Lectio Divina di Gv. 14,23-29

Domenica 20 maggio 2001; VI domenica del tempo di Pasqua

 

[23] Gesù gli rispose: Se uno mi ama custodirà  la mia parola; il Padre mio lo amerà, e verremo da lui e faremo dimora presso di lui. [24] Chi invece non mi ama non osserva le mie parole. La parola che ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. [25] Vi ho detto queste cose mentre sono ancora con voi. [26] Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre mio manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà quanto vi ho detto. [27] Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non ve la do come fa il mondo. Non si agiti il vostro cuore e non abbiate paura. [28] Avete udito quello che vi ho detto: vado e ritornerò da voi. Se mi amate, dovreste gioire del fatto che io ritorno dal Padre, perché il Padre è maggiore di me. [29] Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, in modo che quando avverrà crediate

quelle sottolineate sono parole chiave per la meditatio.

 

 

Il brano di questa VI domenica di Pasqua si caratterizza, come del resto tutto il Vangelo di Giovanni, per una straordinaria densità: nel giro di pochi versetti sono condensate tematiche di enorme rilievo, prima fra tutte quella della promessa dello Spirito fatta da Gesù ai discepoli.

È tipico del quarto Vangelo l’affiorare di veri e propri fasci tematici che attraversano il testo in diversi punti: a più riprese Gesù, spesso sollecitato dai discepoli, ritorna su alcuni argomenti trattandoli da diverse angolazioni, esprimendosi di volta in volta in modo parzialmente differente, ampliando quanto già detto; anche il nostro brano in tal senso non fa eccezione; la sua comprensione è legata infatti alla lettura dell’intero capitolo XIV e molte delle affermazioni che si fanno qui saranno poi ulteriormente riprese e precisate nel capitolo XVI.

Fin dall’inizio del cap. XIV comprendiamo che la situazione è quella dell’addio; Gesù annunzia la sua imminente partenza e il suo ritorno, con una evidente (per noi, ma non per i discepoli!) allusione alla sua prossima passione: su questo sfondo generale, appena accennato, si inseriscono una serie di discorsi che hanno come oggetto non tanto Gesù, quanto quella della comunità dei discepoli dopo l’allontanamento di Gesù; in altre parole, il tema è ancora una volta quello della “gestione” dell’assenza di Gesù. Si tratta di un problema di non poco conto: la notizia dell’allontanamento di Gesù rischia di gettare i discepoli nel panico e per ben due volte (vv. 1 e 27) Egli li discepoli a non turbarsi: “non sia sconvolto il vostro cuore, né si sgomenti”. Gesù comprende che il suo annuncio crea un vuoto, non dovuto solamente alla prospettiva della perdita del maestro, ma anche ad un vero e proprio smarrimento di senso: i discepoli non hanno ancora compreso l’identità di Gesù né il fulcro del suo messaggio: la domanda di Filippo e la risposta amareggiata di Gesù (vv. 9-10: “da tanto tempo sono con voi e non mi hai ancora conosciuto, Filippo? Etc.) sono in tal senso una evidente rivelazione, così come i vv. 16-19 del capitolo XVI.

Anche il nostro brano si sviluppa da una domanda di Giuda (“Signore cos’è accaduto perché tu stai per manifestarti a noi e non al mondo?” v. 22) che rivela una comprensione errata o parziale delle parole di Gesù; la separazione netta che il Gesù di Giovanni pone tra la comunità dei discepoli e il mondo non può essere compresa da chi attende una manifestazione pubblica del Messia in termini di potenza e gloria.

Il discorso di Gesù si pone dunque come una catechesi che tende ad allontanare questo senso di frustrazione che sembra attanagliare i discepoli; l’idea che egli intende comunicare è che la sua partenza non comporterà un’assenza, ma una presenza nuova, non più concreta: ciò che resterà sarà innanzitutto la sua Parola; l’incontro con Gesù, ormai indissolubilmente unito al Padre, si realizzerà, per i discepoli come per noi, non più sulle strade del mondo ma nella custodia amorevole e fedele di questa Parola, che Gesù lascia e che è già rivelazione del Padre; chi pratica la Parola sa di non essere solo, ma è certo che Padre e Figlio dimorano sempre (moné) presso di lui (qui è interessante l’uso di due diverse particelle: verremo presso di lui, che indica un rapporto di intimità e amicizia tra il Signore e i discepoli, e faremo dimora accanto a lui, in un rapporto quasi di ospitalità e comunione).

E tuttavia la custodia della Parola per Giovanni non è il semplice frutto di una volontà o di un impegno umano; al dono di sé stesso attraverso la Parola, Gesù fa seguire la promessa del dono dello Spirito che si realizzerà nella Pentecoste; uno Spirito che non è diverso da Gesù stesso,  (al v. 16 Egli parlava di un altro Paraclito, visto che il primo “avvocato difensore” che intercede presso il Padre è proprio Lui stesso, Gesù) e che dopo la dipartita di Gesù continua senza interruzione la sua opera di rivelazione: in questo consiste infatti la sua funzione di insegnamento, nel “ricordare” quanto Gesù ha detto, nel continuare a parlare di Lui e della Sua opera di salvezza. Siamo immersi nel cuore di una promessa straordinaria, che mantiene anche per noi una forza dirompente; Dio, nella sua essenza Trinitaria continua a vivere e rivelarsi nella storia attraverso una Parola che è indirizzata al contempo a ciascuno dei discepoli e alla comunità: non è un caso infatti che Gesù indirizzi queste parole proprio ai discepoli riuniti, e anzi probabilmente, come è stato notato, tale interpretazione comunitaria dell’azione dello Spirito è frutto di una riflessione della comunità giovannea che percepisce la propria esistenza e la propria azione come frutto dello Spirito. Così l’interpretazione della Parola è rivelazione dell’unità fra Padre e Figlio attraverso lo Spirito e diviene tratto distintivo e caratterizzante della comunità cristiana.

Col dono dello Spirito fa tutt’uno il dono della pace; ancora una volta nel pensiero di Giovanni, le parole di Gesù non creano unità bensì divisione (krisis): la pace di Gesù non è la pace del mondo, una pace che ad esempio si può intendere in senso politico (la pax romana) o che si riduce a semplice saluto; Gesù piuttosto reinterpreta il concetto ebraico dello Shalom e soprattutto in Giovanni la pace è collegata ad una intimità con Lui che tuttavia può manifestarsi anche in modo paradossale e che perciò ha bisogno di essere interpretata; nel nostro brano essa è invocata in un momento di grande turbamento dei discepoli, prima della passione (ed è significativo che Gesù, sconvolgendo le categorie dei discepoli, chieda loro anche di “gioire” per il suo imminente ritorno al Padre); ma “pace a voi” sono anche le prime parole che Gesù risorto rivolge ai discepoli in preda alla paura (Gv. 20, 19-23) e che esse preludano all’affidamento di una missione che pure sotto la guida dello Spirito comporterà persecuzioni e difficoltà di ogni tipo; in questo senso allora la “pace” di Gesù non è che Gesù stesso, la cui presenza prescinde dalle circostanze esterne, ed anzi spesso è in opposizione ad esse.

Siamo allora di fronte ad un brano di grande rilievo, in cui affiora una forte valenza trinitaria e grazie al quale siamo chiamati a riflettere sulla nostra condizione di discepoli in attesa del ritorno del Signore e a discernere la compagnia di Dio e il volto di Gesù nella meditazione della Parola e nella nostra vita individuale e comunitaria.

 

Brani di riferimento

 

-          si consiglia la lettura di tutto il cap. 14 di Giovanni e del cap. 16, 16-33.

-          Per l’azione del Paraclito vd. anche Giovanni 16,13-14 e 1Gv. 2,1-2.

-          Per la “pace” in Gv. vd. 20,19-26; una prospettiva diversa il Lc. 7.50 e 8.48 in cui l’”andare in pace” è legato alla remissione dei peccati.

Meditazione su Gv 14,23-29