Introduzione alla lectio
divina su Mt 5, 1-12
IV domenica Tempo Ordinario – 30 gennaio 2005
1 Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e,
messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. 2 Dopo aver aperto la sua bocca, li ammaestrava dicendo: 3 «Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli. 4 Beati gli afflitti, perché saranno
consolati. 5 Beati i miti, perché erediteranno
la terra. 6 Beati quelli che hanno fame e sete
della giustizia, perché saranno saziati. 7 Beati i misericordiosi, perché troveranno
misericordia. 8 Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio. 9 Beati gli operatori di pace, perché
saranno chiamati figli di Dio. 10 Beati i perseguitati per causa della
giustizia,perché di essi è il regno dei cieli. 11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni
sorta di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate,
perché grande è la vostra ricompensa nei
cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti
prima di voi. |
Quelle sottolineate sono le parole
chiave per la meditatio
Il cammino di
Gesù per le vie del mondo è già cominciato, gli uomini hanno detto “sì” alla
sua chiamata e lo seguono nel gruppo dei primi discepoli che si è appena
costituito. Anche le folle cominciano a stringersi
intorno a lui.
A
questo punto del vangelo di Matteo, Gesù si ferma, «sale su un monte», come
prima di lui fece Mosè sul
Sinai, «si siede», come fa un rabbino quando spiega le Scritture al popolo, e
«apre la bocca». Alla solennità di questi gesti non segue il racconto di una
parabola, né un rimbrotto per i suoi discepoli, ma la proclamazione a tutti di
una “buona notizia”, addirittura la più bella che possa esserci per l’uomo: la
felicità.
L’argomento
supera i confini di spazio e tempo perché investe l’esistenza umana alla
radice, in quello che è il suo centro gravitazionale, l’unico vero fine cui
tende. Di conseguenza il contesto in cui sono
collocate le parole di Gesù è assolutamente simbolico. La montagna su cui sale
a parlare non è un vero luogo geografico ma il punto in cui tradizionalmente
avviene ogni manifestazione divina, e in cui Dio chiama l’uomo ad incontrarlo,
come fece già con Mosè quando gli consegnò le tavole
della legge.
Non
sarà però il peso di nuovi comandamenti a venire
lanciato da Gesù: nessuna legge ma solo un ev-angelo, una «buona
notizia».
Comincia
così, come in un elenco, l’enunciazione delle cosiddette “beatitudini” o “stati
di felicità”. Tale condizione dell’uomo, chiamato appunto beato,
nell’Antico Testamento si realizza di solito in due momenti: quando l’opera
dell’uomo è conforme alla volontà di Dio (Sal.1); quando la felicità è un dono
esclusivo della bontà divina (come nel caso del perdono, Sal
32,1). La felicità viene dunque sempre da Dio ma in modo diverso: nel
primo caso c’è una cooperazione uomo-Dio alla realizzazione
della felicità; nel secondo caso c’è la gratuità di un dono. Le due condizioni
coesistono nel discorso di Gesù e permettono già di delineare
l’ambito in cui possono realizzarsi: la “relazione”, quella di un io (uomo) con
un Tu (Dio), e dunque di un io con gli altri; al di fuori di questo rapporto
non può esserci felicità.
In
questa prospettiva Gesù aggiunge una nuova forza che dinamizza
la visione dell’uomo, proteso verso il raggiungimento della beatitudine: la promessa,
parte ineliminabile della fede cristiana. Se la prima
e l’ultima beatitudine hanno il verbo al presente, ad indicare la realizzazione
attuale del regno di Dio, le restanti beatitudini con il verbo al futuro
proiettano l’uomo in una dimensione escatologica da vivere fin da subito nella speranza.
Come chi deve
ricordare ai corridori la meta del viaggio per esortarli nella fatica del
cammino, Gesù rivela agli occhi dei suoi discepoli i doni promessi da Dio e di cui
Lui stesso è garante. Sono i doni più grandi per un cristiano: essere “eredi” a
pieno titolo del regno dei cieli; essere consolati nel lutto di una mancanza,
quella di Gesù che ritornerà alla fine dei tempi, potendo così sopportare il
male che sconforta con la speranza di chi verrà ad «asciugare ogni lacrima» dai
nostri occhi (Ap 21,4). Essere finalmente “sazi” nel
bisogno di giustizia, cioè di una conformità di opere
umane secondo il volere di Dio; essere perdonati in tutte le nostre mancanze
verso Dio e venire accolti nella nostra piccolezza; poter «vedere Dio», vivendo
per sempre in comunione con Lui.
Tutte
le promesse orientano verso una pienezza di vita che, se pur sarà completa
soltanto alla fine di questi ultimi tempi, può essere già pregustata fin da
oggi perché la buona novella è rivolta al presente, a quelli che adesso “sono”.
Chi sono i beati è presto detto: in ebraico sono gli anawim gli «umili» di cuore, termine che
contiene in sé anche i “poveri” e i “miti”. Si tratta infatti
di poveri non tanto per condizione sociale, perché non basta avere poco denaro
o venire calpestati per essere beati, ma sono poveri per disposizione d’animo:
sono i “bisognosi” di Dio. Sono «poveri in spirito»,
mendicanti (in greco ptochoi) che si
curvano fino a terra in umiltà e chiedono a Dio i mezzi per sopravvivere perché
sanno di non poter contare su se stessi; sono gli «afflitti», non i
melanconici, ma quelli che vivono in attesa dello sposo. Sono i «misericordiosi»
che si aprono agli altri per accoglierli; quelli che hanno un «cuore puro», non
diviso dalle mille infrastrutture che si pongono tra noi e Dio, non doppio
nella sua relazione e con Dio e con gli altri (Gc 4,8).
Sono coloro che «fanno la pace» ristabilendo ogni volta l’alleanza tra gli
uomini, ma non la impongono con una crociata d’armi. Infine sono quelli che
subiscono il disprezzo del mondo per avere scelto Cristo nella propria vita e
aver pagato un “si” a prezzo anche del proprio sangue.
Ciò
che insomma è debolezza agli occhi degli uomini, è condizione di
felicità agli occhi di Dio, perché è qui che si manifesta pienamente la Sua
potenza (2Cor 12,9).
Le
beatitudini non sono una scala di condizioni umane da
percorrere una dopo l’altra per diventare alla fine cristiani perfetti (come si
è a lungo creduto), né una nuova legislazione da osservare, ma piuttosto la
proclamazione di una vera felicità che, pur incarnata appieno solo da Cristo
(Lui il mite, il puro, il riconciliatore) diventa nel
contempo programma di vita per il cristiano.
Brani
di riferimento: