Introduzione alla lectio divina su Gv
14,15-21
domenica 1 maggio 2005 – VI di Pasqua
[15] Se
mi amate, osserverete i miei comandamenti. [16] E io pregherò
il Padre e vi darà un altro Paraclito, affinché sia con voi in eterno,
[17] lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, poiché
non lo vede né lo conosce. Voi lo conoscete, poiché rimane presso
di voi e sarà in voi. [18] Non vi lascerò orfani; vengo a voi. [19]
Ancora un poco e il mondo non mi vede più; ma voi mi vedete, poiché
io vivo e voi vivrete. [20] In quel giorno, voi saprete che io sono
nel Padre mio, e voi in me e io in voi. [21] Chi custodisce
(lett.: chi ha) i miei comandamenti e li osserva, quegli
è colui che mi ama; ma chi ama me, sarà amato dal Padre mio, anch’io
lo amerò e gli manifesterò me stesso. |
Il
brano va letto all’interno della profonda unità del c. 14 del vangelo di
Giovanni e quest’ultimo all’interno della più grande unità del discorso di
addio che Gesù rivolge ai discepoli nei cc. 13-17.
L’apertura
del nostro brano rinvia al Deuteronomio. La coppia amare/osservare, infatti,
rappresenta lo schema fondamentale dell’Alleanza ed è una coppia indissolubile.
Osservare i comandamenti, infatti, è possibile a partire da una relazione di
profonda intimità col Signore. Un’interpretazione dell’osservanza dei
comandamenti a prescindere dall’unico comandamento dell’amore porterebbe
fatalmente ad un’interpretazione del cristianesimo in senso morale, ciò che è
escluso dall’impostazione giovannea.
Si
tratta di un’energia d’amore donata. E’ evidente, qui come in altri
passi di Gv, che il credente è abilitato ad amare da un’iniziativa di Gesù
stesso, che è un’iniziativa di preghiera: io pregherò il Padre (v.16). E’ la preghiera
di Gesù che incorpora il credente in un contesto d’amore trinitario, dal
momento che immette nella comunità dei discepoli una presenza particolare che
il testo definisce Paraclito, ovvero colui che “sta accanto” per difendere.
Quest’azione
di difesa operata dal Paraclito è un’azione possibile da un lato perché la vita
del credente si situa in un contesto in cui sono forti le tendenze umane
all’autosufficienza. Gli uomini tendono a fare a meno di Dio, a ritenere che
non ci sia nulla da salvare. Gli uomini tendono a ritenere che la loro vita sia
una vita di progetto e di autorealizzazione. Sostanzialmente quindi una vita
che rinuncia alla profondità. Che rinuncia a prendere atto del profondissimo
bisogno di essere amati, perdonati e salvati che c’è in ogni uomo. Questa
tendenza all’autosufficienza Giovanni la chiama “mondo”. Una “mondanità”
esistenziale che non può ricevere lo Spirito perché non è in grado di trarne
beneficio: il mondo non vede e non conosce lo Spirito. Il mondo tende a
convincere i credenti che non c’è nulla da salvare. Da questa tentazione
fondamentale il Paraclito difende il credente.
Ma
quest’azione di difesa, si diceva, è anche possibile perché il credente è
disponibile a farsi abitare dal Paraclito: dimora presso di voi e sarà
in voi (v.17). Com’è possibile ciò?
La risposta a questa domanda rinvia ancora
una volta a Gesù, vero motore di questa dinamica trinitaria. Il Paraclito,
infatti, è individuato come “un altro” (v.16), proprio in riferimento a Gesù.
E’ cioè la relazione con Gesù, scandita dalla coppia amare/osservare – che
infatti ritorna al v.21 -, che rende possibile una continuità di presenza dello
stesso Gesù nella comunità dei credenti. Il Paraclito è proprio questa
continuità di presenza, di vicinanza, di inabitazione.
Questa
presenza interiore non è strumentale rispetto all’amore del Padre, non è “in
vista” dell’amore del Padre, come se fosse preparatoria ad una relazione col
Padre che deve ancora venire, secondo la prospettiva suggerita dalla domanda di
Filippo al v.8 (“Mostraci il Padre e ci basta”). Questa presenza interiore – la
presenza dello Spirito -, presenza che fa aprire le Scritture, che innesta la
vita interiore in Cristo, che radica il credente nella Parola di Gesù, questa
presenza interiore è già amore del Padre per il discepolo.
Il
discepolo può solo prenderne atto, in quel “voi saprete” (v.20). Cosa c’è da
“sapere”? C’è da sapere che il baricentro della vita di un credente é fuori da
sé. Dire “io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (v.20) - e quindi ribadire
un “in voi” che si era già visto al v.17 - vuol dire essenzialmente che la vita
interiore profonda di un credente è vita abitata. Abitata da un’energia
d’amore pronta ad esplodere in orizzontale (Gv 13,34-35) e in verticale nella
consapevolezza, tipicamente giovannea, che solo amare è vivere. L’ultimo
elemento concettuale da evidenziare, infatti, in aggiunta all’amare, al vedere
e al sapere che percorrono il nostro brano, è proprio quello del
“vivere”: io vivo e voi vivrete (v.19). La vita del credente è vita nello
Spirito non perché prende le distanze dalla storia, ma, al contrario, perché
prende talmente sul serio la storia da non farsi sedurre dalla tentazione di
una religiosità spiritualista.
Non
c’è nessuna legittimazione giovannea dello spiritualismo, perché dire Paraclito
significa dire Gesù vivo e ben presente nella storia di ogni credente.
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Amare e osservare:
Dt 5,10;
6,4-9; 10,12-13; 11,13.22;
Sap 6,18-19.
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Lo Spirito:
Gv 16,7-15; Mt 10,19-20; Rm 8,26-27;
1Gv 4,1-6; 2Gv 1,1-2.
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Essere amati dal Padre:
Sir 4,14; Gv 16,26-27; 17,26.