Introduzione alla Lectio Divina di Gv. 3,16 – 18
Domenica
22 maggio 2005 – SS. Trinità
[16]
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito, affinché chiunque creda il lui non muoia, ma abbia la vita
eterna. [17] Dio non ha mandato il Figlio nel mondo
perché giudichi il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. [18]
chi crede in lui non è condannato (giudicato); ma chi non crede è già stato
condannato (giudicato) perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio
di Dio. |
Il
testo di questo brano di Giovanni è talmente denso che rintracciare espressioni
o termini più “importanti” di altre riesce
praticamente impossibile. In pochi, concentratissimi versetti, l’evangelista ci
conduce infatti nel cuore della rivelazione, dell’annuncio
(kerygma) di salvezza, proclamato,
testimoniato e realizzato da Cristo. Parole, queste di Giovanni, che ogni
cristiano conosce bene per averle sentite decine, centinaia, forse migliaia di
volte, per essere queste uno dei fondamenti più alti della fede.
Eppure forse l’assuefazione o talora la malcelata pretesa di conoscere
rischia di ottundere la novità di queste parole: una novità che germoglia
costantemente e che invita ciascuno non solo alla contemplazione, ma ad una
presa di posizione netta e radicale.
Di
fronte all’annuncio dell’amore di Dio c’è il pericolo
di essere come Nicodemo. Questo capo dei Giudei ha visto i segni compiuti da Gesù e in essi ha riconosciuto la
presenza di Dio, una manifestazione della sua gloria. La vista di quei segni lo
ha affascinato, senza tuttavia che la fede abbia trovato in lui un radicamento
profondo. Anzi forse proprio l’avere scorto la mano di Dio
nei gesti dell’uomo che ora ha di fronte gli dà l’impressione di avere già
capito tutto di lui, di averne afferrato l’essenza, di essere in un certo senso
“arrivato” nella fede. Così recandosi da Gesù
Nicodemo si aspetta forse un colloquio teologico, un
dialogo fra maestri, diremmo oggi “tra professori”.
Ma
la logica di Gesù è radicalmente differente e
imbarazzante. Al maestro della Legge, Gesù parla
della necessità, per entrare nel Regno di Dio, di “rinascere dall’alto (o di
nuovo)”, di lasciare rinnovare la propria vita dall’acqua del Battesimo e dalla
forza misteriosa dello Spirito. La condizione per entrare nel Regno di Dio non
è semplicemente quella di “conoscere”, o di accettare un pacchetto di certezze
preconfezionate, ma quella di lasciarsi coinvolgere radicalmente e
integralmente nel cerchio dell’amore di Dio, passando attraverso lo “scandalo” della elevazione del Cristo sulla croce: non sconfitta, ma
gloria in quanto manifestazione suprema ed estrema dell’amore di Dio per gli
uomini.
A
Nicodemo Gesù ha dunque voluto rivelare il senso
stesso dell’incarnazione del Figlio di Dio. Il suo
dimorare e dialogare con gli uomini, la passione e resurrezione non hanno altra
giustificazione che l’agape infinita e gratuita che Dio nutre nei
confronti del mondo (kosmos). L’agape
regola il rapporto tra Dio e gli uomini e trova la sua testimonianza efficace
nel dono del Figlio. Forse nessun altro commento è più efficace che le parole dello stesso Giovanni: “Dio è amore. In questo
si è manifestato l’amore di Dio per noi: egli ha mandato il suo unigenito
Figlio del mondo, perché noi avessimo la vita per lui”. (Igv.
4,8-9). Laddove il mondo contemporaneo vive un’inflazione di prospettive
salvifiche e consolatorie di vario tipo, il cristianesimo può forse attingere
la sua credibilità dal porre al centro un amore che
non rimane solo detto, ma si fa carne e vita a fianco dell’uomo (cfr. Gv. 1,14 “e il Verbo si fece
carne e venne ad abitare in mezzo a noi”).
Ma
le parole di Gesù svelano, oltre al fondamento, lo
scopo della sua venuta: il piano di Dio non è altro che il piano della
salvezza, della donazione all’uomo della vita eterna. Giovanni è un certo senso
l’evangelista della “vita eterna”. Questa espressione compare in lui ben 96
volte, e non designa semplicemente un prolungamento della vita biologica
o come nell’A.T. la permanenza del giusto con Dio (cfr.
Sap. 3,9 / 5.5), bensì conoscenza dell’”unico vero
Dio” e di colui che egli ha mandato (cfr. Gv. 17,5) e, in definitiva,
“vita nel suo Figlio” (Igv. 5,11) ossia relazione e
comunione intima col Padre e col Figlio.
Dunque l’incarnazione di Gesù non è per il
giudizio del mondo, ma per la salvezza.
Eppure nella visione di Giovanni la venuta di Gesù
determina un giudizio (krisis ossia
separazione, vaglio), che non è semplicemente demandato alla fine dei tempi, ma
assume una dimensione storica ed esistenziale. L’evento stesso
dell’incarnazione sembra porre per Giovanni una alternativa
fondamentale tra le tenebre e la luce; nella croce infatti avviene “il giudizio
di questo mondo (cfr. 12,31)”, nel quale “il principe
di questo mondo” è sconfitto. Ma questo giudizio è sempre e comunque
rispettoso della volontà dell’uomo, libero di preferire le tenebre alla luce e
dunque di infliggere a se stesso una condanna che in ogni caso non è mai
definitiva, ma aperta alla possibilità della conversione: “mentre avete
la luce camminate nella luce per diventare figli della luce” (Gv. 12,36)
Più
ampiamente però il giudizio nasce dalla fede, ossia dal riconoscere o meno
l’evento di salvezza costituito da Cristo stesso e dunque dalla conseguente
scelta di vita. Tra fede, ossia ascolto della Parola, e
salvezza, ossia passaggio dalla morte alla vita (cfr.
5,24) si instaura per Giovanni un nesso quasi
indissolubile. L’evento Gesù Cristo crea le
condizioni per la pienezza dell’uomo, per vivere con Dio una relazione adulta;
all’uomo non è concesso un atteggiamento di freddezza o di indifferenza,
ma è richiesta una scelta piena e consapevole.