Introduzione alla lectio
divina su Giovanni 10, 27-30
6 maggio 2001
IV domenica di Pasqua
[27] Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e mi seguono. [28] Io do loro la vita eterna e non periranno in eterno e nessuno le rapirà dalla mia mano. [29] Il Padre mio, quanto a ciò che mi ha dato, è più grande
di tutti e nessuno può rapire dalla mano del Padre. [30] Io e il Padre
siamo una cosa sola (lett. neutro hen, uno)». |
Dopo la lunga narrazione della chiamata di Pietro,
collocata a mò di appendice nel vangelo di Giovanni, la liturgia domenicale ci
riporta cronologicamente indietro, presentando tre stringati, ma densi versetti
situati all’interno della sezione relativa alla festa della Dedicazione.
Per cogliere il senso del brano è, però,
necessario inserirlo nel contesto dal quale è tratto, un contesto che nel
capitolo 10 (ma il punto non è pacifico tra gli interpreti) ha avuto il suo
centro nella rivelazione cristologica, ecclesiologica e soteriologica di Gesù
come buon pastore e porta delle pecore.
Nel corso della festa autunnale delle Capanne,
infatti, Gesù, dopo aver guarito ed accolto il cieco nato scacciato dai giudei,
annuncia cha darà la vita in espiazione per le pecore, che in questo modo Egli
sarà il mediatore tra Dio e le pecore e che la sua opera salvifica sarà
universale, non essendo limitata alle pecore del recinto di Israele. In una parola
annuncia in modo “enigmatico”, la sua passione, morte e resurrezione.
Nel corso della successiva festa ebraica della
Dedicazione (14 dicembre circa), Gesù va avanti nel suo cammino
didattico-teologico.
Questa festa era stata recentemente (164 a.C.) istituita
da Giuda Maccabeo, dopo la profanazione del tempio di Gerusalemme realizzata da
Antioco IV Epifane, il quale aveva installato nel tempio una statua di Giove
olimpio, vietando agli ebrei la lettura della Torah, l’osservanza del sabato e
della circoncisione.
Il senso della festa era, quindi, la celebrazione
del ritorno alla centralità del tempio, luogo sacro che richiamava la presenza
di Dio in mezzo al popolo. Al momento della riconferma del tempio (e, quindi,
della memoria di tale riconferma), il re veniva riproclamato e cantato come
figlio di Dio (Sal 2) e pastore di Israele (Sal 23). Le attese messianiche
erano così rinfocolate.
In questo contesto, l’evangelista tiene a
sottolineare che “era d’inverno” (v.22). Sant’Agostino dirà poi che tale richiamo
è, in realtà, un riferimento al freddo che albergava nei cuori dei giudei.
Sicuramente non è un richiamo casuale (pensiamo al “di notte” dell’episodio di
Nicodemo oppure all’ ”ora” di Gesù), e segnala teologicamente che l’annuncio di
rivelazione operato da Gesù alla festa delle Capanne (poche settimane prima) ha
riscosso l’ostilità dei giudei, i quali hanno percepito il contenuto
dell’annuncio messianico e, ciononostante, non lo intendono riferire al
nazareno: il clima rispetto a quei momenti è di maggiore contrasto.
La contrapposizione è rivelata plasticamente
dall’accerchiamento dei Giudei (v. Gv, 8-3) attorno a Gesù che passeggiava (in
greco, peripatéin) all’interno del tempio presso una zona che (è un caso ?) si
chiamava proprio Porta delle pecore (v. disegno 15 Bibbia Tob; v. Gv 10,9).
I Giudei fremono. Vogliono parresia da Gesù (“Se
sei tu il Cristo dillo apertamente”, v.24). Ma la franchezza che richiedono non
è trasparente ansia di verità, bensì un malcelato tentativo di estorcere la
parola “messia” dalla sua bocca, di provocargli quella parola che può
giustificare la sua condanna ufficiale quale bestemmiatore.
Gesù risponde con una diversa franchezza che le
opere di testimonianza ci sono già state, ma i giudei non vi hanno creduto
perché essi non sono sue pecore. Non è, infatti, sufficiente che si “conoscano”
le opere del Signore (i giudei erano sempre presenti ai segni di Gesù e
conoscevano la sua dottrina), ma è piuttosto necessario che si “ri-conoscano”
con gli occhi della fede, come opere di salvezza.
A questo punto si inserisce il brano domenicale,
che indica, in polemica opposizione all’incredulità di Israele, chi sono le
pecore del Buon Pastore.
Le pecore sono coloro che vivono una intimità
spirituale con Dio, fondata sull’ascolto e sulla sequela del Cristo. Non è mai
troppo scontato ripetere che è l’ascolto della parola che ci fa discepoli, che
ci permette di avere il coraggio e la coscienza di essere pecore. Questa è la
promessa della resurrezione: una vita eterna in cui l’unione con il Padre, che
è più forte di tutto, prevarrà su ogni pericolo umano di dispersione e di
violenza. E’ una risposta analoga a quelle che darà la successiva letteratura
apocalittica cristiana.
La via di Gesù, per quanto possa apparire
tormentata ed irta di difficoltà (come poteva sembrare ai primi cristiani
perseguitati dai giudei) è la stessa via che porta al Dio che salva.
Nessuno può rapire dalla mano del Padre (notiamo
che manca il complemento oggetto, non si esclude niente e nessuno dalla
protezione, nemmeno lo stesso Gesù).
La sicurezza dell’uomo e della Chiesa, non è,
quindi, fondata soltanto sulla figura salvifica del Figlio. “Al fondamento
della sua sicurezza non si trova Pietro e neppure il Cristo soltanto, ma il
Padre indissociabile dal Figlio suo” (Leon-Dufour).
Con questa consapevolezza, bestemmia per i giudei,
Gesù stesso si accinge ad affrontare coloro che iniziano a raccogliere pietre
per lapidarlo. Nella stessa consapevolezza, salverà Lazzaro dalla morte.
Riferimenti
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