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LA SINDROME SECURITARIA

di Enzo Mingione / Fabio Quassoli

da "La rivista del Manifesto"

La sicurezza dei cittadini si è imposta ormai da qualche anno come uno dei temi scottanti del dibattito politico-mediatico in molti paesi industriali avanzati. Le prime parole della dichiarazione pubblica del Presidente Chirac, dopo essere stato rieletto, sono state la promessa di realizzare una efficace politica per la sicurezza. Alla vigilia delle successive elezioni legislative, il vicepresidente del Consiglio italiano Fini, nell’auspicare una vittoria della destra in Francia, dichiarava a «La Stampa» (7-6-2002): «La destra vince perché pensa alla sicurezza». Il successo del partito di Chirac sembra convalidare l’affermazione di Fini e molti oggi pensano che la svolta a destra in Europa sia dovuta, almeno in parte, a un binomio ferreo: crescita dell’insicurezza (o meglio del senso di insicurezza di una parte dell’elettorato, non necessariamente suffragato da dati o esperienze effettive), da un lato, e maggiore credibilità delle politiche della destra (crescita dell’apparato repressivo, polizia, carcere, pratiche di controllo sociale, a scapito delle politiche sociali) sulla capacità di affrontare il problema, dall’altro lato. Il teorema è rafforzato da quella che Wacquant («Le Monde Diplomatique», maggio 2002) chiama la «leggenda americana della tolleranza zero»: l’idea che il sindaco Giuliani a New York abbia sconfitto la criminalità (e dato sicurezza) con una grande manovra di ‘razionalizzazione’ repressiva. Ora il teorema è talmente affascinante che, ancora prima della recente svolta a destra, in molti paesi europei, inclusa l’Italia, ha fatto breccia anche su politici di sinistra. Ma il teorema non è ferreo per nulla e contiene gravi distorsioni ideologiche. La più importante, sulla quale ci soffermeremo qui, è data dal fatto che la questione della insicurezza è un problema più complicato e generale della paura per la microcriminalità urbana. Un’altra questione, oggi molto dibattuta (l’articolo su citato di Wacquant è un buon contributo) ma che non approfondiremo qui, riguarda l’efficacia e la desiderabilità di una militarizzazione delle città. Non c’è nessuna prova che le politiche repressive servano effettivamente a far diminuire la criminalità e, comunque, non costituiscono l’unica opzione politica praticabile. Per contro la tolleranza zero ha evidenti effetti collaterali molto dannosi, in particolare dovuti alla necessità di sottrarre risorse alle politiche di integrazione sociale e di welfare, che hanno un ruolo decisivo nel prevenire forme acute di esclusione, marginalizzazione e disgregazione sociale, che a loro volta alimentano il senso di insicurezza. In Italia, le campagne sulla sicurezza hanno avuto come oggetto, volta per volta, la pedofilia, l’immigrazione clandestina (sicuramente il tema più sfruttato), la prostituzione di strada, l’emergere di nuove forme di criminalità organizzata e così via. Per tutti gli anni ‘90 si è assistito al diffondersi di forme di protesta da parte della cittadinanza, legate al ‘degrado dei quartieri’ e al ‘diffondersi della microcriminalità’. Il concetto stesso di ‘degrado’, sempre più di frequente associato a quello di sicurezza, ha assunto un significato più generale di disordine sociale, prodotto dalla presenza di categorie di persone poco gradite (immigrati, tossicodipendenti, prostitute, homeless), che rappresentano una minaccia per la sicurezza dei cittadini ‘per bene’ (lavoratori/contribuenti) e un’offesa per il ‘decoro’ e la ‘convivenza civile’. Difesa del decoro e tutela della sicurezza rappresentano sempre più spesso le ragioni invocate dalla cittadinanza, per richiedere e giustificare una più energica azione delle forze di polizia, che crea le condizioni per una ridefinizione dei confini tra legalità e illegalità (Maneri 2001). I riscontri empirici – sostanzialmente le statistiche sulla criminalità – mostrano un quadro fortemente controverso. In generale, comunque, è ormai largamente riconosciuta la problematicità di qualsiasi correlazione tra andamenti negli indicatori relativi alla sicurezza/insicurezza e centralità di tale categoria nel dibattito politico e culturale (Mucchielli 2001, Palidda 2000). Il dibattito politico-mediatico sulla sicurezza si è sviluppato secondo logiche del tutto interne al quadro politico e sembra piuttosto riflettere alcune trasformazioni che caratterizzano il passaggio alla post-modernità. È soprattutto in questo senso che il binomio ferreo tra insicurezza e domanda politica di repressione mostra i suoi limiti. E a questo proposito vale la pena di richiamare il contributo di Bauman (1997, 2000, 2001), che collega in modo convincente le trasformazioni negli assetti sociali delle società occidentali e i mutamenti nei sistemi culturali, che si trovano riflessi nell’esperienza intima di ciascuno di noi con la crescente centralità della dimensione della sicurezza. La società attuale, secondo Bauman, può, infatti, essere definita come «società dell’incertezza». Un’incertezza, in primo luogo politica, che può essere ricondotta all’aumentato disordine politico nel panorama internazionale (fine della guerra fredda e ‘deresponsabilizzazione’ politica dell’Occidente, subordinazione dell’ingerenza politico-militare a interessi economici connessi ai processi di globalizzazione, diffusione di conflitti regionali, guerre civili e risorgere di nazionalismi), dove la logica della contrapposizione tra blocchi politico-economico-militari viene sostituita dalla dicotomia tra metropoli (una ventina di paesi dell’Occidente) e periferie (più di quattro quinti della popolazione mondiale). Il principale fattore di destabilizzazione interno alle società occidentali va identificato, comunque, nella capacità della logica del mercato (moralmente cieca) di colonizzare aree sempre più ampie dell’esperienza sociale, producendo una crescente polarizzazione sia internazionale sia interna alle società occidentali tra coloro che sono in grado di giocare secondo le regole del nuovo spirito del capitalismo e coloro che rimangono completamente esclusi (spesso in modo drastico e definitivo) dalla fruizione dei benefici, che l’economia di mercato pienamente dispiegata è in grado di produrre. I tratti caratteristici di tale condizione, ben rappresentati nel dibattito politico degli ultimi anni, includono una fiducia indiscussa nella capacità di autoregolazione del capitale globalizzato (nonostante le ripetute crisi finanziarie che hanno colpito Messico, Indonesia, Tailandia, Corea del Sud, Brasile, Argentina …), una contrazione dei sistemi di protezione sociale associata a un depotenziamento dell’azione di regolazione del conflitto capitale/lavoro da parte dello Stato, una crescente polarizzazione sociale ed economica all’interno di paesi ricchi (aumento di disuguaglianze, crescita dei livelli di sfruttamento del lavoro dipendente, disoccupazione di massa ed esclusione sociale), che si accompagna all’obsolescenza crescente di competenze e ruoli professionali e a continui processi di trasformazione economica, che estendono le aree di incertezza lavorativa sotto lo slogan della flessibilità. L’imporsi del paradigma del mercato implica l’abbattimento o la neutralizzazione di qualsiasi potere di regolazione della libera iniziativa da parte di strutture statali, che si frappongano alla realizzazione del regno della libertà individuale. Dal punto di vista sociale, le trasformazioni più importanti riguardano la crisi delle tradizionali reti di protezione (famiglia, comunità locale, quartiere, ecc.), destrutturate da logiche consumistiche e da processi di mobilità geografico/professionale, l’esaurirsi delle forme di partecipazione politica e di mobilitazione collettiva, che hanno caratterizzato la storia del ’900, la frammentazione del legame sociale e la costante ricontrattazione delle relazioni, con il parallelo indebolimento delle cerchie di riconoscimento sociale. Se, dice Bauman, il rapporto individuo-società nella modernità si fondava su uno scambio, a seguito del quale gli individui cedevano una parte considerevole della loro libertà personale in cambio di sicurezza garantita collettivamente, oggi accade proprio il contrario. A generare sentimenti diffusi di paura è proprio l’inclinazione (sostenuta dal sistema di valori delle società contemporanee) a rinunciare a una quota elevata di sicurezza per rimuovere sempre più i vincoli che si frappongono all’esercizio della libertà di scelta del cittadino-imprenditore-consumatore. La società globalizzata è una formidabile macchina, che produce la circolazione di cose e persone e al tempo stesso di estraneità. Esperienze e persone sempre più diverse entrano in contatto, ma non si attraggono e non costituiscono alcun legame sociale. Se si fa eccezione per una minoranza di gruppi professionali privilegiati, che trovano perfettamente funzionali alle loro strategie le trasformazioni in corso, per la maggior parte degli abitanti delle metropoli contemporanee l’orizzonte di incertezza ha conseguenze destabilizzanti. Tutti i fattori finora menzionati in grado di generare insicurezza sono inestricabilmente legati e difficilmente affrontabili sia per gli individui che per istituzioni politiche sempre più limitate nelle sfere di competenza. A ciò si aggiunge una tendenza, da parte degli attori sociali, a riversare le ansie connesse al cambiamento su una sola dimensione dell’insicurezza, che ha assunto con il tempo una centralità crescente nell’opinione pubblica e nel dibattito politico. Il dibattito sulla sicurezza trascura, infatti, di considerare le incertezze che affliggono la posizione socioeconomica degli individui, esposta a scossoni in qualche modo riconducibili ai processi di globalizzazione, la crescente complessità dell’esperienza quotidiana difficilmente inquadrabile in rassicuranti schemi interpretativi, privilegiando minacce legate alla disorganizzazione sociale e provenienti dal mondo indistinto della micro-criminalità (Dal Lago 2001). Inoltre, sempre più di frequente, sono gli immigrati – clandestini/irregolari e provenienti da alcune aree come l’Africa del nord, i Balcani, o, ancora di più dopo l’11 settembre, gli islamici in generale – ad essere identificati come la principale fonte di insicurezza per la popolazione residente. L’assunzione di una loro partecipazione massiccia ad attività illegali ad alta visibilità sociale (reati di strada), unitamente alla problematicità della loro condizione legale, trasforma gli immigrati nel loro complesso in una delle principali fonti di preoccupazione, sia per le istituzioni che hanno il compito di garantire la sicurezza sia per la cittadinanza. In un contesto entro il quale l’orizzonte dell’azione (politica) si individualizza e diventa precario, il trincerarsi in comunità fortezze rappresenta una reazione diffusa tra coloro che si trovano esposti alle minacce, reali o potenziali, nei confronti delle sempre più limitate fonti di stabilità e certezza. Proprio tramite la costituzione di comunità protette dalle minacce all’incolumità personale, l’individuo esposto all’incertezza derivante dai processi di globalizzazione cerca di ricostruire, al contempo, uno spazio politico (locale e proprio per questo controllabile) e un qualche tipo di legame sociale. La difesa dell’incolumità finisce così per assorbire la difesa dalla precarietà e dall’incertezza. Tramite la mobilitazione in difesa di un territorio (città, quartiere, condominio) si costruisce una identità collettiva, si produce un senso di appartenenza e si attenua l’ansia per il futuro. Nell’autodifesa comunitaria, lo spazio pubblico/politico annientato dalla colonizzazione del quotidiano, effettuata dall’ideologia liberista e dal mercato globalizzato, viene ricostruito, in modo trasfigurato, nelle comunità fortificate, caratterizzate dall’aspirazione/pretesa a un nuovo tipo di esistenza politica per la maggioranza degli esclusi dai benefici della globalizzazione. Costruzione dello straniero come nemico e protezione del territorio sembrano, pertanto, definire la risposta tipica delle società contemporanee alle conseguenze negative dei processi di globalizzazione (Dal Lago 1999). Di qui si instaura un circuito vizioso che ha già mostrato vistose conseguenze negative nelle società anglosassoni, in generale, e nella crescita dell’estrema destra xenofoba in molti paesi dell’Europa continentale. Spetterebbe alla politica della sinistra inventare degli argini a questa deriva: movimenti, iniziative e politiche che ricostruiscano i legami sociali al di là dell’inevitabile declino numerico degli occupati stabili nelle grandi organizzazioni manifatturiere e terziarie (quella che ancora oggi chiamiamo classe operaia). Ma anche sul fronte della risposta politica c’è una complicazione, una scorciatoia trabocchetto. Le sempre più impellenti richieste di sicurezza risultano, infatti, nel breve periodo, vantaggiose per tutto il sistema politico. A fronte di una capacità (e una volontà, forse) sempre più limitata di intervenire rispetto ai meccanismi dell’economia di mercato globalizzata, che funziona in modo sempre più extra-territoriale (Sassen 1996), gli apparati di potere ritrovano nella risposta repressiva alle minacce provenienti dalla ‘criminalità dilagante’ un’opportunità per intervenire in modo deciso – o quantomeno per mostrare di essere determinati a farlo – nei confronti di tutte le minacce alla sicurezza dei cittadini/elettori (Wacquant 2000). Essi possono così neutralizzare l’accusa di inerzia rispetto alle preoccupazioni della cittadinanza e mostrare, indipendentemente dai risultati (spesso nulli o, comunque, di difficile valutazione), di essere ancora in grado di esercitare un qualche tipo di controllo, e quindi di potere sulla realtà, e, infine, definire uno spazio simbolico entro cui ri-articolare le premesse per la propria legittimazione. A queste condizioni lo scenario del confronto politico tende ad alterarsi. La sinistra in questa fase non è soltanto indebolita dalla minore credibilità delle sue politiche a favore della sicurezza, ma anche perché, per inseguire il mito della tolleranza zero, rinuncia a rilanciare politiche di solidarietà e di inserimento sociale. L’intreccio tra l’indebolimento della stabilità e le garanzie lavorative, da un lato, e la maggiore vulnerabilità sul fronte delle certezze identitarie, dall’altro, richiederebbe un nuovo impegno politico sul fronte sociale che invece è subordinato alla maggiore convenienza economica e politica delle politiche per la sicurezza. Gli strati più deboli e vulnerabili si sentono abbandonati e si rifugiano nel voto di protesta (che radicalizza l’ansia per la sicurezza) o, al meglio, nell’astensionismo. Anche la destra non sfugge al gioco alternativo tra investimenti in politiche sociali e spesa in politiche, che aumentano controllo e repressione con effetti deboli e dubbi. Il vero problema è che – a valle del circuito perverso della sicurezza e del suo impatto sulla politica – diventa sempre più difficile ripartire con politiche, che ridistribuiscano le opportunità, le garanzie e le protezioni per compensare nuove forme di svantaggio attivate dall’impatto dalla globalizzazione sui profili lavorativi e familiari.

note: Nota bibliografica Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, il Mulino, 1997. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000. Z. Bauman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2001. A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano: Feltrinelli, 1999. A. Dal Lago, Esistenza e incolumità. Una nota sulle recenti opere di Zygmunt Bauman, in «Rassegna italiana di sociologia», v. 41, n. 1, 2001, 131-142. M. Maneri, Il panico morale come dispositivo di trasformazione dell’insicurezza, in «Rassegna italiana di sociologia», v. 42, n. 1, 2001, pp. 5-40. L. Mucchielli, Violences et insécurité. Fantasme et réalités dans le débat Français, Paris, La Découverte, 2001. S. Palidda, Polizia postmoderna, Milano, Feltrinelli, 2000. S. Sassen, Fuori controllo, Milano, Il Saggiatore, 1996. L.J.D. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale, Milano: Feltrinelli, 2001. Enzo Mingione è docente di Sociologia presso l’Università degli studi di Milano Bicocca (enzo.mingione@unimib.it) Fabio Quassoli è ricercatore di Sociologia nella stessa università (fabio.quassoli@unimib.it)



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