Lectio divina di Gv. 3,16 – 18
Domenica 26 maggio 2002 –
SS. Trinità
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Il testo di questo brano di Giovanni è talmente
denso che rintracciare espressioni o termini più “importanti” di altre riesce
praticamente impossibile. In pochi, concentratissimi versetti, l’evangelista ci
conduce infatti nel cuore della rivelazione, dell’annuncio (kerygma) di
salvezza, proclamato, testimoniato e realizzato da Cristo. Parole, queste di
Giovanni, che ogni cristiano conosce bene per averle sentite decine, centinaia,
forse migliaia di volte, per essere queste uno dei fondamenti più alti della fede.
Eppure forse l’assuefazione o talora la malcelata
pretesa di conoscere rischia di ottundere la novità di queste parole:
una novità che germoglia costantemente e che invita ciascuno non solo alla
contemplazione, ma ad una presa di posizione netta e radicale.
Di fronte all’annuncio dell’amore di Dio c’è il
pericolo di essere come Nicodemo. Questo capo dei Giudei ha visto i segni
compiuti da Gesù e in essi ha riconosciuto la presenza di Dio, una
manifestazione della sua gloria. La vista di quei segni lo ha affascinato,
senza tuttavia che la fede abbia trovato in lui un radicamento profondo. Anzi
forse proprio l’avere scorto la mano di Dio nei gesti dell’uomo che ora ha di
fronte gli dà l’impressione di avere già capito tutto di lui, di averne
afferrato l’essenza, di essere in un certo senso “arrivato” nella fede. Così
recandosi da Gesù Nicodemo si aspetta forse un colloquio teologico, un dialogo
fra maestri, diremmo oggi “tra professori”.
Ma la logica di Gesù è radicalmente differente e
imbarazzante. Al maestro della Legge, Gesù parla della necessità, per entrare
nel Regno di Dio, di “rinascere dall’alto (o di nuovo)”, di lasciare rinnovare
la propria vita dall’acqua del Battesimo e dalla forza misteriosa dello
Spirito. La condizione per entrare nel Regno di Dio non è semplicemente quella
di “conoscere”, o di accettare un pacchetto di certezze preconfezionate, ma
quella di lasciarsi coinvolgere radicalmente e integralmente nel cerchio
dell’amore di Dio, passando attraverso lo “scandalo” della elevazione del Cristo
sulla croce: non sconfitta, ma gloria in quanto manifestazione suprema ed
estrema dell’amore di Dio per gli uomini.
A Nicodemo Gesù ha dunque voluto rivelare il senso
stesso dell’incarnazione del Figlio di Dio. Il suo dimorare e dialogare con gli
uomini, la passione e resurrezione non hanno altra giustificazione che l’agape
infinita e gratuita che Dio nutre nei confronti del mondo (kosmos). L’agape
regola il rapporto tra Dio e gli uomini e trova la sua testimonianza efficace
nel dono del Figlio. Forse nessun altro commento è più efficace che le parole
dello stesso Giovanni: “Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio
per noi: egli ha mandato il suo unigenito Figlio del mondo, perché noi avessimo
la vita per lui”. (Igv. 4,8-9). Laddove il mondo contemporaneo vive
un’inflazione di prospettive salvifiche e consolatorie di vario tipo, il
cristianesimo può forse attingere la sua credibilità dal porre al centro un
amore che non rimane solo detto, ma si fa carne e vita a fianco dell’uomo (cfr.
Gv. 1,14 “e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi).
Ma le parole di Gesù svelano, oltre al fondamento,
lo scopo della sua venuta: il piano di Dio non è altro che il piano della
salvezza, della donazione all’uomo della vita eterna. Giovanni è un certo senso
l’evangelista della “vita eterna”. Questa espressione compare in lui ben 96
volte, e non designa semplicemente un prolungamento della vita biologica o come nell’A.T. la permanenza del giusto
con Dio (cfr. Sap. 3,9 / 5.5), bensì conoscenza dell’”unico vero Dio” e di
colui che egli ha mandato (cfr. Gv. 17,5) e, in definitiva, “vita nel suo
Figlio” (Igv. 5,11) ossia relazione e comunione intima col Padre e col Figlio.
Dunque l’incarnazione di Gesù non è per il giudizio del mondo, ma per la salvezza.
Eppure nella visione di Giovanni la venuta di Gesù
determina un giudizio (krisis ossia separazione, vaglio), che non è
semplicemente demandato alla fine dei tempi, ma assume una dimensione storica
ed esistenziale. L’evento stesso dell’incarnazione sembra porre per Giovanni
una alternativa fondamentale tra le tenebre e la luce; nella croce infatti
avviene “il giudizio di questo mondo (cfr. 12,31)”, nel quale “il principe di
questo mondo” è sconfitto. Ma questo giudizio è sempre e comunque rispettoso
della volontà dell’uomo, libero di preferire le tenebre alla luce e dunque di
infliggere a se stesso una condanna che in ogni caso non è mai definitiva, ma
aperta alla possibilità della conversione: “mentre avete la luce camminate nella luce per diventare figli della
luce” (Gv. 12,36)
Più ampiamente però il giudizio nasce dalla fede,
ossia dal riconoscere o meno l’evento di salvezza costituito da Cristo stesso
e dunque dalla conseguente scelta di vita. Tra fede, ossia ascolto della Parola,
e salvezza, ossia passaggio dalla morte alla vita (cfr. 5,24) si instaura
per Giovanni un nesso quasi indissolubile. L’evento Gesù Cristo crea le condizioni
per la pienezza dell’uomo, per vivere con Dio una relazione adulta; all’uomo
non è concesso un atteggiamento di freddezza o di indifferenza, ma è richiesta
una scelta piena e consapevole.
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