Introduzione
alla Lectio divina di Gv. 1, 29-34
II
domenica del Tempo Ordinario - 16 gennaio 2005
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* Quelle sottolineate sono parole chiave per la meditatio.
Il brano di questa settimana si colloca immediatamente
dopo il prologo (1, 1-18) e la testimonianza resa da Giovanni
il Battista interrogato da sacerdoti e leviti (1, 19-28). Quanto
espresso da Giovanni nel passo immediatamente precedente al nostro brano non è
differente dai modi con cui la sua figura era stata presentata nel periodo di avvento (cfr. Mt 3, 1-12): il suo essere “voce di uno che
grida nel deserto” e che prepara la via del Signore. A chi lo interrogava Giovanni ha affermato di non
essere lui il Cristo ma di dovergli preparare la strada. La sua vita, la sua
opera di battezzatore tra le genti, non è altro che ‘testimonianza’ per un
altro, ‘uno’ che già sta in mezzo a loro, ‘uno’ che
non conoscono, ‘uno’ che viene dopo di lui, ma rispetto al quale egli non è
degno neppure di sciogliere i legacci dei suoi sandali (Gv 1, 25-28).
Così
come in precedenza anche qui Giovanni è presentato come il testimone, ma
differentemente in questo brano non è più soltanto un profeta ma è colui che grazie all’azione delle Spirito ci può rivelare
l’identità di Gesù, passando dall’”io non lo conoscevo” (vss 31 e 33) all’ “io
ho visto”. (vss 32 e 34) a cui richiama anche l’avverbio
“ecco”.
Il
primo tratto dell’identità di Gesù è proprio il suo venire incontro a Giovanni,
il suo movimento verso l’uomo, il suo avvicinarsi per primo: Egli è colui che viene (Is 40, 10). Soltanto allora Giovanni può puntare
il dito verso di lui e gridare agli altri «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie
portando su di sé il peccato del mondo!». E sarà proprio questa affermazione a far sì che nel prosieguo del brano
(vss. 35 -37) i discepoli di Giovanni decidano di seguire Gesù e diventare suoi
discepoli con un’esperienza di Dio che nasce dalla testimonianza e
dall’ascolto.
Il modo con cui Giovanni indica Gesù è una parola che in aramaico può significare sia ‘servo’ che ‘agnello’, fondendo in una sola realtà sia l’immagine del Servo sofferente di cui parla il profeta Isaia (Is 42,1 «Ecco il mio Servo che io sostengo, il mio eletto») sia quella dell’”agnello pasquale” simbolo della redenzione di Israele (1 Cor 5, 7; 1 Pt 1, 18-20).
Ed è necessaria questa duplice
interpretazione semantica della parola per cogliere appieno l’opera salvifica
di Gesù. Infatti il Servo di Isaia ‘si addossa i
peccati’, li ‘porta’ ma non li toglie come Giovanni dice qui di Gesù. L’azione
dell’eliminazione del peccato, che viene ‘sollevato
sulle spalle’ e distrutto nella morte, è propria dell’ “agnello pasquale”
dell’Esodo (Es 12,1). Per l’evangelista è dunque necessaria una lettura
pasquale per comprendere la profondità del mistero di Gesù e rivelarne la sua
missione.
Tuttavia Gesù va oltre il simbolismo dell’agnello perché
la sua morte in croce elimina non una molteplicità di ‘peccati’, ma ‘il
peccato’: non distrugge, cioè, una pluralità di azioni
peccaminose commesse dagli uomini nel mondo, ma ne annienta alle radici la
stessa causa, ovvero la ‘condizione’ di essere tutti peccatori a seguito del
distacco da Dio (1 Gv 3,4), mettendo fine al dominio del peccato. In questa
vittoria sul peccato e sulla morte, conseguenza del primo, Gesù è anche
l’agnello vittorioso dell’Apocalisse, ‘sgozzato’ ma
‘ritto in piedi’ (Ap 5,9-12) perché risorto e vivente: vittorioso sul male egli
porta ancora su di sé i segni della croce.
Egli, pur venendo ‘dietro’ a Giovanni,
manifestandosi solo dopo di lui, in realtà lo precede non solo in forza - è più
grande del Battista - ma anche nel tempo, perché esisteva già prima della
creazione del mondo. Gesù è incarnazione di quel Verbo, di quella
Parola, che «In principio…era presso Dio» (Gv 1,1 ss): nella sua persona storica l’eternità di Dio ha
fatto irruzione nel tempo dell’uomo; la luce si è rivestita di carne per
«venire ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Differentemente dai vangeli sinottici, in questo brano il contesto del Battesimo di Gesù non viene raccontato e non è più la voce di Dio che, squarciando il cielo, attesta che Gesù è il suo Figlio diletto (cfr. Mt 3, 17; Mc 1, 11; Lc 3, 22), ma quella di Giovanni. La sua testimonianza, pur provenendo dall’alto, si fonda comunque su un’esperienza personale, su quell’ «Io ho visto », che viene ripetuto due volte, e procede dall’azione dello Spirito che scende su Gesù e su lui rimane. Rispetto al racconto dei sinottici, soltanto qui si rileva che lo Spirito restò su Gesù. Questo ‘possesso dello Spirito’ è la caratteristica definitiva del Messia (cfr. Is. 11,2): Gesù possiede lo Spirito e ne fa dono ad altri nel battesimo, lo effonderà dopo la sua morte a consolare gli uomini in attesa della sua nuova venuta (Gv 14,16; 20,22).
Tutto il brano è incorniciato nella designazione di Gesù
come “l’Agnello” e come il “Figlio di Dio” che sintetizzano il contenuto della
testimonianza di Giovanni che attraverso lo Spirito riconosce il mistero divino
nell’uomo Gesù. E’proprio l’accoglienza della fede che
trasforma il credente nel suo essere. Come il Battista che
pur non comprendendo appieno la realtà divina non esita a rendere testimonianza,
passando attraverso lo Spirito dal non-conoscere (vss. 31 e 33)
all’annuncio della Parola divina.