Lectio divina di Gv. 3,16 – 18

Domenica 26 maggio 2002 – SS. Trinità

 

[16] Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque creda il lui non muoia, ma abbia la vita eterna. [17] Dio non ha mandato il Figlio nel mondo perché giudichi il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. [18] chi crede in lui non è condannato (giudicato); ma chi non crede è già stato condannato (giudicato) perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

 

Il testo di questo brano di Giovanni è talmente denso che rintracciare espressioni o termini più “importanti” di altre riesce praticamente impossibile. In pochi, concentratissimi versetti, l’evangelista ci conduce infatti nel cuore della rivelazione, dell’annuncio (kerygma) di salvezza, proclamato, testimoniato e realizzato da Cristo. Parole, queste di Giovanni, che ogni cristiano conosce bene per averle sentite decine, centinaia, forse migliaia di volte, per essere queste uno dei fondamenti più alti della fede.

Eppure forse l’assuefazione o talora la malcelata pretesa di conoscere rischia di ottundere la novità di queste parole: una novità che germoglia costantemente e che invita ciascuno non solo alla contemplazione, ma ad una presa di posizione netta e radicale.

Di fronte all’annuncio dell’amore di Dio c’è il pericolo di essere come Nicodemo. Questo capo dei Giudei ha visto i segni compiuti da Gesù e in essi ha riconosciuto la presenza di Dio, una manifestazione della sua gloria. La vista di quei segni lo ha affascinato, senza tuttavia che la fede abbia trovato in lui un radicamento profondo. Anzi forse proprio l’avere scorto la mano di Dio nei gesti dell’uomo che ora ha di fronte gli dà l’impressione di avere già capito tutto di lui, di averne afferrato l’essenza, di essere in un certo senso “arrivato” nella fede. Così recandosi da Gesù Nicodemo si aspetta forse un colloquio teologico, un dialogo fra maestri, diremmo oggi “tra professori”.

Ma la logica di Gesù è radicalmente differente e imbarazzante. Al maestro della Legge, Gesù parla della necessità, per entrare nel Regno di Dio, di “rinascere dall’alto (o di nuovo)”, di lasciare rinnovare la propria vita dall’acqua del Battesimo e dalla forza misteriosa dello Spirito. La condizione per entrare nel Regno di Dio non è semplicemente quella di “conoscere”, o di accettare un pacchetto di certezze preconfezionate, ma quella di lasciarsi coinvolgere radicalmente e integralmente nel cerchio dell’amore di Dio, passando attraverso lo “scandalo” della elevazione del Cristo sulla croce: non sconfitta, ma gloria in quanto manifestazione suprema ed estrema dell’amore di Dio per gli uomini.

A Nicodemo Gesù ha dunque voluto rivelare il senso stesso dell’incarnazione del Figlio di Dio. Il suo dimorare e dialogare con gli uomini, la passione e resurrezione non hanno altra giustificazione che l’agape infinita e gratuita che Dio nutre nei confronti del mondo (kosmos). L’agape regola il rapporto tra Dio e gli uomini e trova la sua testimonianza efficace nel dono del Figlio. Forse nessun altro commento è più efficace che le parole dello stesso Giovanni: “Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: egli ha mandato il suo unigenito Figlio del mondo, perché noi avessimo la vita per lui”. (Igv. 4,8-9). Laddove il mondo contemporaneo vive un’inflazione di prospettive salvifiche e consolatorie di vario tipo, il cristianesimo può forse attingere la sua credibilità dal porre al centro un amore che non rimane solo detto, ma si fa carne e vita a fianco dell’uomo (cfr. Gv. 1,14 “e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi).

Ma le parole di Gesù svelano, oltre al fondamento, lo scopo della sua venuta: il piano di Dio non è altro che il piano della salvezza, della donazione all’uomo della vita eterna. Giovanni è un certo senso l’evangelista della “vita eterna”. Questa espressione compare in lui ben 96 volte, e non designa semplicemente un prolungamento della vita biologica  o come nell’A.T. la permanenza del giusto con Dio (cfr. Sap. 3,9 / 5.5), bensì conoscenza dell’”unico vero Dio” e di colui che egli ha mandato (cfr. Gv. 17,5) e, in definitiva, “vita nel suo Figlio” (Igv. 5,11) ossia relazione e comunione intima col Padre e col Figlio.

 

Dunque l’incarnazione di Gesù non è per il giudizio del mondo, ma per la salvezza.

Eppure nella visione di Giovanni la venuta di Gesù determina un giudizio (krisis ossia separazione, vaglio), che non è semplicemente demandato alla fine dei tempi, ma assume una dimensione storica ed esistenziale. L’evento stesso dell’incarnazione sembra porre per Giovanni una alternativa fondamentale tra le tenebre e la luce; nella croce infatti avviene “il giudizio di questo mondo (cfr. 12,31)”, nel quale “il principe di questo mondo” è sconfitto. Ma questo giudizio è sempre e comunque rispettoso della volontà dell’uomo, libero di preferire le tenebre alla luce e dunque di infliggere a se stesso una condanna che in ogni caso non è mai definitiva, ma aperta alla possibilità della conversione: “mentre  avete la luce camminate nella luce per diventare figli della luce” (Gv. 12,36)

Più ampiamente però il giudizio nasce dalla fede, ossia dal riconoscere o meno l’evento di salvezza costituito da Cristo stesso e dunque dalla conseguente scelta di vita. Tra fede, ossia ascolto della Parola, e salvezza, ossia passaggio dalla morte alla vita (cfr. 5,24) si instaura per Giovanni un nesso quasi indissolubile. L’evento Gesù Cristo crea le condizioni per la pienezza dell’uomo, per vivere con Dio una relazione adulta; all’uomo non è concesso un atteggiamento di freddezza o di indifferenza, ma è richiesta una scelta piena e consapevole.

Meditazione su Gv 3, 16-18