Introduzione alla Lectio divina di Mt 20, 1-16

domenica 22-9-2002 - XXV tempo ordinario

 

[1] “Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. [2] Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. [3] Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati (lett. inoperosi) [4] e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. [5] Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. [6] Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi (lett. inoperosi)? [7] Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.

[8] Quando fu sera, il padrone (lett. il signore) della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dá loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. [9] Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. [10] Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. [11] Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: [12] Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi (lett. li hai fatti uguali a noi), che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. [13] Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? [14] Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. [15] Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso (lett. il tuo occhio è malvagio) perché io sono buono? [16] Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”.

      

 

*Quelle evidenziate sono parole-chiave per la meditazione       

 

Il brano di Matteo ha una grande forza provocatrice. Proviamo ad affrontarlo cercando di non smussarla. La parabola segue le rassicurazioni che Gesù aveva dato alla richiesta di Pietro: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?” (Mt 19, 27). Il maestro aveva tracciato uno scenario splendido: “…quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele” (19, 28). E ancora aveva parlato del ‘centuplo’ e della ‘vita eterna’. Il passo si concludeva però con una affermazione un po’ sibillina rispetto al discorso precedente: “Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi” (19, 30). Si tratta, come possiamo vedere, di una frase quasi identica a quella che conclude questa parabola degli operai nella vigna: “Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”.

Dunque Matteo incornicia il racconto con la stessa espressione ripetuta, per fornirci la sua chiave di lettura dell’episodio che Gesù racconta. Infatti l’evangelista contrappone probabilmente i primi chiamati, i Giudei, agli ultimi chiamati, i pagani, accomunandoli nel dono della salvezza. Ma la parabola riserva altri significati, e per Gesù stesso il discorso doveva essere ancora più ampio. Ma andiamo con ordine. Ci viene descritta una tipica giornata lavorativa della Palestina di allora, che cominciava all’incirca alle sei del mattino e terminava dodici ore dopo: era infatti usuale che il proprietario di un vigneto uscisse all’alba a cercare operai da pagare a fine giornata, come prescriveva già la legge (Lv 19, 30; Dt 24, 15). La somma di un denaro per un giorno di lavoro era anch’essa una cifra consueta, che garantiva il necessario per vivere e che il padrone doveva per obbligo contrattare prima dell’assunzione. In effetti, però, il padrone della parabola si comporta normalmente solo con i primi operai (v. 2). Con gli altri le condizioni del contratto diventano più generiche (“quello che è giusto ve lo darò”, v. 4), finché con gli operai dell’ultima ora, assunti quando già i primi lavoravano da undici ore, non si discute neanche più di soldi. Da notare che, quando si rivolge a questi ultimi, gli ‘inoperosi’, il padrone non ha nessun tono di rimprovero, anche perché sa che quei disoccupati non hanno colpa se ‘nessuno li ha ingaggiati’ finora. Al v. 8 inizia la seconda parte del brano, come ci indica la notazione temporale. E’ sera. Il padrone, che ora Matteo chiama Signore della vigna, convoca gli operai per dare loro la paga. Inizia dagli ultimi, cosicché i primi possano assistere a quella stranezza che tra poco per loro avrà l’amarezza dell’ingiustizia: infatti, gli operai che avevano lavorato appena un’ora, al fresco delle cinque pomeridiane, ricevono lo stesso trattamento di chi ha sgobbato 12 ore sotto il sole cocente.

Il brano gioca molto sull’effetto sorpresa e i lettori-uditori della Parola sono automaticamente portati a immedesimarsi con i primi lavoratori. Le aspettative, legittime, sono frustrate e dunque i ‘primi’ mormorano. La Bibbia è piena di personaggi che ‘mormorano’. Il popolo di Israele (di cui nell’AT la vigna è immagine) mormora contro Mosè che lo ha trascinato nel deserto e contro Dio che lo affama e poi lo nutre solo con la manna (Es 16, 3.7; Nm 11,1); Giona mormora contro Dio che salva Ninive (Gn 4,1sgg.); i farisei mormorano contro Gesù che spalanca le porte del cielo ai peccatori, ai pubblicani ai samaritani, cioè a tutti gli ultimi di Israele (Lc 15,1 sgg.); il fratello maggiore del famigerato ‘figliol prodigo’ mormora contro quel padre che incredibilmente tratta il figlio scialacquatore come, e addirittura meglio, di lui che gli è stato fedele tutta una vita (Lc 15, 28).               Quest’ultima parabola di Luca presenta qualche affinità con quella dei vignaioli narrata dal solo Matteo: anche il figlio maggiore è uno dei ‘primi’, uno di quelli che si sente legittimato ad accampare diritti verso il padre-signore in nome dei propri innegabili meriti.Per lui, per noi, risuona quella domanda che non conclude la parabola, ma la apre alle nostre personali risposte: visto che il padrone può ovviamente fare ciò che vuole con i suoi beni, e considerato anche che non è venuto meno ai suoi obblighi, peraltro concordati coi lavoratori all’inizio, che cos’è che ci dà tanto fastidio? Non sarà la bontà profonda (e non ‘buonista’) a farci scandalo? Non sarà che l’invidia ci rode perché la misericordia di Dio ci fa uguali ai suoi occhi di Padre, sovrastando del tutto i nostri meriti e scendendo più in basso delle nostre miserie? La presunta arbitrarietà del comportamento del Signore diventa allora lo spunto per guardare al nostro cuore e per capire che il problema non è la ricompensa, ma la relazione con Lui.

Chi di noi intreccia una relazione di amicizia o di amore in vista di una ricompensa? Forse che la relazione stessa non è già in sé il bene più grande? L’operaio che rivendica i suoi meriti non capisce che il lavoro nella vigna del Signore gli è stato offerto per Grazia e che la grazia, per essere vissuta appieno e non risultare vanificata, va condivisa con gioia.    Quel padrone così strano, che esce tante volte, fino alla fine del giorno, a cercare, a chiamare anche chi non ha avuto ‘pari opportunità’ nella vita,non ha bisogno di chissà quale tremenda fatica da parte nostra: gli basta il sì silenzioso e grato di chi non si aspetta nulla perché sa che i suoi meriti sono niente di fronte alla misericordia di chi lo sceglie.

Questa giustizia di Dio, che non segue logiche retributive ma solo costruttive, giunge allora consolante se solo cambiamo prospettiva. Infatti, “verrà un giorno in cui il nostro cuore di pietra si spezzerà, durante una prova difficile per esempio, un fallimento, un peccato forse, o semplicemente davanti alla presa di coscienza così umiliante della nostra radicale incapacità di raggiungere questo Dio che pretendiamo di amare. Questo sarà un momento di grazia nel quale accetteremo finalmente di porci con umiltà tra gli operai dell’ultima ora, assieme ai servi inutili, accanto ai peccatori e al buon ladrone, e anche dietro di essi, coscienti di aver fatto poco, o anche nulla, accettando quel posto, non avendo diritto al minimo salario, ma solamente alla misericordia, alla sconvolgente bontà di Dio”[1].



[1] André Louf.