Introduzione
alla lectio divina su Giovanni 13,31-35
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maggio 2004 V domenica di Pasqua
[31] Quand'egli
fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato,
e anche Dio è stato glorificato in lui. [32] Se Dio
è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e
lo glorificherà subito. [33]
Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho
già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete
venire.
[34] Vi do
un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come
io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. [35] Da questo
tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli
uni per gli altri».
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Quelle
sottolineate sono parole chiave per la meditatio.
E’ appena terminata l’ultima cena e la lavanda dei
piedi. Gesù si è chinato da servitore a lavare e ad asciugare i piedi dei suoi
discepoli per invitarli a fare altrettanto «gli uni verso gli altri» mostrando
loro il gesto di amore e di servizio reciproco che dovranno seguire d’ora in
poi. Anche a Giuda saranno lavati e asciugati i piedi da Gesù, e proprio per lui
Gesù intingerà il «boccone» nel vino e glielo darà; quel boccone di pane
datogli in pasto è la vita stessa che Gesù consegna liberamente in offerta al discepolo
traditore. E Giuda prende quel boccone senza esitare, poi si alza da tavola ed
esce. Era notte.
All’uscita di Giuda comincia la passione di Cristo.
Il brano di
Giovanni della liturgia domenicale ci presenta proprio questo momento
culminante, collocato significativamente tra l’uscita di Giuda dal cenacolo
(13, 30) e l’annuncio del rinnegamento di Pietro (13, 36-38). Questi due eventi sono gli
estremi, le coordinate entro cui leggere i versi che l’evangelista organizza come una sintesi
meravigliosa della gloria di Cristo: morte e resurrezione(31-32); ascensione in
cielo e congedo dagli apostoli(33); il cosiddetto testamento spirituale
(34-35).
Anche se il contesto è ancora quello della cena,
tuttavia le parole di Gesù ci proiettano in avanti, in un clima post-pasquale:
Colui che parla sembra proprio il Risorto. Si potrebbe pensare ad un Gesù che
ha di fronte a sé la morte imminente ma è già al di là di essa.
“Ora”
è la prima parola pronunciata qui da Gesù; si tratta dell’annunzio pasquale che
segnala il compimento del tempo della salvezza, quel kairòs della storia che
coinciderà con la morte
e resurrezione di Cristo, momento della rivelazione massima della
potenza di Dio, della sua “gloria”.
Questo
tempo della salvezza è annunciato come già compiuto; i tempi usati sono al
passato, nel senso dell’aoristo greco (edoxasthe “è stato glorificato”)
che ben esprime l’idea, puntuale, del momento, dell’ora in cui la salvezza è
avvenuta. Un tempo che si è già compiuto nel momento in cui Gesù ha aderito nel
profondo alla volontà del Padre offrendo la sua vita in sacrificio.
Segue l’annuncio del
comandamento “nuovo”: l’amore reciproco («gli uni gli altri»), sul modello di
quello donato da Gesù, nella veste nuova di cui è stato rivestito, nel ruolo
fondante, nuovo, che viene ad assumere da Cristo in poi, è nel contempo
testimonianza di un’identità, dell’appartenenza a Gesù come suoi discepoli.
Tuttavia non si può comprendere a pieno il senso del brano
senza rifarsi al contesto, il cap. 13, che comincia proprio con la narrazione
di un atto d’amore, la lavanda dei piedi, il gesto del servizio reso agli
uomini dal Figlio di Dio mediante il suo abbassamento fino al dono della vita.
Un amore, quello di Gesù, che è arrivato all’estremo, come si dice al v.1
«…avendo amato i suoi discepoli, li amò fino alla fine», fino alla perfezione,
al compimento, alla morte. Un dono che, come nella lavanda dei piedi, chiede
innanzitutto di essere accolto. Così, infatti, risponde Gesù a Pietro che non
comprende quel gesto: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Riconoscere
l’amore, accoglierlo, è il primo atto di ogni condivisione.
La logica di questo amore
che i discepoli sono invitati a seguire è dunque quella ‘eucaristica’, perché
proposta proprio nell’ultima cena e proprio nella forma del servizio, ovvero
dell’«essere per gli altri». I cristiani sono perciò chiamati ad essere uomini
e donne ‘eucaristici’, ad offrire la propria vita ai fratelli (E.Bianchi, Cristiani
nella società, Milano 2003, pp.148 ss.). L’invito è dunque a fare dell’
Eucaristia una forma di esistenza e non un mero atto di culto.
Nell’umiltà del gesto compiuto da Gesù nella
lavanda dei piedi si nasconde, infatti, l’incredibile portata di un ‘fare’
(13,7 «Quello che io faccio..»; 14,13-14 «Qualunque cosa..la farò…io la farò»).
Nel gesto vi è la traduzione concreta dell’amore, la sua attuazione pratica,
immediata, che prelude a quella, più grande, della croce. Rifarsi al modello di
Cristo, come lui stesso ci esorta («che vi amiate..come io vi ho
amato»), non è allora rifarsi ad una teoria, ad una mera dottrina, un sistema
di concetti organizzati su amore e salvezza. Non è, poi, soltanto un amare
‘come’ Cristo nel senso di una mera ‘imitazione’, ma è piuttosto un amore che
si genera direttamente dal Suo amore: poiché siamo amati dal Padre e nel
Figlio, poiché facciamo esperienza di questo amore riusciamo a nostra volta ad
amare (Gv 3-4). Non potremo farlo altrimenti.
L’invito è
quello di richiamarsi ad un ‘fare’, quello di Chi ha aderito fino in fondo alla
volontà del Padre. Un ‘fare’ che, come opportuna imbeccata, Gesù aveva già
messo sulle nostre labbra con la preghiera del Padre nostro, «sia fatta la tua
volontà, come in cielo così in terra», perché la realizzazione
del progetto d’amore che Dio ha su di noi, possa prima incontrare il nostro
assenso, il nostro abbandono, nella perfetta rispondenza tra cielo (‘come’) e
terra (‘così’). Sulla stessa rispondenza e specularità è interamente costruito
il nuovo comandamento, in cui la correlazione ‘così-come’ fonda il rapporto
d’amore tra i discepoli a immagine e somiglianza di quello intercorrente tra
Padre e Figlio.
Allo stesso modo non può
esserci alcuna testimonianza senza amore: «Da questo tutti sapranno che siete
miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». D’altra parte il
‘Testimone fedele’ dell’Apocalisse è Colui che ha amato il mondo fino
all’estremo. La nostra testimonianza di uomini, di Chiesa, non può sottrarsi a
questa regola. Una testimonianza che può realizzarsi, ‘farsi’, non solo
all’esterno, come lucerna per gli uomini, ma anche all’interno, nell’intimità
di quell’amore che condividiamo con gli altri.
Non è ‘quanto’ amore siamo
pronti a donare, ma ‘quale’ amore. Non è quanti rapporti riusciamo ad
instaurare, ma quali. «La comunità dei discepoli di Cristo non è allora tanto
legata a un luogo fisso, ma essa stessa è chiamata ad essere luogo della
presenza di Dio tra gli uomini nella persona dei suoi membri. E ciò che
caratterizza la communitas è, come dice anche l’etimologia, il munus,
il «dono» assunto come proprio «compito» (munus è infatti il dono
che si fa, non che si riceve; è il dono di cui si è debitori verso l’altro). La
comunità dei discepoli è la comunità che si nutre del dono, della donazione, di
persone che si fanno dono per gli altri, che non hanno verso gli altri alcun
debito se non quello dell’amore reciproco» (E.Bianchi, La Chiesa comunità
dei discepoli in cammino, Bose 1999, p. 14).
Da questa comunione d’amore
Giuda era fuggito. Con la sua fuga Giovanni fa coincidere l’arrivo delle tenebre,
«Ed era notte»» (13,30). Ben a ragione S.Agostino commenterà l’espressione
definendo ‘tenebra’ Giuda stesso, dal momento che «Chi ama suo fratello, dimora
nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello è
nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va…»(1 Gv. 2,10-11).
Brani di riferimento:
A commento del brano può
leggersi interamente la prima lettera di Giovanni.
q
Sul
rapporto di uguaglianza a Gesù nell’amore (così-come): Gv 14,12; 15, 9-13; 17,
20-3.
q
Sull’ora
escatologica nel vangelo di Giovanni: 2,4; 7,30; 8,20;12,23; 12,27; 13,1;16,32,
17,1;19,27.
q
Sul
tema della gloria: Es 20,12; 33,18; Ger 2,11; Lc 2,9; Gv 1,14; 7,39; 12,23. Rm
3,23;8,18; 2 Cor 3,18.