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SAGRA PAESANA, RIVOLUZIONE O COLPO DI STATO?

di Angelo d'Orsi

da "Liberazione" del 27.10.02

Il 28 ottobre 1922, ottant'anni fa, la Marcia su Roma. Essa giunse dopo un biennio di violenze inaudite, che solo la furia degli stenterelli di una "storia" riveduta e corretta secondo le "nuove sensibilità" politiche può interpretare come una situazione bilaterale equilibrata: alle violenze dei "neri" corrispondevano le violenze dei "rossi". E che anzi, gli uni (i neri) non fecero che rispondere alle aggressioni che alla legalità i rossi andavano conducendo. Ora, convinti che la storia non sia un campo da tennis nel quale ci si rimpalla le verità dei fatti, certi invece che la storia sia una scienza che possa assicurare un grado sufficiente di sicurezza dei risultati, quando sia seriamente condotta, attraverso metodi e tecniche specifici, ci tocca ribadire che così non fu: la Marcia su Roma giunse a coronamento di quello che è stato chiamato "il biennio nero", seguito al "biennio rosso". Se questo, tra la fine della Prima Guerra mondiale e l'abbandono delle fabbriche occupate nel settembre 1920 da parte delle maestranze, rappresentò l'occasione non colta della "rivoluzione in Italia"; il secondo fu l'occasione della controrivoluzione, occasione raccolta al volo e tesaurizzata fino addirittura alla costruzione di un regime sia pur imperfettamente totalitario. Naturalmente occorre aggiungere che la Marcia su Roma non sarebbe pensabile senza la paura della sovversione bolscevica che percorse come un brivido freddo le schiene della classe dirigente dopo l'Ottobre russo. Paura che spesso gli esponenti socialisti alimentavano con frasi minacciose quanto inconcludenti. Già, la responsabilità dei capi del movimento operaio appare una componente non irrilevante in questa storia; la Marcia su Roma forse non sarebbe stata nemmeno tentata se la dirigenza proletaria - sindacale e politica - non avesse fornito così modesta prova di sé: le divisioni interne favorirono inoltre in modo grave l'avversario; e la stolta fiducia nello Stato liberale, ossia la fiducia nella sua volontà e capacità di fermare l'illegalismo fascista, fu esiziale per il socialismo italiano. Contribuì alla sconfitta anche la grave, generale sottovalutazione del "fenomeno Mussolini" e del suo movimento: il primo vero partito-milizia della storia italiana. In questa sottovalutazione i socialisti riformisti furono accomunati agli "intransigenti" e agli stessi comunisti; ma del resto commisero analogo errore di valutazione quei liberali che ragionavano in termini di spregiudicato utilizzo delle camicie nere a guisa di randello da usare sulla testa dei socialisti e dei comunisti (magari anche di un po' di cattolici troppo sensibili ai richiami delle classi umili). Come si sa, i Giolitti, gli Amendola, i Croce, gli Einaudi, gli Albertini ebbero a pentirsene, talora a carissimo prezzo, sulla base di un ravvedimento tardivo ma pur sempre apprezzabilissimo, come nel caso di Giovanni Amendola, che sarebbe morto proprio a seguito di un'aggressione dei fascisti; a lui, tra l'altro si deve l'impiego per primo dell'aggettivo "totalitario" e del suo sostantivo "totalitarismo": dando il via così ad un fortunatissimo cammino che conduce sino ai nostri giorni. Tutto dunque ebbe inizio, dopo l'"adunata" fascista tenuta a Napoli il 24 ottobre, nella quale in pratica si decise l'azione diretta, con la concentrazione a Perugia, due giorni dopo, dei "quadrumviri" (Balbo, Bianchi, De Bono, De Vecchi). Le "colonne" delle "camicie nere" si posero in marcia, non senza una larga dose di allegria, accresciuta dalle libagioni: ma nulla di più lontano dal vero la rappresentazione della Marcia su Roma come un esempio di folclore all'italiana, benché non siano mancati affatto gli aspetti di sagra strapaesana, con mangiate e bevute e canti carnascialeschi; ma non si trattò affatto di un'innocua scampagnata. Fu, invece, l'atto finale di una sistematica aggressione al cuore dello Stato, dopo il biennio di attacchi armati ai militanti del movimento operaio, di distruzioni sistematiche delle sue sedi, dei giornali, delle biblioteche popolari, i circoli ricreativi, le "case del popolo"; fu, il 28 ottobre '22, il colpo di grazia a quanto rimaneva della democrazia liberale in Italia da parte di un partito che era in realtà un esercito di occupazione e si comportava da tale, ma con la complicità, ora attiva ora passiva, di gran parte delle istituzioni che quello Stato rappresentavano e che avrebbero dovuto difendere. In effetti, né il potere politico, pur nella successione dei governi, né la magistratura, né le forze dell'ordine e l'esercito avevano fatto nulla di quanto il dovere istituzionale imponeva loro; non fu perseguito, come avrebbe dovuto essere, l'illegalismo delle "squadre d'azione", le quali, dunque, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, accrebbero la loro protervia, acuirono la loro violenza, intensificarono le loro incursioni. Le pubbliche istituzioni, secondate dalla gran parte dei "commentatori politici", non difendevano coloro che erano le vittime dell'illegalità, i bersagli delle violenze fasciste: erano in fondo accomunati dall'auspicio che ciò valesse una buona volta a "domare" i socialisti e i comunisti, le leghe bianche e rosse, lo "strapotere" sindacale nel mondo del lavoro specialmente nella Valle Padana; e allo scopo il fascismo sembrava lo strumento adatto. Senza contare quanti si fecero abbagliare dall'"Uomo della Provvidenza", colui che si presentava come il Salvatore dell'Italia, il suo Rigeneratore, il suo nuovo Condottiero verso le immancabili sorte magnifiche e progressive: il Duce, insomma. La Marcia su Roma non avrebbe potuto giungere al successo, a dispetto di tutto quanto si è qui detto, senza la complicità della Monarchia: per ben due volte il decreto di stato d'assedio promulgato dal Governo Facta non fu controfirmato da Vittorio Emanuele III, il quale si assunse così, pienamente e consapevolmente, la responsabilità di consegnare il potere al rappresentante di un partito-milizia che aveva, con la marcia verso la capitale (alla quale prudentemente peraltro lo stesso Mussolini non partecipò), inferto un colpo mortale, sul piano simbolico, prima di tutto allo Stato di diritto; un uomo e un partito responsabili della morte e del ferimento di migliaia di persone; della distruzione di edifici e beni, anche pubblici, di minacce e di intimidazioni gravissime. Perciò la Marcia su Roma più che una "rivoluzione" fu, come scrisse Luigi Salvatorelli, acuto osservatore e poi storico di quell'agitato periodo, un "colpo di Stato" della Monarchia; non era d'altronde il primo, essendo stato preceduto dalla messa fuori gioco del Parlamento nel maggio del 1915 per portare l'Italia in guerra; e non sarebbe stato l'ultimo, se si pensi alla drammatica notte del 25 luglio del '43, quando il re fece arrestare, in fondo illegalmente, quello stesso Mussolini che illegalmente aveva ottenuto dal re il potere. Una ragione di più per guardare con disprezzo, e non senza qualche preoccupazione, gli "eredi" dei Savoia, che si accingono, burbanzosi e tronfi, a rientrare nell'Italia che la loro casata consegnò al Cavalier Benito Mussolini.



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