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*Le
parole sottolineate sono parole-chiave per la meditatio
Il brano che la liturgia della prima domenica del
tempo di Avvento ci presenta è un brano “ponte”.
Nella struttura del vangelo di Marco (evangelista
che da questa domenica ricominceremo ad apprezzare per tutto l’anno A) esso fa,
infatti, da tramite tra il cd. discorso escatologico di Gesù e la
successiva narrazione della morte e resurrezione del Signore.
L’evangelista fa precedere al racconto della
Passione un discorso che, prendendo spunto da una domanda dei discepoli (“di’
a noi quando sarà questo [la distruzione del tempio; n.d.r.] e quale il
segno che tutto questo sta per compiersi ?”; v. Mc 13,4), tratteggia
secondo il linguaggio della letteratura apocalittica le sofferenze e le
persecuzioni dei credenti, cui sarà posto fine al tempo della venuta del Figlio
dell’Uomo.
È interessante notare come il discorso di Marco si
dilunga per 21 versetti (cap. 13, 5-25) nell’elencare tutte le tribolazioni cui
neppure i cristiani sfuggiranno, mentre limita a soli due versetti il messaggio
centrale della venuta del Signore alla fine dei tempi. Marco non è uno
scrittore prolisso o ripetitivo: ciò che gli basta è, in questo momento, il
fatto che un giorno il nostro tempo finirà e che tutto sarà riassunto in
Cristo. La venuta del Signore sarà un punto al fluire della storia.
Questa essenziale verità cristiana appare forse
scontata, ma proietta il credente in una dimensione oggi difficilmente
percepibile, la temporalità finita.
La venuta del Signore nel Kairòs finale
afferma che Dio può porre fine al tempo e che noi cristiani non viviamo in un
tempo vuoto che si evolve all’infinito. Di questo momento finale, l’uomo,
secondo il vangelo di Marco, può solo percepire dei segni secondo la sua
esperienza umana (l’insegnamento del fico; v. Mc, 13, 28-32), ma – ed è questo
il nucleo del nostro brano – non conosce nulla di preciso, così come non lo
conosce lo stesso Gesù Cristo che, in questo, è assolutamente uomo come noi
(cfr. Mc 13, 32). E l’uomo che non sa, non può che stare sulle spine.
Alla luce di questa condizione, possiamo leggere
gli imperativi che si ripetono a più riprese: “state attenti”, “non prendete
sonno”, “vegliate”!
Se, infatti, oggi l’avanzato stato delle nostre
conoscenze tecniche e la conseguente sensazione che nulla del reale ci sia
veramente nascosto saziano le nostre attese, portandoci verso una idea del
tempo come infinito (e, pertanto, ripetizione priva di senso), quasi come un
“eterno presente, mai aperto ad un novum” (L. Manicardi, La speranza
del cristiano, Ed. Qiqaion, Bose, 1995, pag.9), il brano evangelico, invece,
ci esorta a comprendere che il nostro essere cristiani si traduce nel rimanere
in attesa di Colui che viene (o’ erchomenos), la vera grande novità
della storia, che illumina di significato presente, passato e futuro.
Il tempo senza identità diventa, quindi, attesa
ed acquista un senso se c’è Gesù Cristo alla fine di esso, se ci aspettiamo
realmente qualcosa da Lui, se - in una parola - speriamo in Lui.
Marco mette in guardia tutti sul fatto che
questa speranza, come la fede, è preziosa e delicata, e va accudita insieme ai
fratelli con la continua disponibilità spirituale alla novità, con l’attenzione
dinamica al centro che orienta la nostra vita. Per rendere questa convinzione,
si serve di una parabola simile a quelle che la liturgia ci ha presentato nelle
scorse settimane.
Il solito uomo che si
allontana per un lungo viaggio lascia qui “una casa”.
La casa, per Marco, è lo
spazio in cui Gesù ed i discepoli vivono l’intimità comunitaria (quindi dove si
cominciano ad operare con autorità i primi miracoli), il luogo in cui è
consegnato il mistero del Regno di Dio.
L’ ”Homo viator” ha
conferito a ciascuno dei servi una “autorità” (exousia è il termine
greco qui utilizzato) ed un compito specifico. Tra questi servi, un portiere
che ha il compito specifico di vigilare. Il viaggiatore si avvicina idealmente
proprio a Gesù, che, nel prosieguo del vangelo di Marco, si accinge ad
allontanarsi dalla comunità cristiana che lo ha finora seguito per tornare al
tempo stabilito, andando incontro alla morte e resurrezione. È una comunità
rappresentata come un luogo in cui convivono i diversi compiti dentro l’
unica attesa dell’ unico Signore.
Le cose fondamentali di cui
dispone la comunità sono la casa del Signore e le indicazioni operative (il
compito: greco ergon) sul da farsi in quella casa. Altro la comunità non
possiede nell’attesa del ritorno.
Ma Marco è convinto della
universalità del suo messaggio di speranza e aggiunge che tutto questo non vale
solo per coloro che sono nella comunità, ma anche per gli altri uomini. Egli
propone a tutti coloro i quali hanno bisogno di novità, il senso di
quella attesa e le raccomandazioni che ad essa conseguono (“Vegliate”).
Ø
Sulla
vigilanza nell’AT: Prv 8,34; Ct 5,2; Sap 6,15.
Ø
Sulla
vigilanza nel NT: Mt 24,36-25,30; Lc
21,36; Ef 6,18
Ø
Sul
“potere” dato ai discepoli: Mc 3,15; 6,7.