima fase, l’acconsentimento: la donna, vide
che era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare
saggezza, ( …è nel mondo il desiderio della carne, il desiderio degli occhi e
la superbia della vita”. 1Gv 2,16), crede alla contro-promessa, entra nella
dimensione dell’appropriazione,
prese del suo frutto e ne mangiò. A fronte di tanto che le era stato
donato, rapina ciò che costituisce il limite. Ma, smentendo il dono, dichiara
se stessa non amabile. L’autosalvezza, che è fare a meno di Dio, trascendere il
limite, segno della propria creaturalità, decidere da sé cosa sia bene e cosa
sia male, distrugge l’essenza della persona. Sottesa a tutto la paura nascosta
della morte[2].
Questo secondo gli itinerari “classici” della tentazione, definiti anche nel salmo 7,15 e nella lettera di Giacomo, 1,14-15.
D’altronde “la lotta contro la tentazione si delinea così come la costante tensione a far prevalere la logica e la dinamica della comunione sulla logica e la dinamica del consumo. E si configura come cammino di adesione alla realtà, mentre la tentazione porta a una fuga dalla realtà per rifugiarsi nell’immagine: …e questa sostituzione… possiamo chiamarla idolatria…. che Gesù vincerà nel deserto…”[3]
Infatti se alle origini dell’esistenza l’uomo
sperimenta la tentazione primigenia, affidare la sua vita ad altro-da-Dio,
all’inizio della sua missione, Cristo, il nuovo Adamo, supera la stessa
tentazione, radicandosi nel Signore, Padre suo, e nella sua volontà, conservata
nelle scritture: “…è nel mondo il desiderio della carne, il desiderio degli
occhi e la superbia della vita… e il mondo passa con il suo desiderio, ma chi
fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1Gv 2,16-17). Anzi, ottiene di più:
“18 Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini
la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su
tutti gli uomini la giustificazione che dá vita. 19 Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati
costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno
costituiti giusti “(Rom 5).