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* Quelle sottolineate
sono parole ed espressioni chiave per la meditatio
Il
lettore che si accosta a questo brano è chiamato a non perdere di vista il suo
contesto interno all’Evangelo di Gv ed il suo sfondo biblico. Nel c. 9 del IV Evangelo,
Gesù ridà la vista ad un cieco, e questo genera una polemica con i farisei.
Essi infatti credono di vedere, ma in realtà sono ciechi. Si è rimandati ad una
"vista" diversa, di tipo spirituale. A chi è consentita questa
facoltà visiva tutta interiore? Il capitolo 10 risponde a questa domanda
facendo scaturire questa facoltà visiva da una Relazione con una figura, quella
del Pastore, non ignota agli uditori di Gesù e ai lettori di Giovanni. Nei
primi dieci versetti, Gesù descrive l'azione del pastore tenendo soprattutto a
connotarla come azione protettiva nei confronti delle pecore, sulla
linea dell’AT. Ma nella conclusione di questa prima parte del discorso Gesù
afferma chiaramente di essere egli stesso la "porta" del recinto
delle pecore. Alle pecore si accede attraverso Gesù: ogni altra strada è
abusiva. Per quel che riguarda lo sfondo biblico, sia l’AT che il NT usano
ampiamente l’immagine pastorale per delineare la relazione tra Israele e Dio. I
brani di riferimento in calce al commento ne danno ampio ragguaglio, ma è
raccomandabile la lettura attenta di Ez 34, ne che costituisce un po’ la
ricapitolazione.
Se
nei vv.1-10 l’immagine del pastore si era mantenuta su un piano generale, a
partire dal v.11 Gesù attribuisce a se stesso anche il ruolo di unico Pastore,
autodefinendosi come kalòs, “bello”, nel senso biblico di “pienamente
adatto alla sua funzione”. Tre sono gli elementi che caratterizzano la sua
relazione con le pecore: la messa in gioco della vita, la conoscenza
ed il potere di raduno. Esamineremo questi tre livelli tematici prima di
tentare uno schizzo di percorso spirituale.
La
messa in gioco della vita. Il verbo greco che si ripete nel testo per
cinque volte è tithemi, letteralmente “porre”. Problematica ne risulta
la traduzione, che qui è stata resa con “deporre”. Al di là delle possibili
scelte (offrire la vita, esporre la vita, dare la vita ecc.), si può convenire
sul fatto che l’azione qui indicata è quella del considerare la propria vita,
da parte di Gesù, come qualcosa cui non si è abbarbicati (cf. Gv 12,25), ma che
si può mettere in gioco, esporre per una causa che si ritiene più alta della
vita stessa. Questa causa sono, appunto, le pecore. Questa è la più grande
novità rappresentata dal testo giovanneo rispetto alla tradizione
veterotestamentaria. Il pastore che nell’AT cercava, curava, custodiva, radunava,
pascolava le pecore, qui si spinge a posporre la propria vita alla salvezza
delle pecore stesse. Ciò lo distingue dal mercenario, che invece pospone le
pecore alla propria vita. Più avanti si dice che questo movimento di
autospogliazione è del tutto libero, nel senso di una libera adesione ad un
“comando” (v.18). L’atto di amore nei confronti delle pecore non è che
obbedienza d’amore ad un invito del Padre, che per questo ama (greco agape)
il Figlio. Differentemente dalla tradizione paolina e sinottica (cf. Rm 10,9;
1Ts 1,10), il “riprendere la vita” non è determinato dal Padre, ma da Gesù
stesso, che “ha il potere di deporla e il potere di riprenderla di nuovo”
(v.18).
La conoscenza. Biblicamente
“conoscere” indica intimità profonda e comunione di esistenze. Non casualmente il
movimento dell'intimità profonda, dell'agape, parte da Gesù verso le pecore ed
è modellato dal movimento che dal Padre va a Gesù: l'iniziativa prima è del
Padre. Ogni pecora è tale in quanto è conosciuta. Il suo percorso di
autoconsapevolezza sta in questa sempre crescente percezione dell'energia
agapica che si sprigiona in lei e che le consente quella vista spirituale
inaccessibile al fariseo.
Il
potere di raduno. Indubbiamente, quando il testo accenna
alle “altre pecore”, si fa riferimento ad un tema caro al NT, qui sintetizzato
da Ef 2,14-16:
[14]Egli infatti è
la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro
di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, [15]annullando, per mezzo
della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se
stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, [16] e per riconciliare
tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se
stesso l'inimicizia. [17] Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che
eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. [18]Per mezzo di lui possiamo
presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.
Il
v.16 è la transizione al futuro, il futuro ecclesiale. La Chiesa, ekklesìa,
popolo di chiamati, di convocati, è delineata rapidamente attraverso tre
modalità di relazione con il suo Pastore: la sequela ("devo
condurre"), l'ascolto ("mi ascolteranno") e l'unità
("diventeranno un solo gregge e un solo pastore"). Si tratta di un
programma ecclesiologico che si commenta da sé e di un chiaro invito ai
fondamenti che costituiscono ogni comunità cristiana. Notazione importante:
diventeranno un solo pastore. Il pastore buono, caduto in terra come il
chicco di grano di Gv 12, resosi assente dopo la Risurrezione, è presente
nel suo gregge. E' presente nell'attitudine del suo gregge al discepolato,
all'ascolto e all'agape fraterna. La relazione tra Gesù e il
Padre costituisce il modello di questo movimento di amore che lega Gesù alle
pecore. Le pecore da sé non sono in grado di amare. Il maestro dell'agape è
Gesù: "Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita
per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli"(1Gv
3,16).
Un
buon avvio di meditazione può trarre le mosse da una particolare attenzione
alla “voce” (v.16). In fondo, è la capacità di ascoltare una voce che determina
il triplice movimento spirituale che il testo suggerisce: l’appartenenza (vv.
11-13), il riconoscimento (vv.14-15), l’ascolto nella comunione (v.16). E’ come
se il ritmo del testo segnasse una progressione spirituale che va dalla
consapevolezza di non essere gettati e abbandonati all’esistenza e, quindi, di
appartenere ad una Presenza, alla capacità di ri-conoscere i contorni di questa
Presenza, alla fedeltà nel mantenere, attraverso l’ascolto, la relazione con
questa Presenza e di farlo non come soggetti individuali ma come popolo:
“diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (v.16). E’ notevole che tutto
ciò si generi da una voce, cioè da un parlare. E’ la voce a nutrire le pecore,
ma non basterebbe a radunarle, se questa voce fosse soltanto puro suono. Mentre
parla, il Pastore depone la vita. Meglio: il deporre la vita è il suo parlare.
La scissione tra parole e vita che connota gli umani fin dalla nascita è
ricomposta nel Cristo-chicco di grano che non esita a morire per “produrre
molto frutto” (Gv 12,24).
Brani di riferimento :