Lectio Divina di Lc. 15,1-3; 11-32
IV domenica di Quaresima
25/3/2001
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Quelle
sottolineate sono parole ed espressioni chiave per la meditatio.
La liturgia della IV domenica di Quaresima ci presenta quella che tradizionalmente è conosciuta come la parabola del figliol prodigo. Essa giunge a compimento di un percorso che si articola lungo tutto il capitolo XV; qui Gesù risponde alle mormorazioni di scribi e farisei che nella loro mentalità di benpensanti vedono come uno scandalo il fatto che un osservante della religione ebraica possa frequentare dei peccatori: tramite le parabole della pecora smarrita e della dramma perduta, Gesù mostra al contrario che l’azione di misericordia di Dio si rivolge principalmente proprio a coloro che essi considerano irrimediabilmente “perduti”, irrecuperabili; ed è significativo che tutte e due le parabole, proprio come la nostra, si concludano con la convocazione di una festa, espressione di una gioia che non può essere contenuta, che vuole essere condivisa.
La parabola del figliol prodigo, che costituisce indubbiamente una delle pagine anche letterariamente più belle e riuscite del vangelo di Luca, completa allora questa riflessione. A ben guardare tuttavia questa definizione comune risulta assai riduttiva. Il brano è costruito infatti sulla opposizione e la complementarità dei due fratelli, le cui immagini, nelle quali Luca ha voluto intenzionalmente donarci due icone preziose della vita spirituale e del rapporto dell’uomo con Dio, sono unificate dalla figura centrale del Padre che si può considerare come il vero e proprio protagonista dell’intera parabola.
Nella prima parte vediamo in azione il figlio minore, che si rivolge al Padre rivendicando in modo arrogante la propria parte di eredità. Niente lascia pensare a un litigio o a delle incomprensioni fra i due: semplicemente ciò che sembra emergere è una desiderio di autonomia, la voglia da parte del giovane di sperimentare una vita nuova in un paese lontano, sigillando così con l’allontanamento fisico la propria presa di distanza rispetto al padre. Siamo insomma dinanzi ad una scelta meditata e consapevole, di fronte alla quale il padre mostra già pienamente la propria natura: egli non contesta la scelta del figlio, ne rispetta l’autonomia e le decisioni, assegnandogli la parte di eredità che gli spetta. E tuttavia questo allontanamento non è l’inizio di un percorso di crescita, di maturazione umana e spirituale; il suo è piuttosto un itinerario che conduce verso un abisso caratterizzato dalla perdita di ogni coordinata affettiva, di schiavitù, di solitudine, di fame. Ma proprio l’esperienza del male e del peccato, la condizione di sradicamento e disarmonia che egli sperimenta lo conducono a rientrare in sé stesso e a meditare il ritorno alla casa paterna. A ben vedere le parole del figlio non possono essere ancora interpretate come un pentimento pieno (non a caso non viene utilizzato esplicitamente il termine metanoia solitamente impiegato per indicare la conversione): se da una parte il suo è un travaglio interiore di consapevolezza, che porta a fare luce sulla propria condizione, sulla perdita della propria dignità di figlio, d’altro canto la logica del nuovo rapporto col padre che egli intende instaurare è ancora di carattere utilitaristico, volta a saziare in primo luogo la fame che lo avvince. Disperando della possibilità di essere accolto nuovamente come figlio, egli mostra di essere ancora lontano da una logica di amore e di perdono: quel padre dal quale si è allontanato è ancora per lui uno sconosciuto. Esperienza, quella del figlio, probabilmente comune a molti di noi; esperienza di aridità, di una lacerazione che in certi momenti ci appare incolmabile e ci prostra. Eppure già questo appare all’evangelista come un movimento di risurrezione (l’espressione “levatosi” è traduzione del verbo greco anastàs, lo stesso impiegato appunto per la resurrezione) che del resto è accolto in pienezza e amplificato dal padre. In quella sequenza di gesti quasi concitati, in cui fanno tutt’uno lo scorgere da lontano il figlio, il corrergli incontro, l’abbracciarlo senza neppure dargli il tempo per recitare interamente quella particina che egli aveva imparato a memoria, scopriamo con immensa gioia tutta la tenerezza di un padre misericordioso che non ha mai cessato di attendere il ritorno del figlio. Egli non rimprovera né esige delle scuse: al contrario al giovane che avvertiva interamente il peso della propria degradazione egli ridona adesso interamente la dignità di figlio e di uomo libero (a questo alludono simbolicamente la veste, i calzari e l’anello). La debolezza dell’amore supera per Luca ogni logica “dura” di colpa e punizione, ed è adesso che il figlio può conoscere forse per la prima volta in tutta la sua intensità la pazienza infinita di un padre che lo ha già perdonato prima ancora che egli possa parlare.
Anche la seconda figura di questo dittico costruito da Luca, quella del figlio maggiore, ci offre, per quanto spesso trascurata, la possibilità di una proficua riflessione.
Come i farisei pronti a mormorare contro Gesù, così anch’egli è scandalizzato che il padre abbia potuto mostrare tanta generosità verso quel fratello che ha dilapidato il patrimonio del padre (è interessante notare che a differenza di “sostanze” del v. 12, il termine “patrimonio” di v. 30 rende il termine greco bios: di fronte al padre il figlio maggiore accusa il fratello di avergli divorato la vita.) e che anzi ora sembra ricevere più di lui. A differenza del fratello egli è rimasto nella casa del padre, gli è stato vicino al punto da potere vantare, rispetto al fratello, di essere stato un figlio “fedele”. Eppure, sembra suggerire l’evangelista, questa frequenza non è stata sufficiente a conoscere la natura del padre, a sperimentarne l’amore; più che rapporto di figlio col padre, il suo è stato piuttosto un rapporto da servo a padrone, una logica di obbedienza cieca dietro la quale possiamo forse intravedere il pericolo di una vicinanza al Signore assolutamente inautentica, di un rapporto quasi “burocratico” o semplicemente rituale che non lascia spazio all’intensità della partecipazione e della gioia. Eppure neanche in questo caso la situazione appare disperata. Come con il figlio minore, così anche adesso il Padre esce dalla propria casa a supplicare il figlio che rifiuta di entrare; ad una situazione di rifiuto e di negazione egli reagisce ancora una volta con l’atteggiamento benigno del deporre ogni contesa per fare spazio all’amore e al perdono. Luca omette di dirci quale sia stato il comportamento del figlio maggiore: forse volutamente egli lascia a noi la possibilità di immaginare la fine della storia, quasi richiamo alla libertà totale dell’uomo che pur di fronte al bene disarmante e gratuito conserva in ogni tempo l’opportunità di dare la risposta del proprio cuore.
brani di
riferimento
- Si consiglia la lettura delle due parabole precedenti che offrono una fondamentale chiave di lettura del brano.
- un ottimo parallelo è dato anche dalla parabola del pubblicano e del fariseo a Lc. 18,9-14.
- La protesta del figlio maggiore può essere assimilata anche a quella dei vigniaioli di della parabola di Mc. 20,1-16.