Introduzione alla Lectio divina di Lc 20, 27-38

XXXII domenica del tempo ordinario – 7 novembre 2004

 

[27] Avvicinatisi alcuni sadducei, quelli che affermano non esserci risurrezione, lo interrogarono dicendo: [28] “Maestro, Mosè ha lasciato scritto per noi: "Se il fratello di uno muore, avendo moglie ma senza figli, il fratello ne prenda la moglie e susciti una discendenza a suo fratello".

[29] C'erano dunque sette fratelli. Il primo, presa moglie, morì senza figli. [30] Il secondo pure; [31] pure il terzo la prese; allo stesso modo tutti e sette non lasciarono figli e morirono. [32] Infine anche la donna morì. [33] La donna dunque nella risurrezione di chi di loro diventa moglie? Perché in sette l'hanno avuta in moglie”.

[34]  E disse loro Gesù: “I figli di questo tempo prendono moglie e sono date in moglie; [35] ma quelli che saranno ritenuti degni di aver parte al tempo altro e alla risurrezione dai morti, né prendono né sono date in moglie; [36] non possono, infatti, più morire: perché sono simili agli angeli e sono figli di Dio, essendo figli di risurrezione.

[37] Che poi i morti risuscitino, anche Mosè lo ha svelato nel (passo del) “roveto”, quando chiama  Signore il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe. [38] Ora non è Dio di morti, ma di viventi; per lui tutti, infatti, vivono”.

 

* Quelle sottolineate sono alcune parole chiave per la meditatio.

 

Il lungo viaggio lucano, scandito da tre incompresi annunzi di morte-risurrezione, si è da poco concluso a Gerusalemme. Qui niente più miracoli, ma solo insegnamento da parte del rabbi galileo. E nel Tempio, là dove i rabbini usano confrontare le loro interpretazioni della Scrittura, i Sinottici ambientano alcune controversie tra vari oppositori e Gesù. Già dodicenne, secondo Luca, Gesù si è  misurato con questo mondo, occupandosi delle cose del Padre suo (2,46-49). Ora, prima dei “tre giorni” nello smarrimento della morte, il cerchio si chiude con un “evangelo” sulla risurrezione.

 Un ritornello tipico riecheggia in questa sezione, legando molti episodi: “Sta scritto”.[1] Il contrasto scritturistico appare dunque l’occasione immediata della controversia sul tema tra i Sadducei e Gesù. Allora lo stato della questione, in sintesi, era questo: di resurrezione il Pentateuco non parlava; a una resurrezione di popolo facevano riferimento i Profeti più antichi; una resurrezione personale si era venuta a prospettare negli ultimi due secoli, da Daniele ai Maccabei, dalla Sapienza ai testi dell’Apocalittica giudea.[2] Questa progressione nella comprensione del dato era dovuta alla continua  interpretazione della Storia in Dio e di Dio nella Storia, che aveva ispirato ai Sapienti nuovi testi. E ancora si nutriva del paziente lavoro di interpretazione della Scrittura, compiuto con passione dai Discepoli dei Sapienti (come si definivano i cosiddetti Farisei) e dagli scribi.

Il brano si costruisce allora su una forte contrapposizione. Da un lato i razionalisti Sadducei con la loro provocazione paradossale, volta a ridicolizzare la tesi appoggiata tanto da Gesù di Nazaret che dai Farisei, loro personali avversari. Ma nel giochetto della casistica, fondato su una automatica riproposizione del già vissuto, la ripetizione martellante dei termini soffia aria gelida di morte, di infecondità. E in filigrana si disegna una relazione umana ferita: la moglie, oggetto del verbo prendere (lambano), anch’esso ripetutamente scandito, è vista ancora come la posseduta (in ebr.), al pari dell’asino e del bue, di antica memoria (Es 20,17). Pure il figlio (qui teknon, il generato) è chiamato solo a perpetuare un patrimonio genetico. I “sette” evocano una umanità ferita, in cui il dominio  e il bisogno hanno generato rapporti familiari squilibrati (Gen 3,16).

D’altronde i Sadducei, appartenenti all’aristocrazia sacerdotale, quindi legati alla florida economia del Tempio, conservatori in politica e collaborazionisti (della serie: vada per l’occupazione, purché niente cambi per noi), privi di seguito e di consenso, sono essi stessi dei morti che camminano: di lì a breve, con la distruzione del Tempio, scompariranno senza lasciare tracce. Ma il dato più significativo per noi è il loro leggere la Scrittura, limitata, pare, al Pentateuco, da fondamentalisti, con il rifiuto dell’interpretazione, della sua tradizione orale e della possibilità stessa di evoluzione della rivelazione di Dio (tant’è che poggiano la loro tesi sullo scritto di Mosè e sull’arcaica pratica del levirato, Dt 25,5-10). Una scrittura imbalsamata per una religione cerimoniale di morti che rifiutano il divenire della vita.

Dall’altra parte Gesù.  La sua risposta, data per scontata la resurrezione, ne sconvolge però totalmente le coordinate. La pienezza della vita “altra” è cielo nuovo e terra nuova…  la terra  di prima non c’è più (Ap 21,1) e non c’è più il male, la relazione tradita tra chi prende e chi viene consegnato (v 34), metafora di ogni altro stravolgimento della parità originaria, uscita bella dalle mani del creatore.

Ai vv. 35-36 non si abolisce la nuzialità, ma “questa” nuzialità imperfetta, con le cicatrici del limite e autoreferenziale. La resurrezione di Cristo, a partire dal suo corpo liberamente donato sulla Croce, guarirà e riscatterà la relazione tra gli uomini, finalmente figli di Dio (uoi, altro termine che tekna, perché “non da carne e sangue, ma da Dio sono nati”). E finalmente liberati dalla maledizione della morte, che li spinge a generare (l’uomo che non può resuscitare, ripiega sul suscitare una discendenza: v 28) nell’illusione di sopravvivere a se stessi, liberati dalla paura della morte, che li spinge l’uno nelle braccia dell’altro, in una sessualità consolatoria, condizionata dal dominio e dal bisogno, liberati dalla maledizione del possesso. Perché in lui si ricompone l’unità originaria (Gen 1,27) ed è dato agli uomini il dono della fraternità. Anch’egli vicino alla sua morte, Gesù dà però un annunzio nuovo: poiché non si potrà più morire, un’altra vita è possibile fin da adesso, nella gioia della relazione gratuita ritrovata.

In ultimo (v 37), Gesù chiude con un dato scritturistico fondante, che, scendendo sul terreno dei Sadducei, prende dalla Torah (Es 3,6): proprio Mosè ha come svelato (non dichiarato:  menuma vuol dire indizio, non prova) che i morti risorgono, laddove chiama il Signore Dio di Abramo… Poiché Dio si è impegnato con Abramo, con Isacco, con Giacobbe, lui, che rimane fedele per sempre, ne garantirà anche l’esistenza eterna.  Chi è stato amato una volta da Dio, lo sarà per sempre (Sl 136), nella totalità del suo essere persona, carne/spirito, e in quell’amore vivrà.

Questa non è spiegazione oggettiva del testo, ma provocazione alla fede e al cuore, lettura sapienziale, midrash, che aggiunge senso al testo e gli fa dire ciò che non vi è dichiarato.[3] E’ proprio quello che i Sadducei di ogni tempo hanno difficoltà ad accettare, ma che il Signore della vita, Parola incarnata, crocefissa e risorta, ci svela e rivela del Padre: anche lui ha bisogno quanto noi del tempo della  risurrezione per godere in pienezza della sua creatura, restaurata nel Figlio a sua immagine e somiglianza, bella come l’aveva pensata in principio.

 

Riferimenti:

·         Prima Alleanza:  Os 6,1-2; Is 25,8; 26,19; Ez 37,1-14; 3°Is 65,17; Sll 16,9-11; 73,23-28; Gb 19,25-27; Dn 12,2-3;  2 Mac 7,14; 12,43;  Sap 1,1-3;

·         Vangeli:  Mc 12,18-27; Mt 22,23-33; Gv11,24-26;

·         At 2,29-33; 26,6-8; 1Tes 4,14; 1Cor 15,14



[1] A cominciare dal gesto profetico della cacciata dei venditori dal Tempio (Lc  19, 46); alla fine della parabola dei vignaioli  (20, 17); nell’esordio del discorso dei Sadducei (v 28), nella chiusa della risposta di Gesù (v 37); nel riferimento al figlio di David (vv 42-43).

[2] Cf  Lectio della Prima Lettura, in digilander/libero.it/comunitakairos/Archivio prima alleanza/2Mac 7,1-2.9-14.

[3] A. C. Avril, P. Lenhardt,  La Lettura Ebraica della Scrittura, Qiqajon, pp 49-50.  Vi si riporta un midrash molto simile a questo, di Rabbì Simai. A lui si deve anche il detto: “Non vi è pericope (nella Torah) in cui non ci sia la resurrezione dei morti. Il fatto è che non abbiamo in noi la forza di manifestarlo attraverso il midrash ”.