Introduzione alla Lectio divina di Gv 15,1-8 – Domenica 18.05.2003

5^ di Pasqua

 

[1] "Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. [2] Ogni tralcio in me che non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. [3] Voi siete gia mondi, per la parola che vi ho annunziato. [4] Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. [5] Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. [6] Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. [7] Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. [8] In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e siate miei discepoli.

 

*Le parole sottolineate sono parole-chiave per la meditatio

 

Il c.15 di Gv si situa all'interno del lungo discorso di addio (cc.13-17) che l'Evangelista fa pronunciare a Gesù durante l'ultima cena. Gesù spiega il senso del suo movimento di autospogliazione volontaria e indica i percorsi concreti che i discepoli dovranno compiere per rendere presente Colui che va al Padre. Ma i percorsi hanno anche a che fare con l’identità ed è per questo che Gesù rivela anche i discepoli a se stessi. Nel c.15, infatti, essi sono chiamati a cogliere la loro vera identità come identità relazionale ed è soprattutto da questo brano che ogni tentazione individualistica del cristianesimo viene radicalmente contestata. Per compiere questa operazione il testo utilizza la metafora, notissima all'AT, della vigna. La vigna nell'AT era identificata come il popolo di Dio. Il profetismo dell’AT descrive ampiamente i termini della relazione tra Dio e la sua vigna. Si tratta di una relazione vera, sanguigna, fatta di cura, di amore, ma anche di indignazione e di minacciose promesse di abbandono. Un passaggio di Ezechiele risulta particolarmente significativo nella prospettiva del commento al nostro brano giovanneo:

 

[2]"Figlio dell'uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta?

[3]Si adopera forse quel legno per farne un oggetto?
Ci si fa forse un piolo per attaccarci qualcosa?
[4]Ecco, lo si getta sul fuoco a bruciare,
il fuoco ne divora i due capi
e anche il centro è bruciacchiato.
Potrà essere utile a qualche lavoro?
[5]Anche quand'era intatto,
non serviva a niente:
ora, dopo che il fuoco lo ha divorato,
l'ha bruciato,
ci si ricaverà forse qualcosa? (Ez 15,2-5)

“Non serviva a niente”. Si tratta di un’affermazione forte, radicale, capace di far vacillare ogni certezza ed ogni autosufficienza. L’uomo è chiamato a prendere coscienza che la sua vita è priva di senso al di fuori di un orizzonte che gli consente di “portare frutto”.

L'originalità di Gv consiste nell'avere trasformato un soggetto collettivo in una persona: Gesù di Nazareth è la vite, ma quella vera, quella completa, così come il Pastore di Gv 10 diceva di sé di essere quello kalòs, cioè pienamente adatto al suo compito. Come in quel brano, letto domenica scorsa, anche qui il movimento del testo incorpora la vita interiore del discepolo all’interno di una rivelazione teologica che parla del Padre e del Figlio. Dio è individuato come colui che coltiva la vigna e attende. Si tratta di un’attesa piena di speranza.  Il frutto non è certo, eppure il Padre da questo frutto è “glorificato” (v.8). Quale Appello è rivolto al discepolo perché la speranza del Padre trovi compimento?

A questa domanda il testo risponde nei vv.2-7.

La scena del v.2 vede in azione il Padre che si prende cura della sua vite operando sui tralci. L’azione del Padre è di due tipi, a seconda dell’opzione “non portare frutto”/”portare frutto”. Nel primo caso l’azione del Padre è quella di escludere il tralcio dalla vite ovvero di decretarne la sostanziale irrealizzazione della sua vocazione di innesto; nel secondo caso l’azione del Padre è un’azione di potatura, che – com’è noto negli ambienti contadini – è azione dolorosa, di purificazione.  Si tratta di un intervento necessario perché il frutto diventi più abbondante, ed è notevole che nel versetto successivo questa stessa azione sia attribuita alla Parola: “voi siete già potati per la Parola che vi ho annunziato”. Non fa alcuna difficoltà al testo interscambiare Dio con la Parola come soggetti dell’azione di potatura, perché in Gv “il Padre è all’origine di ogni parola pronunciata da Gesù” (Leon Dufour).

E’ a questo punto che entra nella scena del testo il verbo “rimanere”, utilizzato nel nostro brano per ben sette volte. E’ un’esigenza spirituale di permanenza nella fedeltà, ben conosciuta dalle Scritture e ampiamente presente soprattutto nella Prima Lettera di Giovanni.  Qui viene utilizzato il concetto di “rimanere” in forma paradossale, dacché è logicamente incomprensibile che un tralcio possa scegliere di rimanere nella vite. Ma è un paradosso reso necessario dalla libertà che l’Evangelista attribuisce al discepolo. L’imperativo “rimanete in me”, addolcito dalla realtà, che è  anche promessa, che è anche speranza espressa da quel “ed io in voi”, contiene in se stesso la sua inquietudine determinata da una possibile risposta di segno diverso, individuata dal “se”: “se non rimanete in me”. C’è uno spazio di libertà per l’uomo. Se la consapevolezza è quella di una impossibilità di esistenza piena fuori da questa reciproca intimità con la vite (“senza di me non potete far nulla”, sulla linea di Ezechiele), è anche vero che la consapevolezza da sola non è sufficiente a determinare il “rimanere”.

Il testo sembra contenere in se stesso la capacità di proiettarsi al di là dei lettori a lui contemporanei. La spia di questa potenza del testo pare indicata dall’espressione del v.7  “se…le mie parole rimangono in voi”. Nel discorso di Addio il tema della memoria è molto importante (cf. Gv 14,26) ed è legato alla presenza dello Spirito Santo, che al c.16 è individuato come Colui che potrà guidare la comunità dei credenti alla “verità tutta intera” in virtù del fatto che “prenderà del mio e ve lo riannunzierà” (Gv 16,13). Quest’azione dello Spirito sembra potersi ben adattare all’immagine delle parole di Gesù che “rimangono” nei discepoli. E’ questa ruminatio delle parole di Gesù, operata dalla sapiente azione memoriale ed ermeneutica dello Spirito, che consente al tralcio – secondo l’idea forte del nostro brano - non tanto di avere una “relazione” con Gesù, quanto di essere a tal punto trasfigurato dall’interno da poter realizzare una vera e propria comunione dei desideri. E, all’interno di tale comunione dei desideri, la preghiera assume un volto nuovo, unificato e “quel che volete” (v.7) non risulta più distinto e distante dal desiderio di Dio, ma pienamente in comunione con Lui.

 

La fedeltà all’ascolto delle parole di Gesù resta dunque la premessa del portar frutto, ma questo è soltanto un primo movimento del discorso sulla vite, che si spinge fino al v.17. La seconda parte, che analizzeremo la prossima settimana, andrà oltre le condizioni ed i soggetti della relazione fruttuosa che lega i tralci alla vite, per inoltrarsi nella questione del contenuto e dello scopo di tale relazione fruttuosa, questione che per il Quarto Evangelo risulta decisiva per la salvezza di ogni uomo: la questione dell’amore.

 

Brani di riferimento:

Ø      Sulla vigna nell'AT:  Is 5,1-7;  27,2.6; Ger 2,21;  Ez 15,1-8; 17,2-10;  Os 10,1; Sal 80,9-20

Ø      Sulla vigna nel NT:  Mc 12, 1-9;  Mt 20, 1-16;  21, 28-32;  Lc 13,6-9

Ø      Sull’idea del "rimanere": Gv 8,31-32; 1Gv 2,6.10.14.24.27.28;  3,6.9.15.17.24;  4,12-16

Ø      Sull’unità dei credenti in Cristo: Gal 3,27-29