Lectio divina di Gv 18, 33-37 — domenica 26.11.2000
34^ domenica del tempo ordinario
Festa di Cristo Re
[33] Pilato entrò dunque di nuovo nel pretorio, chiamò Gesù e gli disse: "Tu sei il re dei Giudei?". [34] Gesù rispose: "Tu dici questo da te stesso, oppure altri te l’ hanno detto di me?". [35] Rispose Pilato: "Sono io forse Giudeo? La tua nazione e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che hai fatto?". [36] Rispose Gesù: "Il mio regno non è da questo mondo; se il mio regno fosse da questo mondo, le mie guardie avrebbero lottato per me, affinché non fossi consegnato ai Giudei. Ma adesso il mio regno non è di qui". [37] Gli disse dunque Pilato: "Quindi tu sei re?". Rispose Gesù: "Tu dici che sono re. Per questo io sono nato e sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità; chiunque è dalla verità ascolta la mia voce". |
*Le parole sottolineate sono parole-chiave per la meditatio
Pilato e Gesù sono soli, uno di fronte all’altro. La narrazione del processo civile in Giovanni (che omette quello religioso davanti al sinedrio) è molto più dettagliata di quella dei sinottici, quasi un racconto ‘in presa diretta’ con un ricco scambio di battute che si fa discorso teologico nelle mani dell’evangelista. Il passo costituisce il secondo dei sette ‘quadri’ in cui si suole scandire l’episodio di Gesù davanti a Pilato, seguendo gli spostamenti del giudice romano, dentro e fuori il pretorio. Schematizzare queste scene può aiutarci a gettare luce sul fitto gioco di richiami e corrispondenze dentro il quale è inserito il nostro brano, che proprio per questo si carica di significati e valenze teologiche forti e difficilmente percepibili se lo si ‘ascolta’ stralciandolo, come un testo isolato.
A differenza dei sinottici, Giovanni pone la regalità di Cristo come tema centrale e fondante di tutta la passione: gli altri evangelisti ci presentano Gesù chiuso nel suo silenzio inafferrabile e lontano, trincerato dietro l’indecifrabile e ricorrente risposta: "Tu lo dici", quasi un’icona del Servo sofferente di Isaia 53; il Cristo di Giovanni, invece, dialoga con Pilato e offre la sua ultima testimonianza ‘verbale’, sintesi altissima di quella offerta negli anni della missione. Da zelante giudice romano, Pilato sa condurre il suo interrogatorio e sa che il diritto romano prescrive di ripetere tre volte il capo d’accusa all’imputato che non si mostri all’altezza di difendersi: Tu sei il re dei Giudei? (33); Che hai fatto? (35); Dunque tu sei re? (37). Gesù risponde in modo chiaro e concreto: deve mediare per un pagano che non lo conosce il senso della sua esistenza e la sua origine divina. Non è certo facile, nella condizione in cui si trova, parlare della propria Regalità a un interlocutore avvezzo ad associare la figura regale a ben note logiche di potere e di violenza. Per farsi ‘ascoltare’, Gesù si sintonizza subito con la mentalità del giudice romano e sgombra il campo dal primo equivoco; stia tranquillo, Pilato: la regalità del Cristo non è in concorrenza con quella di Cesare (semmai è Barabba, il cui nome per tragica ironia significa "il Figlio del Padre", a essere coinvolto in una ribellione politica, in greco stasis). Un re senza guardie fa solo sorridere e comunque, quando Pietro aveva lottato per Lui, tagliando l’orecchio al servo del sommo sacerdote, Gesù aveva respinto con forza quel gesto (al v. 36 il termine è lo stesso che in 18, 3 e in 19, 6 designa i soldati che catturano Gesù e poi inveiscono contro di Lui). Dopo aver chiarito cosa la sua regalità non è, Gesù spiega finalmente di che cosa si tratti davvero e la mette in relazione a tre idee fondamentali: la provenienza, la testimonianza, la verità. La regalità del Messia non deriva da questo mondo, ma si esercita su questo mondo, nella sua missione di Testimone della Verità di Dio: Gesù è l’unico, vero, Testimone dell’amore del Padre, perché è l’unico che lo conosce realmente. In Gv 8, 14, infatti, Egli dice: "Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado" e in 8, 26: "Colui che mi ha mandato è veritiero e io dico le cose che ho udito da lui". Questa dunque, la regalità, che pretende un solo tipo di ‘sudditanza’, quella dell’Ascolto. Chi ascolta con un cuore attento e pensante, quello è l’uomo che ama e che può accedere alla verità: se è vero che "chiunque è dalla verità ascolta la mia voce" è anche vero che solo l’ascolto porta alla verità (Gv. 8, 31-32: "Se voi rimanete nella mia parola… comprenderete la verità e la verità vi farà liberi"). Ma l’ascolto deve essere autentico, di cuore, un ascolto docile, che si fa "obbedienza", perché, come dice l’Abbà Mios, "Se uno obbedisce a Dio, Dio gli obbedisce". (E ‘obbedire’ indica appunto il costrutto di akoùein col genitivo, come nel nostro brano, mentre l’ascolto superficiale, lo ‘stare a sentire’ è costruito con l’ accusativo in vari altri passi). Ma Pilato, no, lui non Ascolta; sente. Davvero non può capire il mistero di un Re che è anche buon pastore, la contraddizione di una regalità che è ‘regalità di servizio’, di un Re che ‘si prende cura’. Intuisce, forse, tanto che ha paura (Gv, 19, 8: "All’ udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura"). Ma non sa farsi mettere in crisi e di fronte allo spauracchio del suo Cesare, agitato furbamente dai sommi sacerdoti, soccombe e consegna quello strano prigioniero alla sua croce, l’unico trono preparato per il nostro Re, con la sua corona assurda e il suo mantello di porpora. E, suprema ironia di un procuratore romano che riscatta la propria debolezza, come nota Louf, fa sistemare sulla sua testa un’iscrizione solenne, addirittura in tre lingue, quella sì di un vero Cesare.
Brani di riferimento (oltre a quelli già citati) :