Introduzione alla Lectio divina su Lc 17, 5-10

XXVII domenica tempo ordinario – 7 ottobre 2001

[5] Gli apostoli dissero al Signore: [6] "Aumenta la nostra fede!". Il Signore rispose: "Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.

[7] Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? [8] Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? [9] Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? [10] Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare".

* Quelle sottolineate sono alcune parole chiave per la meditatio.

 

In questi giorni di angosciosa trepidazione di fronte agli eventi mondiali che così drammaticamente stanno segnando i nostri giorni, la nostra fede è più che mai sollecitata ad interrogarsi sulla sua forza, proprio quando l’azione di Dio nella storia ci risulta invisibile, ancor prima che incomprensibile. Di fronte al senso di sfiducia che ci invade, la Parola che la liturgia domenicale propone oggi con il brano di Luca ci provoca ad una verifica del nostro "essere cristiani", a mettere in discussione la stessa identità di credenti in quelli che si rivelano essere i due punti chiave della nostra relazione con Dio: fede e umiltà.

Una relazione che nel brano viene giocata, provata, in una dimensione comunitaria, come già anticipava la vicenda del ricco e di Lazzaro della scorsa domenica. Qui, infatti, gli interlocutori di Gesù non sono più chiamati "discepoli" ma "apostoli".

Il nostro brano si colloca esattamente al centro del cap. 17, tra gli "avvisi" di Gesù ai discepoli riguardo lo scandalo e il perdono nella prima parte (1-4), e il discorso escatologico con cui il capitolo si chiude, ovvero l’annunzio della venuta del regno e del Figlio dell’uomo.

L’invito a perdonare il fratello tutte le volte che ci offende, in modo illimitato (70 volte 7), è difficile da accogliersi, quasi impossibile da realizzarsi. Proprio nell’avvertire l’assoluta incapacità di un simile gesto, gli apostoli si interrogano sulla causa di questa impotenza e la riconoscono nella mancanza di fede. Così chiedono a Gesù "Aumenta la nostra fede!". Il verbo greco –prosthes- non lascia dubbi sulla natura di questa richiesta ("aggiungi", "accresci"): "aggiungere" è la richiesta del fedele che ha una visione quantitativa della fede. Basterebbe, insomma, intervenire con un aumento per sanare una mancanza.

Ma Gesù non ha ricette per simili richieste: la fede non ha un’efficacia rapportabile alla quantità; non può essere aumentata o sottratta. La logica ‘quantitativa’ è purtroppo peculiare della miopia dell’uomo fin troppo avvezzo al gioco di aumento e sottrazione, di "più" e di "meno", come già ha diviso il mondo in ricchezza e povertà. A questa logica Gesù oppone quella "qualitativa", più difficile da comprendersi perché coinvolge l’autenticità della fede e chiama in causa le nostre vite. Non ci viene chiesto "quanto" crediamo, ma "come".

L’incomprensione degli apostoli viene demolita da un’iperbole. Se bastasse semplicemente avere ‘più’ fede, dice Gesù, ne basterebbe anche una quantità microscopica, quanto quella di un granellino di senapa, il più piccolo dei semi, per far sì che un sicomoro - albero ritenuto tra i più difficili a sradicarsi, restando piantato anche per 600 anni - possa al nostro volere venire di colpo sradicato e piantato in mare.

Altre volte a Gesù era arrivato un simile grido d’aiuto, proprio quando l’uomo si è trovato a sperimentare una simile impotenza, come quella di fronte alla morte. In Mc 9,24,un padre pregava Gesù di guarire il figlio indemoniato. Alla risposta di Gesù "Tutto è possibile a chi crede", l’uomo replica "Credo, ma vieni in soccorso alla mia incredulità". Così quando la fede di Pietro vacillò all’infuriare della tempesta mentre camminava sulle acque, il discepolo stava quasi per affondare quando Gesù afferratolo lo chiamò "uomo di poca fede" perché aveva dubitato (Mt. 14,31). La mancanza di Pietro, come quella degli apostoli cui Gesù si rivolge, non è nella quantità della fede ma nella labilità della loro fiducia.

Il valore di fede in ebraico è quello del verbo emûnah, appoggiarsi. Se un uomo si appoggia ad una roccia per scampare al precipizio, non importa per la sua salvezza "quanto" si aggrappa ad essa, ma "come" si aggrappa, con quale forza afferra la roccia aderendovi completamente. E’ la certezza del cuore con cui ci abbandoniamo al Padre che rende efficace e possibile ogni cosa, anche perdonare il fratello 70 volte 7, purché l’uomo si rivolga a Gesù " senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avverrà" (Mc. 11,23).

A questo punto segue la parabola del servo ‘inutile’ e nella sua condizione gli apostoli sono chiamati ad identificarsi. La similitudine riguarda una condizione sociale nota a tutti; la notorietà è importante perché l’intento di Gesù è quello di interpellare la capacità critica del singolo su quanto verrà a dire ("Chi di voi").

La scelta del servo non è casuale. Si tratta di un soggetto cui la società riconosce solo doveri, oltre al fatto che non ha una sua autonomia: è esclusiva proprietà del padrone. Questo servo che ritorna dal lavoro dei campi, non è invitato alla tavola del padrone ma è costantemente chiamato a ‘servire’, a compiere opere che sono esclusivamente esecuzioni di ordini impartiti, non offerte.

Di conseguenza non potrà aspettarsi alcuna ricompensa, alcun gesto di gratitudine dal padrone, perché ha solo fatto il suo dovere.

A questa condizione gli apostoli sono invitati ad assimilarsi: dopo avere fatto "tutto" (in greco panta) è loro ordinato, essi si riconoscano "servi inutili" perché avranno fatto solo "quanto" dovevano fare.

L’aggettivo ‘inutile’ rappresenta lo scandaloso rovescio di un valore antropologico molto forte, quello dell’utilità, da sempre meta dell’uomo e del suo lavoro, del suo progresso tecnico.

Nel momento in cui l’opera che l’uomo svolge all’interno della relazione con Dio - relazione di ‘servizio - viene definita da Gesù ‘inutile’ si provoca un importante ribaltamento di una concezione utilitaristica del tipo do ut des in cui siamo portati ad accampare diritti contro Dio per avere compiuto opere di servizio nei suoi confronti (come i nostri ministeri comunitari, o i diversi carismi, dall’accoglienza del povero all’evangelizzazione).

Non può esserci alcun vanto in tali opere non solo perché esse sono insufficienti alla salvezza (Rm. 3,27), ma perché si tratta di risposte ad una esplicita richiesta di Dio, sono il compimento della sua volontà. A questo volere il servo ha semplicemente conformato il proprio; non si è reso protagonista di un particolare ‘favore’.

Compiere ‘tutto’ e sentirsi comunque inutili significa altresì annullare ogni vantaggio sugli altri fratelli, su chi, ad esempio non ha pienamente soddisfatto la volontà del Padre, ma non per questo dovrà sentirsi ‘meno’ utile ai suoi occhi. Solamente in questa condizione di umiltà l’uomo ‘inutile’ potrà riconoscere tutto ciò che viene dalla grazia di Dio come un ‘dono’ gratuito del suo amore.

 

Brani di riferimento:

Sulla fede: Gen.15,6; Gb. 42,6;Eb. 10,38.

Fede e salvezza: Ab. 1,2-3;2,2-4; Mc. 9,24; 11,23; Mt. 14,31;Mt.21,21;Rm. 3,27; 4-3; 1,5; 1,27; Gal.3, 6-11.

Essere servo: Is.41,21; 43,10; Lc. 22, 26-7.

Meditazione su Lc 17,5-10