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SAVOIA, PRINCIPI DI UNA GUERRA INUTILE

di Vincenzo Tessandori

da "Il Nuovo.it"

Una poltrona per due. Quasi come nello spassoso film di John Landis del 1982 con Eddie Murphy e Dan Aykroid. Soltanto che la poltrona, in quel caso c'era, e pure comoda. Al contrario, nella baruffa fra un mercante di elicotteri e un impresario dal successo non travolgente si litiga per qualcosa che non sembra esistere: il diritto ad essere considerato erede al trono. Quale? Ma quello della Repubblica italiana, naturalmente. Insomma, qualcosa che non c'è. Piaccia o non piaccia. Il signor Savoia, al secolo Vittorio Emanuele, l'ha presa male che la consulta dei monarchici, quella che si richiama all'Umi, l'abbia messo alla porta preferendogli il cugino Amedeo d'Aosta. Tutto ciò perché lui, unico figlio maschio dell'ultimo re, Umberto II, ha dichiarato di accettare ciò che, per la verità, sarebbe stato assai arduo negare: l'esistenza dell'Italia repubblicana. A quel gruppo di monarchici irriducibili, però, sembra poco importare che il beau geste, a Vittorio Emanuele, sia stato dettato dalla voglia, del resto più che legittima, di mettere fine all'esilio. Ma anche Amedo, il prescelto, ha accettato quella specie di contraddizioni in termini chiamata Repubblica. Anzi, ha fatto di più: ha giurato fedeltà alla Repubblica e alle istituzioni repubblicane. E un giuramento è sempre un giuramento, se uno lo spezza il minimo che possa capitargli e di esser definito spergiuro. Ma Amedeo, mi disse il pomeriggio del 20 maggio 1986, lui quel patto di lealtà lo rispettava. Non era un gran giorno, quel martedì: si era aperto, a Firenze, un processo per illecita esportazione di denaro che vedeva coinvolta la banca Stenhauslin, considerata il salotto buono della città. Con il titolare, svizzero, della banca, 96 vip e, fra costoro, Amedeo, accusato di aver spedito oltrefrontiera 115 milioni. Non si presentò in aula, ma, mi confidò, soltanto perché aveva seguito il consiglio del difensore: "Certo che riconosco la repubblica, sono un ufficiale di Marina". E lo era diventato quando non si chiamava più Regia. Il processo visse vita effimera, come si dice in certi casi, finì bene per tutti. Non è facile capire il motivo per cui, oggi, si parla di "eredi legittimi". Dopo gaffes e malintesi, il signor Savoia non intende più correre rischi e così parla del rientro prossimo venturo evitando temi politici: "Gli italiani mi aspettano", "Andrò da Berlusconi, se mi invita". Fa circolare una lettera nella quale il cugino, con cui ha avuto momenti diciamo aspri, lo invita a casa sua, in Toscana, e si firma: "tuo Deo". Ma l'erede dell'erede, Emanuele Filiberto, taglia corto perché le guerre son guerre, mica giochetti. "In oltre 50 anni Amedeo non ha mai rappresentato la nostra famiglia". Ancora: "Se vuole fare politica, faccia quello che vuole. Un giono vuol fare il re, il secondo il presidente della repubblica, il terzo il senatore, il quarto il capo del governo. Forse cerca un posto". Forse, semplicemente quella "poltrona per due"



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