Lectio divina di Mc 2,18-22 – Domenica 27.02.2000

8^ domenica tempo ordinario

[18] Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: "Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?". [19] Gesù disse loro: "Possono forse digiunare i figli della camera nuziale quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. [20] Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. [21] Nessuno cuce una pezza di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo (in greco pléroma) si stacca da esso, il nuovo dal vecchio, e avviene una separazione (in greco schìsma) peggiore. [22] E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino frantumerà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi".

*Le parole sottolineate sono parole-chiave per la meditatio

Ancora una volta c'è bisogno di ricorrere ad alcuni significati forti di questo inizio del Vangelo di Marco per sentire anche la forza di questo brano. Il più forte di questi significati è in Mc 1,15: "Il tempo è compiuto (=riempito) e si è avvicinato il regno di Dio". Il verbo greco che indica questo "riempimento" del tempo è peplérotai, da pleròo, appunto "riempire". E' lo stesso verbo che genera il sostantivo pléroma, con cui, nel nostro brano, viene indicato il "rattoppo" necessario a ripristinare l'integrità del vestito lacerato. La pista spirituale è abbastanza chiara, ma risulta ancora più chiara se si fa caso al brano immediatamente precedente, che la liturgia domenicale, nella sua lectio continua di Marco, salta (Mc 2,13-17).

In quel brano vi era, per così dire, un'esperienza di "riempimento", di "saziamento" affidata alla metafora della tavolata in casa di Levi. Quel che conta, però, non è tanto il mangiare in sé quanto la compagnia di quella tavolata. Sono peccatori e pubblicani a beneficiare della compagnia di colui che in quel tempo si presentava come la pienezza che libera dai demòni, dalle febbri, dalle lebbre, dalle paralisi (Mc 1,21-2,12).

E' la pienezza che contrasta con il vuoto cui vorrebbe richiamarsi la pratica del digiuno. Vuoto e distanza da ogni cosa che non sia Dio. E' il senso del digiuno di Gesù (cf. Mt 4, 1-11), ma non è il senso del digiuno dei discepoli di Giovanni e dei farisei. Quei digiuni hanno poco a che fare con la pienezza, perché non si aprono alla novità. Un digiuno escatologico-messianico, quello dei discepoli di Giovanni, che non ha più senso di fronte alla presenza dello Sposo, ed un digiuno legalistico, quello dei farisei, che non ha alcun senso in quanto svuotato dell'adesione interiore a Dio tanto invocata dai Profeti (cf. Gl 2, 12-17). Sono digiuni che hanno la caratteristica comune di tenere l'uomo scisso in se stesso, proprio come quel vestito lacerato che necessita di un rattoppo, proprio come quegli otri ormai a rischio di frantumazione e tenuti insieme soltanto da vecchie attese o vecchie pratiche religiose.

Sono digiuni essenzialmente tristi. Sono digiuni di cui Gesù ravvisa, appunto, soltanto l'aspetto fenomenico, strumentale: quello del "vuoto". La rivelazione forte del brano, allora, è appunto in questo "già" che rappresenta la relazione sponsale che lega Dio al suo popolo, secondo la ben nota immagine di Os 2, 16-25. E' questa relazione che determina l'inutilità di quei digiuni. I figli della camera nuziale (2,19) sono coloro che hanno raccolto il richiamo dello Sposo e non è inessenziale riprendere la tavolata della casa di Levi, perché proprio i pubblicani e i peccatori, quelli che Gesù poi ricomprenderà nel termine "malati" e "peccatori" (2,17), costituiscono, per così dire, l'area antropologica di riferimento del Signore che viene.

Il nesso digiuno/conversione allora appare abbastanza evidente, ma badando a non scambiare quest'ultima come movimento ascetico (ascendente) dell'uomo verso Dio. L'iniziativa dello Sposo non va persa di vista. Qui il Signore è il pléroma, il rattoppo che ha già ricondotto l'uomo dalla lacerazione (schìsma, v.21) all'unità interiore. E' bene ripeterlo: ha già ricondotto. Ha già, in altri termini, prodotto le condizioni perché l'uomo abbia percezione della pienezza che ha saturato la storia. Ma è vero che c'è un "non ancora" che si situa dentro il tempo. C'è ancora un non ancora in cui si ha bisogno di far memoria dell'Assente, di colui che è stato tolto (2,20; cf. Is 53,8). Questo bisogno memoriale, nutrito di Parola ed Eucaristia, è il nostro digiuno. Ma è tutt'altra cosa perché si tratta di un digiunare non esterno, ma interno alla pienezza. E' un digiunare fremente di attesa e di speranza. E' un digiunare che non deve propiziarsi alcunché perché ciò che doveva avvenire è avvenuto e chiede soltanto di essere celebrato nella quotidianità delle nostre esistenze.

Brani di riferimento (oltre a quelli già citati) :

 

 

Commento su Mc 2,18-22