Lectio Divina di Gv. 14,23-29
Domenica 20 maggio 2001; VI domenica del tempo di Pasqua
|
quelle
sottolineate sono parole chiave per la meditatio.
Il brano di questa VI domenica di Pasqua
si caratterizza, come del resto tutto il Vangelo di Giovanni, per una straordinaria
densità: nel giro di pochi versetti sono condensate tematiche di enorme rilievo,
prima fra tutte quella della promessa dello Spirito fatta da Gesù ai discepoli.
È tipico del quarto Vangelo l’affiorare di veri e
propri fasci tematici che attraversano il testo in diversi punti: a più riprese
Gesù, spesso sollecitato dai discepoli, ritorna su alcuni argomenti trattandoli
da diverse angolazioni, esprimendosi di volta in volta in modo parzialmente
differente, ampliando quanto già detto; anche il nostro brano in tal senso non
fa eccezione; la sua comprensione è legata infatti alla lettura dell’intero
capitolo XIV e molte delle affermazioni che si fanno qui saranno poi ulteriormente
riprese e precisate nel capitolo XVI.
Fin dall’inizio del cap. XIV comprendiamo che la
situazione è quella dell’addio; Gesù annunzia la sua imminente partenza e il
suo ritorno, con una evidente (per noi, ma non per i discepoli!) allusione alla
sua prossima passione: su questo sfondo generale, appena accennato, si
inseriscono una serie di discorsi che hanno come oggetto non tanto Gesù, quanto
quella della comunità dei discepoli dopo l’allontanamento di Gesù; in altre
parole, il tema è ancora una volta quello della “gestione” dell’assenza di
Gesù. Si tratta di un problema di non poco conto: la notizia
dell’allontanamento di Gesù rischia di gettare i discepoli nel panico e per ben
due volte (vv. 1 e 27) Egli li discepoli a non turbarsi: “non sia sconvolto il
vostro cuore, né si sgomenti”. Gesù comprende che il suo annuncio crea un
vuoto, non dovuto solamente alla prospettiva della perdita del maestro, ma
anche ad un vero e proprio smarrimento di senso: i discepoli non hanno ancora
compreso l’identità di Gesù né il fulcro del suo messaggio: la domanda di
Filippo e la risposta amareggiata di Gesù (vv. 9-10: “da tanto tempo sono con
voi e non mi hai ancora conosciuto, Filippo? Etc.) sono in tal senso una
evidente rivelazione, così come i vv. 16-19 del capitolo XVI.
Anche il nostro brano si sviluppa da una domanda
di Giuda (“Signore cos’è accaduto perché tu stai per manifestarti a noi e non
al mondo?” v. 22) che rivela una comprensione errata o parziale delle parole di
Gesù; la separazione netta che il Gesù di Giovanni pone tra la comunità dei
discepoli e il mondo non può essere compresa da chi attende una manifestazione
pubblica del Messia in termini di potenza e gloria.
Il discorso di Gesù si pone dunque come una
catechesi che tende ad allontanare questo senso di frustrazione che sembra
attanagliare i discepoli; l’idea che egli intende comunicare è che la sua
partenza non comporterà un’assenza, ma una presenza nuova, non più concreta:
ciò che resterà sarà innanzitutto la sua Parola; l’incontro con Gesù, ormai
indissolubilmente unito al Padre, si realizzerà, per i discepoli come per noi,
non più sulle strade del mondo ma nella custodia amorevole e fedele di questa
Parola, che Gesù lascia e che è già rivelazione del Padre; chi pratica la
Parola sa di non essere solo, ma è certo che Padre e Figlio dimorano sempre (moné)
presso di lui (qui è interessante l’uso di due diverse particelle: verremo presso
di lui, che indica un rapporto di intimità e amicizia tra il Signore e i
discepoli, e faremo dimora accanto a lui, in un rapporto quasi di
ospitalità e comunione).
E tuttavia la custodia della Parola per Giovanni
non è il semplice frutto di una volontà o di un impegno umano; al dono di sé
stesso attraverso la Parola, Gesù fa seguire la promessa del dono dello Spirito
che si realizzerà nella Pentecoste; uno Spirito che non è diverso da Gesù
stesso, (al v. 16 Egli parlava di un
altro Paraclito, visto che il primo “avvocato difensore” che intercede
presso il Padre è proprio Lui stesso, Gesù) e che dopo la dipartita di Gesù
continua senza interruzione la sua opera di rivelazione: in questo consiste
infatti la sua funzione di insegnamento, nel “ricordare” quanto Gesù ha detto,
nel continuare a parlare di Lui e della Sua opera di salvezza. Siamo immersi
nel cuore di una promessa straordinaria, che mantiene anche per noi una forza
dirompente; Dio, nella sua essenza Trinitaria continua a vivere e rivelarsi
nella storia attraverso una Parola che è indirizzata al contempo a ciascuno dei
discepoli e alla comunità: non è un caso infatti che Gesù indirizzi queste
parole proprio ai discepoli riuniti, e anzi probabilmente, come è stato notato,
tale interpretazione comunitaria dell’azione dello Spirito è frutto di una
riflessione della comunità giovannea che percepisce la propria esistenza e la
propria azione come frutto dello Spirito. Così l’interpretazione della Parola è
rivelazione dell’unità fra Padre e Figlio attraverso lo Spirito e diviene
tratto distintivo e caratterizzante della comunità cristiana.
Col dono dello Spirito fa tutt’uno il dono della
pace; ancora una volta nel pensiero di Giovanni, le parole di Gesù non creano
unità bensì divisione (krisis): la pace di Gesù non è la pace del mondo,
una pace che ad esempio si può intendere in senso politico (la pax romana)
o che si riduce a semplice saluto; Gesù piuttosto reinterpreta il concetto
ebraico dello Shalom e soprattutto in Giovanni la pace è collegata ad
una intimità con Lui che tuttavia può manifestarsi anche in modo paradossale e
che perciò ha bisogno di essere interpretata; nel nostro brano essa è invocata
in un momento di grande turbamento dei discepoli, prima della passione (ed è
significativo che Gesù, sconvolgendo le categorie dei discepoli, chieda loro
anche di “gioire” per il suo imminente ritorno al Padre); ma “pace a voi” sono
anche le prime parole che Gesù risorto rivolge ai discepoli in preda alla paura
(Gv. 20, 19-23) e che esse preludano all’affidamento di una missione che pure
sotto la guida dello Spirito comporterà persecuzioni e difficoltà di ogni tipo;
in questo senso allora la “pace” di Gesù non è che Gesù stesso, la cui presenza
prescinde dalle circostanze esterne, ed anzi spesso è in opposizione ad esse.
Siamo allora di fronte ad un brano di grande rilievo, in
cui affiora una forte valenza trinitaria e grazie al quale siamo chiamati
a riflettere sulla nostra condizione di discepoli in attesa del ritorno del
Signore e a discernere la compagnia di Dio e il volto di Gesù nella meditazione
della Parola e nella nostra vita individuale e comunitaria.
-
si
consiglia la lettura di tutto il cap. 14 di Giovanni e del cap. 16, 16-33.
-
Per
l’azione del Paraclito vd. anche Giovanni 16,13-14 e 1Gv. 2,1-2.
-
Per
la “pace” in Gv. vd. 20,19-26; una prospettiva diversa il Lc. 7.50 e 8.48
in cui l’”andare in pace” è legato alla remissione dei peccati.
|