Introduzione alla lectio di Mc 10,46-52

26 ottobre 2003  -  XXX del Tempo Ordinario

 

46(E vengono a Gerico). E mentre uscivano da Gerico lui, i suoi discepoli e una folla numerosa, il figlio di Timeo, Bartimeo, cieco mendicante, sedeva lungo la via. 47E udendo che c’era Gesù il Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me!”.

48Molti lo rimproveravano per farlo tacere; ma egli gridava molto di più: “Figlio di David, abbi pietà di me!”.

49E Gesù, fermatosi, disse: “Chiamatelo!”. E chiamano il cieco, dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”.50Quegli allora, gettato il proprio mantello, balzato in piedi, venne da Gesù.

51Allora, rispondendogli,  Gesù disse: “Che vuoi che io faccia per te?”. E il cieco gli disse: “Rabbunì, che io veda!”. 52E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”.

E subito ebbe la vista e lo seguiva nella via.

 

Nella mia angoscia io grido al Signore ed egli mi risponde”(Sl 120,1; delle ascensioni).

Gerico, la città delle rose e delle palme, era l’ultima tappa per i pellegrini che dalla valle del Giordano salivano a Gerusalemme in occasione del rito pasquale. Quasi millecento metri di dislivello tra la depressione del sito e la capitale, superati dalle carovane lungo una strada aspra, dalla bellezza mozzafiato, percorsa al canto dei Salmi rituali delle “ascensioni”.

Per il gruppo riunito attorno al carismatico itinerante Gesù e proveniente dalla periferica Galilea è il primo impatto con i luoghi del potere[1] (e di potere si è infatti appena parlato nell’episodio precedente). Qui Marco situa l’ultimo miracolo, chiudendo la sezione del “viaggio iniziatico”, cominciato a Bethsaida con la guarigione faticosa, in più tempi, del cieco locale (leggi Pietro, 8,22-25) e con il riconoscimento messianico di Gesù a opera dell’apostolo; poi scandito dai tre annunci della passione-resurrezione del figlio dell’uomo, con relative incomprensioni del mistero da parte dei discepoli; e costellato infine da varie forme di rifiuto della sequela.

Ora l’episodio viene costruito, in prima battuta, facendo uscire allo scoperto il cancro nascosto dietro tanta resistenza, e che, identificato, potrebbe essere vinto; in secondo luogo, ridisegnando al positivo tante  risposte negative, già raccolte nella sezione.

Nella prima parte del brano (vv. 46-48) viene sottolineata  nel cieco la sua incapacità di “camminare”: sedeva, come Levi il pubblicano, prima della chiamata. La novità è però al v. 47. Al passaggio di Gesù il Nazareno egli grida: “Figlio di David, abbi pietà di me!”.

Il grido e l’invocazione sono salutari. E’ questo titolo, Figlio di David, a porre dei problemi per la sua ambiguità e qui ci dobbiamo soffermare.

Che Gesù fosse il Messia l’aveva già riconosciuto Pietro, sigillando la prima metà del percorso evangelico. Con “Tu sei il Cristo” (8,29),  aveva identificato in lui l’Atteso dai secoli, il mediatore tra il finito e l’Infinito, colui che avrebbe realizzato in terra di Israele la Signoria di Dio. Ma modelli di Messia ce n’erano in giro tanti: il nuovo Mosè, il Profeta, il Maestro della Legge, l’apocalittico Figlio dell’uomo, il figlio di David. Tutti vincenti. Il più gettonato all’epoca risultava proprio quest’ultimo. E per la prima volta nei Vangeli qui compare. La chiesa lo ha comunemente accettato come riconoscimento messianico di Gesù che viene a realizzare le antiche promesse isaiane e dei circoli monarchici (2 Sam 7,14 e Sl 110,4) di un Salvatore, erede della casa di David. Questo a partire dall’interpretazione fattane da Paolo in Rom 1,3 e da Matteo e Luca nei Vangeli dell’infanzia. Ma Marco, il primo dei sinottici, ignora il tema. Per lui Gesù è sempre il Nazareno, manifestato, secondo l’attesa, Cristo-Messia, ma rivelato, aldilà di ogni attesa, Figlio di Dio (1,1). E’ questo il disegno del suo vangelo.

Già il titolo di “figlio di David” compare solo qui, alla partenza da Gerico, e più tardi all’ingresso in Gerusalemme (11,10), le due stazioni del potere civile, religioso e militare. Ma alla fine delle controversie nel Tempio il Gesù marciano chiederà: “In che modo dicono gli scribi che il Messia è figlio di David?… David stesso lo chiama Signore; in che modo è suo figlio?” (12,35).

Perché dietro il sogno troppo facile di un messia che viene a sedere sul trono paterno e di colpo realizza indipendenza nazionale, sottomissione degli altri popoli, stato di giustizia teocratica, si nascondevano facilmente i demoni del nazionalismo e del bellicismo, del trionfalismo, dell’esasperazione del potere, del protagonismo (nonché della rivolta armata contro i Romani e l’usurpatore Erode). Allora nella contraddittoria invocazione del Figlio di David affiora, per Marco, il cuore segreto della resistenza alla sequela da parte dei discepoli: essersi scelto un loro messia, a misura dei propri desideri, rifiutando la scelta del Nazareno di un destino di messia perdente, Servo nella storia prima che Figlio nella gloria. Con un progetto inaspettato e difficile: dare agli uomini la Vita divina  attraverso il dono totale della sua (10,45).

A questo punto si capisce perché il Bartimeo-discepolo è cieco.”Chi è cieco se non il mio servo?…chi è cieco come il mio privilegiato?…hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione” (Is 42,19-20). E si capisce allora perché il grido, sgorgato dal profondo della sua ferita, rompe il cuore di pietra, chiuso nei suoi progetti di salvezza, gli permette di uscire dal solipsismo e gli fa riallacciare la relazione con quel Qualcuno, davanti cui porta il suo dolore, la sua incapacità a vedere-comprendere. Mentre l’indistinta preghiera “eleison” ci parla di una completa remissione al balsamo della misericordia di Dio e del suo messia. Viene sanato così lo scandalo della preghiera “magica” di Giacomo e Giovanni, l’antipreghiera che vuole piegare il Dio a fare quello che l’uomo vuole (10,35).

Nei due versetti-cerniera, il 49 e 50, la comunità, ancorché inadeguata, media la chiamata del Cristo. E il cieco getta il mantello, l’ultima ricchezza del povero, ma anche metafora del ruolo (o anche delle sue precomprensioni religiose), sanando il rifiuto dell’ uomo ricco (10,22).

Nella seconda parte (vv. 51-52) non resta che liberare il cuore dall’idolo. Gesù risponde, ma con una domanda che porta il cieco a passare dal bisogno al desiderio, all’identificazione di quel che gli brucia il cuore: “Cosa vuoi che io faccia per te?”. Rilettura: “E’ di un salvatore nazional-collettivo che hai bisogno? o di chi dia la vita per darti la vita?“. Perché un Messia non vale un altro e dietro ogni suo volto si nasconde un volto diverso di Dio:  infinitamente potente oppure debole come un bambino (9,37). E se il figlio di Davide non è abilitato dalle Scritture all’esercizio delle guarigioni, lo è invece il Servo, “luce delle Nazioni, perché apra gli occhi ai ciechi” (Is 42,6-7).

Allora il titolo ambiguo cade. Si allaccia il rapporto strettamente personale tra il discepolo e quel Messia-Servo che ama nella totalità e fedeltà del dono. Non resta che arrendersi: “Rabbunì, maestro mio, per me (appellativo tenerissimo che Giovanni riprenderà con M. Maddalena davanti al Risorto); fa’ che io levi gli occhi (ana-blepso[2]) al tuo mistero di Messia e comprenda.”[3]. La comunità, che ha identificato il suo peccato e a partire dalla sua impotenza si è totalmente abbandonata nella fede, è già salvata. (Viene sanata così l’incredulità del padre dell’epilettico: “Se tu puoi! Tutto è possibile a chi crede” 9,23). Ora questa vista-dono le consente di intraprendere la sequela sulla via di Gerusalemme, verso l’evento Croce, in cui si svelerà finalmente il volto del Figlio di Dio.



[1] Gerico era feudo personale della famiglia erodiana, che dalle piantagioni delle rose aveva tratto le proprie fortune. Ospitava la residenza invernale di Erode e una guarnigione romana.

[2] Si tratta di una visione nuova, che rifiuta la traduzione corrente “che io riabbia la vista” (dal prefisso anà = di nuovo).  Si preferisce il significato più ordinario di anà = in alto,  per tradurre semplicemente vedere o sollevare gli occhi ( Mr 6,41;  7,34); anche Giovanni   usa “anablepso” proprio nell’episodio del cieco-nato (Gv 9,11.15.18).

[3] Confrontare la scena finale del segno del cieco nato: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?” (Gv 10,35) e l’episodio del recupero della vista di Paolo: “…ricuperò la vista; fu subito battezzato, poi prese cibo e fu fortificato..e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio” ( At 9,18-20).