Lectio Divina su Lc 13, 1-9

18 marzo 2001, III domenica di Quaresima

 

[1] In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici.

[2] Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? [3] No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. [4] O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più debitori di tutti gli abitanti di Gerusalemme? [5] No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”.

[6] Disse anche questa parabola: “Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. [7] Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? [8] Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime [9] e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai”.

 

*quelli sottolineati sono termini chiave per la meditatio.

 

Il tempo del cristiano: istruzioni per l’uso. Potrebbe essere questo uno dei possibili titoli del brano di Luca, oggi in lettura.

Il tempo come dono di Dio da vivere, da interpretare nei suoi eventi, da ‘mettere a frutto’.

Il racconto, che non ha riscontri negli altri due sinottici, si colloca in un più ampio contesto narrativo, quello dei capp. 12 e 13, in cui il tema unificante, sviluppato per frammenti, è quello dell’appello alla conversione ed al discernimento dei segni.

 La riflessione che Lc 13,1-9 ci propone si articola in due momenti, distinti sul piano narrativo, ma complementari. Nella prima sezione (1-5) Gesù discute due tragici fatti di cronaca - l’eccidio di alcuni Galilei ad opera di Pilato e il crollo della torre di Sìloe - e lo fa in senso parenetico, esortando cioè alla conversione. La seconda sezione (6-9) sviluppa la parabola del fico sterile che chiude e completa, in toni più distesi e consolanti, il discorso di Gesù.

Dal v.1 al v.5, autentica pars destruhens, si assiste all’energica demolizione, per opera di Gesù, di una accreditata e semplicistica mentalità che tende a commisurare la sciagura subita al peccato commesso. Questa è infatti la prospettiva con cui gli ascoltatori di Gesù leggono le tragedie verificatesi: una sorta di sistematica eliminazione dei peccatori incalliti ad opera di un Dio giustiziere che si servirebbe del dolore, della sofferenza, come strategia punitiva o educativa.

Gesù sta, quindi, inveendo contro una concezione del male come manifestazione e conseguenza diretta dell’ira divina, quasi fulmine scagliato da un novello Giove contro l’uomo che disubbidisce. Concezione, questa, pericolosamente gravida di due atteggiamenti deviati: il primo è l’ipocrita sentirsi ‘a posto’ con Dio; il secondo è il non riconoscere in Dio il volto del Padre misericordioso.

La prima condizione è quella della mentalità farisea che, individuando nella propria felicità e benessere una ricompensa per la propria irreprensibile condotta, conduce alla presunzione di sentirsi al ‘sicuro’ , separati dai fratelli immeritevoli (da notare nel testo la contrapposizione tra ‘quei’ e ‘tutti’ i Galilei). Un Dio con cui, quindi, si potrebbero barattare gioie e dolori, in un do ut des !    

Ma in questo contesto che fine farebbero le vittime della storia? I perseguitati, gli innocenti trucidati, sono forse morti perché peccatori irriducibili? No di certo, sottolinea Gesù. Altro è, infatti, il mistero della morte e del dolore, altro è il volto di Dio.

Un volto da ricercarsi nel Cristo sofferente sulla croce, vittima anch’egli innocente della storia. Ai piedi di quel dolore inchiodato ad un legno, in cui si sperimenta la visibilità della giustizia (salvifica, non punitiva) e della misericordia di Dio, il cristiano è chiamato al mea culpa, perché è lì che Cristo muore “giusto per gli ingiusti” (1 Pt 3,18), muore per i nostri peccati.

Il dolore del mondo, di cui la croce è sintesi gloriosa, coinvolge ogni uomo, lo esorta ad un atto di coscienza, al riconoscimento della propria miseria e debolezza di cui la morte è inesorabile espressione. Fare di questa riconosciuta debolezza una quotidiana occasione di conversione, fare del tempo che ci viene donato una quotidiana occasione di incontro con Dio, è dunque l’appello di Gesù.

Il tempo della nostra vita è infatti un “tempo di grazia”, secondo la felice espressione di A.Louf, il tempo della pazienza di Dio che, da buon pescatore, attende che il cristiano ritorni a Lui (con-vertere ad Deum, per l’appunto!). Paziente come il padrone della vigna che attende i frutti di conversione di un albero pigro che si attarda nella sua sterilità, e che all’immediato abbattimento della pianta preferisce la dilazione, intervenendo sul tempo con la grazia.

Per Dio non ci sono, insomma, ultime chance. Il ritorno è sempre possibile, il tempo come bonus per il portar frutto è sempre rinnovabile. Ma è solo all’interno di questo tempo di conversione  che si dà la salvezza. 

 

 

Brani per la meditatio

-          Sulla giustizia di Dio : Ger, 5, 18; 11, 20; 12, 1; Ez 18, 23;  Rom 6, 15-23.

-          Ira e misericordia: Sal 30,6; Rom 5, 6-11.

-          Sulla conversione: Ez 14, 6; Lc 5, 32; Rom 1, 4

Meditazione su Lc 13,1-9

Lectio divina Esodo 3,1-15