Introduzione alla Lectio divina su Mc 13,33-37

domenica 1.12.2002-  1^ Avvento

[33] State attenti, vegliate, perché non sapete quando è il tempo (kairòs). [34] È   come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere (exousìa) ai servi, a ciascuno il suo compito (ergon), e ha ordinato al portiere di vigilare. [35] Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa viene, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, [36] che non giunga all'improvviso e vi trovi addormentati! [37] Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!.

*Le parole sottolineate sono parole-chiave per la meditatio

 

Il brano che la liturgia della prima domenica del tempo di Avvento ci presenta è un brano “ponte”.

Nella struttura del vangelo di Marco (evangelista che da questa domenica ricominceremo ad apprezzare per tutto l’anno A) esso fa, infatti, da tramite tra il cd. discorso escatologico di Gesù e la successiva narrazione della morte e resurrezione del Signore.

L’evangelista fa precedere al racconto della Passione un discorso che, prendendo spunto da una domanda dei discepoli (“di’ a noi quando sarà questo [la distruzione del tempio; n.d.r.] e quale il segno che tutto questo sta per compiersi ?”; v. Mc 13,4), tratteggia secondo il linguaggio della letteratura apocalittica le sofferenze e le persecuzioni dei credenti, cui sarà posto fine al tempo della venuta del Figlio dell’Uomo.

È interessante notare come il discorso di Marco si dilunga per 21 versetti (cap. 13, 5-25) nell’elencare tutte le tribolazioni cui neppure i cristiani sfuggiranno, mentre limita a soli due versetti il messaggio centrale della venuta del Signore alla fine dei tempi. Marco non è uno scrittore prolisso o ripetitivo: ciò che gli basta è, in questo momento, il fatto che un giorno il nostro tempo finirà e che tutto sarà riassunto in Cristo. La venuta del Signore sarà un punto al fluire della storia.

Questa essenziale verità cristiana appare forse scontata, ma proietta il credente in una dimensione oggi difficilmente percepibile, la temporalità finita.

La venuta del Signore nel Kairòs finale afferma che Dio può porre fine al tempo e che noi cristiani non viviamo in un tempo vuoto che si evolve all’infinito. Di questo momento finale, l’uomo, secondo il vangelo di Marco, può solo percepire dei segni secondo la sua esperienza umana (l’insegnamento del fico; v. Mc, 13, 28-32), ma – ed è questo il nucleo del nostro brano – non conosce nulla di preciso, così come non lo conosce lo stesso Gesù Cristo che, in questo, è assolutamente uomo come noi (cfr. Mc 13, 32). E l’uomo che non sa, non può che stare sulle spine.

Alla luce di questa condizione, possiamo leggere gli imperativi che si ripetono a più riprese: “state attenti”, “non prendete sonno”, “vegliate”!

Se, infatti, oggi l’avanzato stato delle nostre conoscenze tecniche e la conseguente sensazione che nulla del reale ci sia veramente nascosto saziano le nostre attese, portandoci verso una idea del tempo come infinito (e, pertanto, ripetizione priva di senso), quasi come un “eterno presente, mai aperto ad un novum” (L. Manicardi, La speranza del cristiano, Ed. Qiqaion, Bose, 1995, pag.9), il brano evangelico, invece, ci esorta a comprendere che il nostro essere cristiani si traduce nel rimanere in attesa di Colui che viene (o’ erchomenos), la vera grande novità della storia, che illumina di significato presente, passato e futuro.

Il tempo senza identità diventa, quindi, attesa ed acquista un senso se c’è Gesù Cristo alla fine di esso, se ci aspettiamo realmente qualcosa da Lui, se - in una parola - speriamo in Lui.

Marco mette in guardia tutti sul fatto che questa speranza, come la fede, è preziosa e delicata, e va accudita insieme ai fratelli con la continua disponibilità spirituale alla novità, con l’attenzione dinamica al centro che orienta la nostra vita. Per rendere questa convinzione, si serve di una parabola simile a quelle che la liturgia ci ha presentato nelle scorse settimane.

Il solito uomo che si allontana per un lungo viaggio lascia qui “una casa”.

La casa, per Marco, è lo spazio in cui Gesù ed i discepoli vivono l’intimità comunitaria (quindi dove si cominciano ad operare con autorità i primi miracoli), il luogo in cui è consegnato il mistero del Regno di Dio.

L’ ”Homo viator” ha conferito a ciascuno dei servi una “autorità” (exousia è il termine greco qui utilizzato) ed un compito specifico. Tra questi servi, un portiere che ha il compito specifico di vigilare. Il viaggiatore si avvicina idealmente proprio a Gesù, che, nel prosieguo del vangelo di Marco, si accinge ad allontanarsi dalla comunità cristiana che lo ha finora seguito per tornare al tempo stabilito, andando incontro alla morte e resurrezione. È una comunità rappresentata come un luogo in cui convivono i diversi compiti dentro l’ unica attesa dell’ unico Signore.

Le cose fondamentali di cui dispone la comunità sono la casa del Signore e le indicazioni operative (il compito: greco ergon) sul da farsi in quella casa. Altro la comunità non possiede nell’attesa del ritorno.

Ma Marco è convinto della universalità del suo messaggio di speranza e aggiunge che tutto questo non vale solo per coloro che sono nella comunità, ma anche per gli altri uomini. Egli propone a tutti coloro i quali hanno bisogno di novità, il senso di quella attesa e le raccomandazioni che ad essa conseguono (“Vegliate”).

 

Brani di riferimento

Ø      Sulla vigilanza nell’AT: Prv 8,34; Ct 5,2; Sap 6,15.

Ø      Sulla vigilanza nel NT:  Mt 24,36-25,30; Lc 21,36; Ef 6,18

Ø      Sul “potere” dato ai discepoli: Mc 3,15; 6,7.