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QUEL PETROLIO NELLA FORESTA FA AMMALARE GLI INDIOS

di Ottavio Rossani

da "Il Corriere Della Sera" del 22.07.02

QUITO - La donna è minuta. Capelli lisci neri, una maglietta e pantaloni dentro gli stivali. Ci precede rapida per i sentieri della finca (fattoria) dove vive e lavora, nella provincia di Sucùmbios, nell'Oriente amazzonico dell'Ecuador, e mostra pozze di petrolio penetrate attraverso la falda acquifera all'interno della proprietà. L'effetto è che i banani si stanno defogliando e sono destinati a seccarsi; le mucche che pascolano attorno mangiano l'erba e bevono l'acqua contaminate. Gloria Vera ha 45 anni e abita in una capanna su palafitte insieme con il figlio di 7 anni, Gonzalo Matteo: scoprendogli il collo e l’inguine ci fa vedere i rigonfiamenti che il ragazzo ha sottopelle. «Non ho i soldi - dice - per pagare le analisi che il medico chiederebbe di fare. Una volta il caffè rendeva. Ora lo vendiamo a un dollaro al quintale. Colpa del maledetto petrolio». Nei campi in cui ci guida scopriamo, nascoste tra arbusti e alberi, tante «piscine» a cielo aperto piene di petrolio. Davanti a una di queste, del diametro di venti metri, lavorano alcuni operai per estrarre bitume. Ironicamente il loro camioncino porta la scritta « Virgen de la limpieza » (Vergine della purezza). L'odore forte del benzene entra nelle narici. Siamo nel cuore del territorio petrolifero dell'Amazzonia ecuadoregna. I pozzi per l'estrazione sono centinaia nelle quattro province orientali confinanti con la Colombia. Il greggio viene mandato al mare, al porto di Esmeraldas, per essere caricato sulle navi cisterna, tramite il vecchio oleodotto Sote, che si snoda per 450 chilometri a lato della strada da Lago Agrio al Pacifico, superando la cordillera . Ma è già stato costruito per un terzo un secondo oleodotto, l'Ocp (Oleodotto per il greggio pesante), 500 chilometri, portata 450 mila barili al giorno. Il Consorzio completerà l'impianto entro due anni; investimento: 2.5 miliardi di dollari. Vi si oppongono però alcune organizzazioni ambientaliste ecuadoregne, tra cui le più agguerrite sono la Conaie (Confederazione delle tribù indios dell'Ecuador), e Accion ecològica . «Le tribù indigene vengono ingannate dalle multinazionali che fanno firmare loro contratti illegali - sostiene Salvador Quispe, dirigente della Conaie -. La Costituzione prevede che le tribù devono essere consultate prima degli accordi con il governo. Finora nessuna compagnia l'ha fatto». «Il consorzio Ocp non adotta le tecnologie adeguate a contenere i danni ambientali - denuncia Esperanza Martinez di Accion Ecològica -. Vìola i diritti umani dei proprietari, minacciandoli per la firma dei contratti». Alle tribù indigene, nei giorni scorsi, ha portato solidarietà internazionale una «carovana» di rappresentanti di organizzazioni non governative (tra le altre, Greenpeace e Ya Basta !) guidata da Laura Zanella, deputato verde al Parlamento italiano, Grazia Francescato per i Verdi europei, e Giuseppe De Marzo che ne è stato il coordinatore. Il gruppo (22 persone) ha occupato pacificamente gli uffici dell'Agip Oil Ecuador (gruppo Eni) a Quito per alcune ore. È stato infine ricevuto dal responsabile, ingegnere Franco Polo, il quale ha ascoltato le denunce di inquinamento dell'ambiente e di sfruttamento degli indios, ma ha risposto che non era «autorizzato a parlare». A Lago Agrio, città petrolifera di frontiera, che nel giro di dieci anni è passata da due a ventimila abitanti, il sindaco Maximo Abad da sempre si oppone al nuovo oleodotto e perciò, ha detto, «sono stato minacciato di morte». A Mindo, paradiso ornitologico mondiale con le sue 450 specie di uccelli e 370 specie di orchidee, «la cima Guarumos sarà tagliata per circa cento metri d'altezza e venti di larghezza, per far posto ai due piloni che dovranno sostenere il "tubo" - dice la guida Efrain Toapanta, fondatore dell'associazione Accion por la vida -. Una sola perdita di petrolio basterebbe a contaminare per sempre la vallata». Alla fine dell'occupazione, Giuseppe De Marzo a nome della «carovana» ha rivolto all'Eni l'invito ad uscire dal Consorzio Ocp. «L'Agip ha firmato un contratto nel 2001 con le comunità indigene huaorani nella provincia di Pastaia per ottenere l'autorizzazione a lavorare nel loro territorio - accusa De Marzo, mostrando il documento firmato proprio da Franco Polo - in cambio di 50 chili di riso, 50 di zucchero, due secchi di grasso, una borsa di sale, un fischietto da arbitro e due palloni da calcio, 15 piatti, 15 tazze, 15 cucchiai, una bandiera dell'Ecuador, un professore per otto mesi in ognuna delle sei comunità per una spesa totale di 240 dollari. Ma gli eventuali danni ambientali restano a carico degli indigeni. A essere buoni, parliamo di imbroglio». «L’Eni svolge le proprie attività nel rispetto delle norme nazionali e internazionali, dei diritti, dell'ambiente e della cultura delle comunità e delle popolazioni con le quali entra in contatto - dice un alto dirigente dell'Eni che abbiamo interpellato ma che, secondo la prassi aziendale, non può apparire con nome e cognome. D'altronde ripete i concetti espressi in una lettera «aperta» inviata dal direttore generale Stefano Cao alle organizzazioni non governative aderenti alla «carovana» -. Il contratto con Petroecuador, la società petrolifera di Stato, prevede da parte dell'Eni iniziative in campo agricolo, sanitario e dell'istruzione, e il sostegno a creare infrastrutture e attività produttive. Abbiamo già speso per tali interventi tre milioni di dollari. L'Eni nel Consorzio Ocp detiene una partecipazione soltanto del 7,5 per cento. Il nuovo oleodotto, comunque, dopo 15 anni passerà allo Stato. L'Ecuador ha fortemente voluto il nuovo oleodotto, per poter aumentare la produzione di greggio e con i proventi promuovere lo sviluppo e posti di lavoro. Controlla che tutte le compagnie rispettino gli accordi sottoscritti». Le cose sono rimaste come prima. La protesta è servita solo ad attirare l'attenzione di giornali e televisioni ecuadoregni. Tuttavia nel contratto dell'Eni, i cui impegni erano limitati alla fine del 2001, è previsto che si possano rivedere e migliorare gli accordi con le comunità locali. Questa forse è la strada da percorrere.






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