Comunità Kairos - Introduzione alla Lectio divina di Lc 18,9-14

XXX domenica tempo ordinario – 24 ottobre 2004

 

[9] Disse ancora questa parabola per alcuni che erano persuasi in se stessi di esser giusti (Sal 1; Lc 16,15) e disprezzavano gli altri: [10] "Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. [11] Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. [12] Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. [13] Il pubblicano invece, stando lontano, non voleva nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, sii benevolo con me peccatore (Sal 51,1) [14] Io vi dico: questi discese a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché ognuno che innalza se stesso sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato" (Lc 1,52).

 

* Quelle sottolineate sono alcune espressioni chiave per la meditatio.

 

Ancora una volta il vangelo di questa domenica ci presenta una parabola sulla preghiera, autentico luogo in cui si rivela la qualità della relazione con Dio e con gli uomini. Il racconto ha dei destinatari ben precisi ai quali è rivolto in modo particolare il messaggio: tutti coloro che sono convinti di “essere giusti” e che in virtù di questa presunzione disprezzano gli altri.

La scena si svolge nel tempio e gli oranti sono un fariseo e un pubblicano, due figure ben note al tempo di Gesù: il primo era ritenuto modello di fedeltà alla Legge e di zelo nelle pratiche cultuali, il secondo era per tutti paradigma della disonestà e del peccato.

Come coloro che sono persuasi di essere giusti e per questo confidano in se stessi (il verbo greco tradotto con “erano persuasi” ha talvolta anche il significato di “confidare”) il fariseo si presenta al cospetto di Dio a testa alta, ben ritto in piedi, come uomo impeccabile e pio; non chiede nulla al Signore se non, diremmo, la certificazione della sua santità di vita che marchi la distanza e la differenza dal pubblicano “peccatore” che sta più in fondo. Non gli chiede giustizia, come la vedova aveva incessantemente implorato dal giudice iniquo; non gli chiede la guarigione, come hanno fatto i dieci lebbrosi; non gli chiede il perdono, né la salvezza. Per il fariseo, insomma, Dio non può fare né dare alcuna cosa.

In apparenza la preghiera del fariseo non è scandalosa. Comincia come una preghiera di ringraziamento: «O Dio ti ringrazio……» ma continua poi con l’elenco delle proprie buone azioni, che sono anche più numerose di quanto prescriveva la stessa legge ebraica: era prescritto il digiuno una volta l’anno, ma lui digiunava ben due volte la settimana; la decima doveva pagarsi solo per i prodotti più importanti della terra, ma il fariseo la paga addirittura per tutti senza distinzione!. Diremmo un eccesso di zelo, tanto più inutile quanto più si percepisce come queste azioni siano in realtà del tutto scollate da Dio; esse sono piuttosto un mezzo per vantarsi agli occhi degli uomini e agli occhi di Dio stesso. Il fariseo che è in noi, quello che va magari a messa ogni domenica, che fa la sua lectio quotidiana, che pratica la giustizia e, nel frattempo, mentre fa tutto questo, guarda il fratello peccatore con occhio sprezzante, il nostro fariseo insomma dovrebbe ricordare che, se anche, nel migliore dei casi, avesse compiuto tutto questo per Dio in segno di offerta, sarebbe pur sempre un «servo inutile» (Lc 17, 7-10) e non potrebbe accampare nei confronti di Dio alcun diritto, alcun bonus per la salvezza in una logica di do ut des, perché tutto ciò che riceverà sarà soltanto dono gratuito, sarà solo grazia da accogliere.  

A distanza dal fariseo e dalle prime file degli uomini ‘buoni e pii’, in fondo al tempio, il pubblicano mormora la sua preghiera. Ha l’atteggiamento di chi chiede e basta. La sua condizione di peccatore lo rende come colui che non può guardare il cielo, secondo l’uso comune della preghiera israelita, perché il peso dei peccati sembra schiacciarlo. La sua preghiera è silenziosa, breve: chiede al Signore di essere benevolo con lui. Egli non promette, come Zaccheo (Lc 19,8), di cambiar vita. Non promette nulla al Signore. Non c’è futuro nella sua preghiera. Peraltro, a differenza del Fariseo che può elencare i suoi meriti, egli non elenca le sue colpe, non passa in rassegna le sue azioni; a differenza del fariseo il suo pensiero è rivolto solo a Dio, non agli altri, tant’è che non si accorge della presenza dell’altro che è pur messo in piedi nelle prime file del tempio. Brevità della preghiera, essenzialità della richiesta: Signore, sorridimi. E’ un dialogo intimo con Dio da cui noi tutti siamo tagliati fuori: nessuno può conoscere il cuore del pubblicano, nessuno potrà mai misurare la profondità della sua fede nel Signore, anche se ne vede le opere pur disoneste. Un monito alla pretesa farisaica di ‘vedere’ e giudicare il peccato dell’altro, laddove si è invece ciechi verso se stessi: «Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,40-41). 

I due opposti atteggiamenti spirituali rappresentano due possibilità entrambe concrete per il cristiano: l’alternativa è tra l’abbandono a Dio nelle nostre debolezze e nel riconoscimento di essere bisognosi di tutto, o tra una liturgia vuota e ipocrita che «confida in se stessa», vissuta non nella comunione con i fratelli ma nella separazione e distinzione da essi in base ad una gerarchia tutta umana di valori attraverso i quali presumere di raggiungere Dio e incoronarsi di un’ambigua quanto vuota “santità”, nel senso letterale di “separazione” dagli altri.

 

 

 

Brani di riferimento:

·        Nell’AT in generale: Ger 16,17; Gb 34,19-28; Sal 1; 26; 51.

·        Sulla misericordia per i peccatori: Lc 7,36-50; 15,11-32; 19,1-10; 23,40-43.

·        Sulla giustificazione non per le opere: Rm 3,21-24; Fil 3,7-9; Gal 2,15-16.