Introduzione alla lectio divina di Gv 10,11-18 – Domenica 11.05.2003

IV^ di Pasqua

 

[11] “Io sono il buon pastore. Il buon pastore depone la vita per le pecore. [12] Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; [13] egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. [14] Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, [15] come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e depongo la vita per le pecore. [16] E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. [17] Per questo il Padre mi ama: perché depongo la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. [18] Nessuno me la toglie, ma la depongo da me stesso, poiché ho il potere di deporla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio".

 

* Quelle sottolineate sono parole ed espressioni chiave per la meditatio

 

Il lettore che si accosta a questo brano è chiamato a non perdere di vista il suo contesto interno all’Evangelo di Gv ed il suo sfondo biblico. Nel c. 9 del IV Evangelo, Gesù ridà la vista ad un cieco, e questo genera una polemica con i farisei. Essi infatti credono di vedere, ma in realtà sono ciechi. Si è rimandati ad una "vista" diversa, di tipo spirituale. A chi è consentita questa facoltà visiva tutta interiore? Il capitolo 10 risponde a questa domanda facendo scaturire questa facoltà visiva da una Relazione con una figura, quella del Pastore, non ignota agli uditori di Gesù e ai lettori di Giovanni. Nei primi dieci versetti, Gesù descrive l'azione del pastore tenendo soprattutto a connotarla come azione protettiva nei confronti delle pecore, sulla linea dell’AT. Ma nella conclusione di questa prima parte del discorso Gesù afferma chiaramente di essere egli stesso la "porta" del recinto delle pecore. Alle pecore si accede attraverso Gesù: ogni altra strada è abusiva. Per quel che riguarda lo sfondo biblico, sia l’AT che il NT usano ampiamente l’immagine pastorale per delineare la relazione tra Israele e Dio. I brani di riferimento in calce al commento ne danno ampio ragguaglio, ma è raccomandabile la lettura attenta di Ez 34, ne che costituisce un po’ la ricapitolazione.

Se nei vv.1-10 l’immagine del pastore si era mantenuta su un piano generale, a partire dal v.11 Gesù attribuisce a se stesso anche il ruolo di unico Pastore, autodefinendosi come kalòs, “bello”, nel senso biblico di “pienamente adatto alla sua funzione”. Tre sono gli elementi che caratterizzano la sua relazione con le pecore: la messa in gioco della vita, la conoscenza ed il potere di raduno. Esamineremo questi tre livelli tematici prima di tentare uno schizzo di percorso spirituale.

La messa in gioco della vita. Il verbo greco che si ripete nel testo per cinque volte è tithemi, letteralmente “porre”. Problematica ne risulta la traduzione, che qui è stata resa con “deporre”. Al di là delle possibili scelte (offrire la vita, esporre la vita, dare la vita ecc.), si può convenire sul fatto che l’azione qui indicata è quella del considerare la propria vita, da parte di Gesù, come qualcosa cui non si è abbarbicati (cf. Gv 12,25), ma che si può mettere in gioco, esporre per una causa che si ritiene più alta della vita stessa. Questa causa sono, appunto, le pecore. Questa è la più grande novità rappresentata dal testo giovanneo rispetto alla tradizione veterotestamentaria. Il pastore che nell’AT cercava, curava, custodiva, radunava, pascolava le pecore, qui si spinge a posporre la propria vita alla salvezza delle pecore stesse. Ciò lo distingue dal mercenario, che invece pospone le pecore alla propria vita. Più avanti si dice che questo movimento di autospogliazione è del tutto libero, nel senso di una libera adesione ad un “comando” (v.18). L’atto di amore nei confronti delle pecore non è che obbedienza d’amore ad un invito del Padre, che per questo ama (greco agape) il Figlio. Differentemente dalla tradizione paolina e sinottica (cf. Rm 10,9; 1Ts 1,10), il “riprendere la vita” non è determinato dal Padre, ma da Gesù stesso, che “ha il potere di deporla e il potere di riprenderla di nuovo” (v.18).

 La conoscenza. Biblicamente “conoscere” indica intimità profonda e comunione di esistenze. Non casualmente il movimento dell'intimità profonda, dell'agape, parte da Gesù verso le pecore ed è modellato dal movimento che dal Padre va a Gesù: l'iniziativa prima è del Padre. Ogni pecora è tale in quanto è conosciuta. Il suo percorso di autoconsapevolezza sta in questa sempre crescente percezione dell'energia agapica che si sprigiona in lei e che le consente quella vista spirituale inaccessibile al fariseo.

Il potere di raduno. Indubbiamente, quando il testo accenna alle “altre pecore”, si fa riferimento ad un tema caro al NT, qui sintetizzato da Ef 2,14-16:

 

[14]Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, [15]annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, [16] e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. [17] Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. [18]Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.

 

Il v.16 è la transizione al futuro, il futuro ecclesiale. La Chiesa, ekklesìa, popolo di chiamati, di convocati, è delineata rapidamente attraverso tre modalità di relazione con il suo Pastore: la sequela ("devo condurre"), l'ascolto ("mi ascolteranno") e l'unità ("diventeranno un solo gregge e un solo pastore"). Si tratta di un programma ecclesiologico che si commenta da sé e di un chiaro invito ai fondamenti che costituiscono ogni comunità cristiana. Notazione importante: diventeranno un solo pastore. Il pastore buono, caduto in terra come il chicco di grano di Gv 12, resosi assente dopo la Risurrezione, è presente nel suo gregge. E' presente nell'attitudine del suo gregge al discepolato, all'ascolto e all'agape fraterna. La relazione tra Gesù e il Padre costituisce il modello di questo movimento di amore che lega Gesù alle pecore. Le pecore da sé non sono in grado di amare. Il maestro dell'agape è Gesù: "Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli"(1Gv 3,16).

 

Un buon avvio di meditazione può trarre le mosse da una particolare attenzione alla “voce” (v.16). In fondo, è la capacità di ascoltare una voce che determina il triplice movimento spirituale che il testo suggerisce: l’appartenenza (vv. 11-13), il riconoscimento (vv.14-15), l’ascolto nella comunione (v.16). E’ come se il ritmo del testo segnasse una progressione spirituale che va dalla consapevolezza di non essere gettati e abbandonati all’esistenza e, quindi, di appartenere ad una Presenza, alla capacità di ri-conoscere i contorni di questa Presenza, alla fedeltà nel mantenere, attraverso l’ascolto, la relazione con questa Presenza e di farlo non come soggetti individuali ma come popolo: “diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (v.16). E’ notevole che tutto ciò si generi da una voce, cioè da un parlare. E’ la voce a nutrire le pecore, ma non basterebbe a radunarle, se questa voce fosse soltanto puro suono. Mentre parla, il Pastore depone la vita. Meglio: il deporre la vita è il suo parlare. La scissione tra parole e vita che connota gli umani fin dalla nascita è ricomposta nel Cristo-chicco di grano che non esita a morire per “produrre molto frutto” (Gv 12,24). 

 

Brani di riferimento   :