Introduzione
alla lectio di Mc 10, 17-30
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ottobre 2003 - XXVIII domenica del tempo ordinario
[17] Mentre riprendeva la via, un tale, correndo ed inginocchiandosi dinanzi a lui, lo interrogava: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». [18] Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. [19] Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora il padre e la madre». [20] Egli allora gli disse: «Maestro, tutto questo l’ho custodito sin dalla mia giovinezza». [21] Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa ti manca: và, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». [22] Ma egli, oscuratosi in volto per la parola, se ne andò rattristato, poiché aveva molti beni. [23] Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!». [24] I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: «Figlioli, com'è difficile entrare nel regno di Dio! [25] È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». [26] Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: «E chi mai si può salvare?». [27] Ma Gesù, guardandoli, disse: «Impossibile per gli uomini, ma non per Dio; perché tutto è possibile per Dio». [28] Pietro allora gli disse: «Ecco, noi abbiamo
lasciato tutto e ti abbiamo seguito». [29] Gesù gli rispose: «In
verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o
sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo,
[30] che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli
e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel tempo
che viene la vita eterna. |
Gesù,
nel suo rimettersi in viaggio verso Gerusalemme (lett. nella strada; per un
certo tempo, i primi cristiani si daranno il nome di “quelli della strada”),
nel cammino che lo porterà a fare la volontà del Padre in pienezza, è sorpreso
da un tale che gli si para innanzi in modo tanto spettacolare, quanto
devoto, per porgli una domanda non da poco: cosa fare per ereditare la vita
eterna? Se ci pensiamo bene, a parte il fatto che essa viene posta da un pio
ebreo, questa domanda è una domanda che coinvolge profondamente il senso
dell’esistenza, che potrebbe trovarsi benissimo sulla bocca di un non credente:
come fare a sconfiggere la morte e ad ottenere che la vita che stiamo vivendo
possa proseguire, così com’è, per sempre? È anche una domanda etica, in quanto
è rivolta a capire “cosa fare” ed è destinata ad un maestro ritenuto “buono”
(teniamo conto che il bene per la cultura ebraica non è un concetto astratto,
ma è un valore strettamente legato all’agire concreto; appellare qualcuno come
buono significava dire che costui operava il bene, che faceva cose buone).
Gesù
risponde subito, rigettando via da sé ogni etichetta di uomo “capace” in sé di
cose buone con una parola che può essere intesa a più livelli: qui non siamo di
fronte all’umile schernirsi di fronte ad un complimento imbarazzante, ma
piuttosto – analogamente a quanto espresso nel brano sul ripudio – c’è uno
sforzo per ricondurre l’interlocutore all’in principio, per non fargli
dimenticare la realtà creaturale e relazionale nella quale noi tutti siamo
immersi. Solo Dio, proprio quel Dio creatore che ha fatto tutto l’universo con
la sua parola (“e Dio disse”), considerandolo “cosa buona” (Gn 1,25), è
degno di essere chiamato buono. Ed ogni uomo è capace di operare il bene nella
misura in cui è capace di Dio.
E
la risposta del Signore, oltre ad inquadrare in modo nuovo l’idea di bontà che l’epiteto
affibbiato portava con sé, va avanti ed entra anche nel merito della esigenza
che spingeva questo sconosciuto a rivolgersi ad un maestro di vita. Conosci
i comandamenti (v.19). Gesù capisce benissimo di trovarsi di fronte ad un
bisogno profondamente umano, comune a tutti, credenti e non, e parla da maestro
di vita, rimanendo ancora ad un livello generale, ma iniziando un percorso che
porterà pian piano alla vocazione. Egli, infatti, si limita a richiamare i
comandamenti, solo quelli relativi ai comportamenti nei rapporti tra uomini (il
brano parallelo in Mt presenta, al posto del “non frodare”, introdotto
da Marco, “Amerai il prossimo tuo come te stesso”), forse i più
rivelativi del male che c’è nell’uomo. E offre un’indicazione importante per
l’universalità degli uomini: la via per la vita eterna passa anche attraverso
questi principi.
Ma
all’uomo del racconto ciò non basta, ha bisogno di qualcosa di più ed offre una
risposta splendida che forse giustifica lo sguardo d’amore da parte del
Signore. Egli ha custodito (non solo acriticamente osservato) tutto ciò
sin dalla giovinezza, nel suo cuore ha fatto spazio alla ricerca del senso
della vita, ricercandolo nell’osservanza della legge e dei suoi principi etici,
ma alla fine non l’ha trovato. Molti commentatori hanno avuto in antipatia
questo sconosciuto, ritenuto sbrigativamente un po’ arrogante (nel Vangelo
dei nazirei, il Signore addirittura rimprovera la presunzione di questo
ricco che afferma di aver osservato la legge), ma non lo ha ritenuto antipatico
Gesù, che fissa su di lui il suo sguardo amante. Lo sconosciuto fa - in questo
sguardo - esperienza diretta dell’amore di Dio (chi vede me, vede colui che
mi ha mandato; Gv 12,44) e lì nasce immediatamente la vocazione, “seguimi”,
la chiamata a seguire non più un maestro di vita, ma colui che rivela l’amore
di Dio. L’esperienza d’amore, la chiamata, l’invito a rinunciare a tutto (vendi
tutto quello che hai e dallo ai poveri), per avere tutto (avrai un
tesoro in cielo), svelano però il dramma umano di quest’uomo che, pur da
credente, è alla ricerca di una vita eterna senza accorgersi che ciò che cerca
è il Regno di Dio.
Non
sorprende che il ricco credente si ponesse il problema della morte, “nella
morte noi veniamo a trovarci di fronte alla grande povertà della nostra
natura…dove l’uomo sfugge di mano a sé stesso, è rapito interamente a sé stesso”
(J.B. Metz, Povertà nello spirito, p. 60) e Gesù lo invita a ritornare
creatura, a non credere alla risposta fornita dalle cose buone (il denaro ed i
beni, in primo luogo, ma anche, in fondo, i rapporti umani; v. Lc 9,57-62; Mt
8, 19-22), ma ad abbandonarsi interamente a Colui che fa le cose buone. Il
ricco, il quale identificava la sua felicità in una vita che non finisce mai,
rifiuta però la chiamata verso il Regno dei cieli e se ne va oscurato in volto,
infelice nel profondo. Non è capace di quest’abbandono semplice alla Parola.
La reazione
dei discepoli, che comprendono bene il senso del discorso sulle ricchezze, è lo
sbigottimento. Chi può salvarsi? (v.26). Comprendono che la salvezza si
gioca nel cuore dell’uomo, un cuore pieno di tante umane sicurezze, piuttosto
che di Dio. Ma Gesù rimanda ancora una volte all’unico vero Potente. Anche se
Pietro proverà a tornare alla logica da sacrestia della salvezza in cassaforte,
svelando che la vita così com’è, con gioie, ricchezze ed affetti non era un
desiderio accarezzato solo dal ricco sconosciuto, il Signore invita con forza a
cercare in primo luogo il Regno dei cieli, non la vita eterna. Tutto il resto,
anche la vita eterna diventerà così un grande dono di Dio.