Introduzione alla lectio
divina di Giovanni 10, 27-30
2
maggio 2004 – IV domenica di Pasqua C
27
Le pecore mie ascoltano la mia voce e io
le conosco ed esse mi seguono; 28
e io do loro la vita eterna e non andranno
mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. 29
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande
di tutti e nessuno può rapire dalla mano del Padre mio. 30
Io e il Padre siamo una cosa sola.
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Quelle
sottolineate sono parole ed espressioni chiave per la meditatio.
Il
testo è breve perché non è che una tessera d’oro, come si addice al gioioso
clima pasquale, tratta però da un
mosaico a tinte forti.
Per rivisitarlo bisogna andare indietro ai capitoli 7 e 8, ambientati a Gerusalemme, nel Tempio, durante la festa autunnale delle Capanne, con le accese discussioni tra un Gesù che si spende nell’annuncio messianico e i giudei che fanno resistenza e accusano. Contesto polemico forte che si prolunga nello stesso ambiente per il cap. 9 sino a 10,21 dispiegandosi in
· episodio del cieco nato (espulso dal tempio dopo la guarigione/conversione)
· parabola enigmatica dell’uscita delle pecore dal “recinto/cortile del tempio”.
Consideriamo intanto che il tema del Tempio
fa da sfondo a tutti questi brani. Peraltro il clima è carico di tensione:
violenza verbale e tentativi di
lapidazione e di arresto da una parte, pathos comunicativo dall’altra: “Perché
non comprendete quello che dico?…..perché non mi credete? …ma voi non volete
venire a me per avere la vita” (8,43.4;
5,40) esclama con forza Gesù.
Sin
qui la posta in gioco è il credere gratuito alla sua missione di Inviato,
di Messia, di Figlio amato[1]. Ma al crescere della rivelazione della sua
identità, fatta lungo questi capitoli per tocchi successivi, ha corrisposto
inevitabilmente una implicazione storica che non è sfuggita agli uomini del
potere: accettare la messianicità del “Galileo” avrebbe comportato lo
svuotamento dell’istituzione. Sin dalla prima Pasqua Gesù si è presentato come
il nuovo Tempio e alla samaritana ha detto: “…né in questo monte, né a
Gerusalemme adorerete il Padre”
(4,21). Da qui la divisione delle persone, lo schisma (10,19) che chiude
la sezione.
Ora
la nostra pericope è situata nel momento successivo, la festa invernale di
Channukà, sempre al Tempio, di cui celebrava la Riconsacrazione
(10,22). E’ l’ultima visita di Gesù a Gerusalemme prima della Pasqua di
passione e l’atmosfera ne anticipa i tratti giudiziari. In folla i dirigenti
giudei lo accerchiano e gli pongono la domanda che sarà il prossimo capo
d’accusa: “Se tu sei il Messia, dillo apertamente”(v. 24). Quello
che appare cambiato è però l’atteggiamento di Gesù, che sente avvicinarsi la
sua ora . Le sue parole ora registrano pacatamente l’insuccesso, il fallimento
comunicativo. Assume il mistero dell’incredulità, riportandolo nel grembo del
Padre. Si arrende allo scacco perseverando nella volontà del dono. E’ la
visione pasquale del seme che, se non muore nella terra, non può dare la vita;
ma che corre il rischio di restare sterile in certi contesti. Però, quanto abbondante
frutto nella terra buona dell’accoglienza!
Così
nei nostri quattro sintetici versetti si dispiega una luminosa visione globale,
il frutto di questa espropriazione di sé, in una profonda contemplazione del
mistero di Dio e del suo progetto. Tutto il clima è cambiato.
Al v.27 lo sguardo si posa su un orizzonte
vicino, sul popolo che si è acquistato (la metafora della pecora è
mantenuta perché dice la nostra radicale inabilità a raggiungere da soli la
meta), sulle sue pecore, amate una per una, che ascoltandone la voce ne
percepiscono l’amore e lo seguono. Anche se tutto questo era stato già
detto prima, con varie sfumature, ora in tre battute vengono disegnate la
radice e la modalità della sequela, nell’adesione fiduciale alla sua persona.
Uno stretto intreccio di possessivi e l’alternarsi ripetuto dei soggetti
mettono a fuoco la relazione intima, profonda, che si instaura tra il Cristo e
i suoi discepoli. E i verbi sono coniugati al presente, in una storia che si
ripete e ci riguarda.
Lo
stacco del v. 28 segnala un nuovo piano. Lo sguardo investe il mistero stesso
della sua incarnazione: lui che è sceso nel tempo e nella carne, ormai fuori
dalla dimensione del tempo trascina i suoi nella pienezza della vita divina
(1,12). Se un altro soggetto malevolo si volesse interporre non vi avrebbe
spazio. Sarebbe un nessuno (8,51).
Il
v.29,[2]
secondo la dinamica propria della contemplazione, ci orienta finalmente al
Padre, in cui si radicano profondamente le creature, dalla sua mano plasmate
(Sl 95,4 ) e nella sua mano conservate. Siamo invitati a sperimentare il suo
amore proprio nell’essere saldamente affidati dalle sue mani stesse a quelle
umane di Cristo.
E
alla fine, vertiginoso, l’ultimo versetto si slancia verso il Mistero
teologico: l’indicibile “io e il Padre siamo una cosa sola”(v. 29).
Una
simile frase non può essere, anche per Gesù, che frutto della contemplazione:
aver messo a fuoco la sua identità con il Padre non nella fusione delle
persone, ma nell’amore provvidente. Ambedue sono una cosa sola nell’amore verso
le creature. Una cosa sola nell’essere-per-loro. La mano provvidente dell’uno è
la mano dell’altro. A partire da questo, ora, la nostra preghiera al Padre si
confonde con quella al Figlio. L’amore per il Padre si confonde con quello per
il Figlio. In Dio non c’è più l’Io sono, ma un Noi siamo. Anche
il nostro Dio è relazione in sé.
Nella
finale della sezione evangelica si raccoglieranno le fila: Gesù davanti
l’ennesimo tentativo di lapidazione si presenterà come il vero consacrato
(v. 36) dal Padre ed uscirà definitivamente dal Tempio (invano
riconsacrato) e dal territorio della Giudea (v.40; cf. 1,11). La sostituzione
dell’istituzione sarà definitiva. La Pasqua di morte e resurrezione e il dono
dello Spirito vivificheranno un mondo
nuovo.
Brani di riferimento:
Is.43,13; Ger 23,1-4; Ez 34,26-31
Gv 1,1-18; Gv 17; Rm 8,33-39; Ap 7,17
[1] “…
noi stessi abbiamo ascoltato e abbiamo capito che questi è veramente il
Salvatore del mondo” (4,42). Così fuori dalla Giudea è stata
tradotta l’attesa del Messia. E il nostro splendido e tragico tempo avverte il
bisogno di un Salvatore? di un Qualcuno
che lo liberi dalla sua miseria e dia senso alla sua ricchezza?
[2] Il testo presenta numerose varianti e può essere tradotto anche con “Il Padre mio, quanto a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti”, oppure: “Ciò che mio Padre mi ha affidato è ciò che importa più di tutto”.