Lectio Divina di Mt 28, 16-20 – Domenica 15.06.2003

SS. Trinità

 

16 Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte dove Gesù aveva loro ordinato 17 e, quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitarono. 18 E, avvicinatosi, Gesù parlò loro dicendo: “Mi è stata data ogni autorità in cielo e sulla terra. 19 Andate dunque e rendete discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20 insegnando loro a custodire tutto quanto vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento del tempo”.

*Le parole sottolineate sono parole-chiave per la meditatio.

 

Il passo è stato definito come il ‘manifesto’ di Matteo, perché rivela più una sintesi teologica dell’evangelista piuttosto che un resoconto effettivo di un’apparizione del Cristo. Lo stile è molto solenne, il discorso di Gesù ha i tratti della definitività. Protagonista indiscusso è proprio il Signore che si avvicina e parla. I discepoli, rimasti in undici senza Giuda, fanno, dal canto loro, la propria parte. Vanno. Fidandosi dell’indicazione riferita dalle donne dopo l’incontro con l’angelo (MT 28,7), si recano infatti in Galilea sul monte stabilito da Gesù. Interessante la notazione geografica: il monte è tradizionalmente il luogo della Rivelazione di Dio, mentre la Galilea era una regione che godeva di brutta fama (Is 8, 23 riletto anche da Mt 4,15). Se gli altri evangelisti parlano più ‘logicamente’ di apparizioni a Gerusalemme, Matteo sottolinea l’universalità dell’Evento. La Galilea è il mondo (e l’accento sulla dimensione universale è posto anche dall’insistenza martellante dell’aggettivo ‘tutto’).

La Fede passa qui attraverso la vista: appena lo videro si prostrarono, come si faceva con i Re, con le massime autorità riconosciute. Ma la vista non sempre basta: il dubbio sembra costitutivo dell’uomo. Si annida lì dove non dovrebbe e la notazione quasi disturba un quadro così lineare. Ma Gesù, che conosce il cuore dell’uomo, che ha sperimentato debolezze e tradimenti dalle persone più care, rischia ancora una volta e affida anche ai dubbiosi un incarico da far tremare i polsi. D’altronde, il fondamento della missione non è radicato nelle qualità personali degli incaricati, ma si basa sull’autorità assoluta di Gesù stesso. ‘In cielo e in terra’ è una formula per intendere ‘su tutto il creato’. Su questa assolutezza del potere del Signore i discepoli possono dunque farsi missionari ed evangelizzatori. Ma qual è il fine di questi missionari? ‘Fare discepoli’ è espresso nel testo originale con un verbo che ha la radice di ‘imparare’, ‘diventare allievo’: è un insegnare ad imparare, cioè ad Ascoltare e a Custodire le Parole del Maestro. Non sono i missionari che hanno parole proprie da impartire, insegnamenti più o meno dotti da elargire. D’altronde, come ci è stato ricordato in questi giorni, il missionario non è che “un mendicante che va a dire a un altro mendicante dove ha trovato qualcosa da mangiare” (Don Tonino Bello). Il tratto è quello umile e mite di Gesù, che nulla toglie alla fermezza interiore della Fede.

Lo scopo, alla fine, è la felicità: Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te… (Dt 4,39-40: è la I Lettura di domenica prossima).

Questa condivisione di felicità che è lo spezzare insieme la Parola, è messa in moto dal nostro Dio, che già per gli Ebrei era il Dio della relazione, della compagnia, l’Essere Con che imprime dinamismo alla Storia e a ogni piccola storia umana. E condividere la Parola è un gesto liturgico, come ci ricorda Paolo: Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo… (Rm 1,9).

Ora, Cristo ci garantisce in ogni momento questa presenza costante e rassicurante: la Shekhinà, il dimorare di Dio è adesso dovunque ci sia un Cristiano. E’ in virtù di questo che possiamo intendere la nostra vita stessa come una continua Liturgia. Infatti, “il cristiano è sempre e dovunque in stato di culto. Questa qualifica altissima ha la sua origine nel Battesimo, viene continuamente attivata dalla celebrazione della Cena, è veicolata dall’azione dello Spirito”. Ma, occorre fare attenzione a un dato fondamentale: “La celebrazione eucaristica esplica tutta la sua potenzialità di azione quando è messa in contatto con la vita. Questa, a sua volta, diventa un culto senza soluzione di continuità quando è vitalizzata dalla celebrazione e animata dallo Spirito. E questa vita di culto, che la celebrazione rende possibile, porta il cristiano, sotto il profilo individuale e comunitario, in un rapporto strettissimo con Dio e in atteggiamento di testimonianza, di apertura e di condivisione verso tutti gli uomini” (Vanni).

Con Gesù tutta la nostra vita è ormai trasfigurata. Ma poiché non viviamo stando a guardare il cielo, bensì immersi nella vita concreta, che è fatta di relazioni, eventi, incontri, il nostro vivere con Cristo è un “rivivere in ciascuno dei nostri cammini il cammino del vangelo e percepirne l’adempimento già realizzatosi nelle nostre comunità, dilacerate come era quella dei discepoli” (Radermakers). Nonostante le inevitabili incomprensioni, distanze, disillusioni -insiste il teologo- occorre sempre fare memoria del fatto che “l’angelo del Signore è presente in ogni comunità adunata nel nome del Signore risuscitato: egli …spiega al credente il senso di tutti gli avvenimenti della sua vita. Ci libera dalla paura e ci ripone sul cammino della nostra vita concreta, la nostra Galilea, dove Gesù ci viene incontro”.

 

 

 

Brani di riferimento (oltre a quelli già citati):

 

Ø      Sul potere in cielo e in terra del ‘figlio di uomo’: Dn 7,14.

Ø      Sulla liturgia della vita in Paolo: Rm 12,1-2.

Ø      Io sono con voi: Ag 1,13; Mt 1,23.

Ø      ‘Discepoli’ secondo Matteo: 10,24-25; 10,37-38; 16,24-26; 19,27-28; 23,8ss.