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MARCELLO PERA

di Michele Gambino

da "Liberazione" del 04.08.02

Erano in otto, qualche chilo d'ottimi cervelli, in fila davanti all'ufficio di Silvio Berlusconi, in via dell'Anima, in quel febbraio del 1996, caldissima vigilia delle elezioni che avrebbero visto la vittoria dell'Ulivo. Il cavaliere di Arcore reclutava professori, e in otto si erano presentati all'appello. Molti ex comunisti, qualche economista di scarsi titoli e di gran parlantina, un paio di vecchi signori attratti dal luccichio berlusconiano: Lucio Colletti, Piero Melograni, Marcello Pera, Giorgio Rebuffa, Vittorio Mathieu, Renato Brunetta, Antonio Marzano, Saverio Vertone. Berlusconi fece fare loro un bel po' d'anticamera, e poi li presento ai giornalisti: "Eccoli, i miei gioielli", come Cornelia, la madre dei Gracchi. Non furono grandi acquisti, possiamo dire oggi: Colletti, prima di morire, sbatté la porta disgustato, altri s'allontanarono in silenzio, altri restarono semplicemente indietro, incapaci di sgomitare e inchinarsi a sufficienza dentro il partito-azienda. Restò Antonio Marzano, e soprattutto restò lui, il filosofo con l'elmetto Marcello Pera, assurto alla seconda carica dello Stato, nonostante un inizio che lo vide trombato nel collegio della sua Lucca, e ripescato solo grazie ai resti. Uno osserva il professor Pera incrociandolo dalle parti di Montecitorio, ormai sempre più nascosto tra le guardie del corpo, e si chiede perché un professore noto e rispettato, autore d'innumerevoli pubblicazioni, membro di comitati scientifici internazionali, dotato di solidi principi, s'imbarca un bel giorno sul galeone dei Dell'Utri e dei Miccichè. Domanda che acquista più senso a rileggere le intemerate prese di posizione di Marcello Pera negli anni di Mani Pulite, quando un terremoto giudiziario scosse le fondamenta della politica italiana. All'epoca il professore era tra gli editorialisti della Stampa, ma sembrava scrivesse su "Servire il popolo": "Come alla caduta di altri regimi, occorre una nuova Resistenza, un nuovo riscatto e poi una vera, radicale, impietosa epurazione... Il processo è già cominciato e per buona parte dell'opinione pubblica già chiuso con una condanna". Così si legge, a firma di Marcello Pera, il 19 luglio 1992. E ancora, editoriale del primo febbraio 1993: "I partiti devono retrocedere e alzare le mani... subito e senza le furbizie che accompagnano i rantoli della loro agonia. Questo sì sarebbe un golpe contro la democrazia: cercare di resistere contro la volontà popolare". Impossibile chiedere a quel Pera un occhio, anzi un dito di riguardo per gl'imputati eccellenti: "I giudici devono andare avanti. Nessuno chiede che gli inquisiti eccellenti abbiano un trattamento diverso dagli altri inquisiti" (5 marzo 1993). A chi attacca i magistrati, il professor Pera risponde con veemenza: "No e poi no, onorevole Bossi. Lei deve chiedere scusa... I giudici fanno il loro dovere... Molti magistrati sono già stati assassinati per aver fatto rispettare la legge... Lei mette in discussione i fondamenti stessi dello Stato di diritto" (24 settembre 1993). Per Pera il giustizialista, "la rivoluzione ha regole ferree e tempi stretti" (26 settembre 1993). Poi qualcosa è successo. Qualcosa che ha portato il professor Pera dalla richiesta di "epurazioni" dei politici, alla richiesta d'istituire una commissione parlamentare su Mani Pulite "Che dovrà scrivere una verità diversa da quella che è emersa in sede giudiziaria". Qualcosa che lo ha posto in prima fila - fino allo scambio di querele - tra i nemici dei vari Caselli, Borrelli, Colombo e Boccassini, gli stessi il cui lavoro aveva osannato non molto tempo prima. E che oggi lo spinge a sostenere, dallo scranno di presidente del Senato, lo spettacolo di una maggioranza ridotta a studio legale del premier. Ma sarebbe inutile cercare nella biografia di Marcello Pera le motivazioni del voltafaccia, perché non esistono, o almeno non si vedono. Così come nemmeno si scorgono i segni del pentimento, della sofferta autocritica, o anche solo dell'abiura del vecchio Pera giustizialista e giacobino. Tutte cose che pure avrebbero un seme di nobiltà, perché, come si dice, "solo i cretini non cambiano mai idea". Ma niente di tutto questo si rintraccia nel presidente del Senato: una sera il Pera editorialista della Stampa è andato a letto dalla parte della legalità violata e della democrazia liberale, e l'indomani si è svegliato garantista e berlusconiano, come il Gregorio Samsa di Kafka, che s'addormenta uomo e si sveglia insetto. Solo che quello - da insetto - è memore del suo essere stato un uomo. Mentre questo nuovo Pera del precedente non ricorda nulla, non l'ha mai visto né conosciuto. Se sia andata così, o con una folgorazione sulla via di Arcore, o in altro modo ancora, solo Pera potrebbe dirlo. Certo è che tra gli otto professori in attesa davanti alla porta di Arcore, il filosofo di Lucca è quello che meglio ha saputo entrare in sintonia col cavaliere e i suoi sodali, e per giunta sul tema a loro più caro, la giustizia. Lo avevano appena eletto, grazie al ripescaggio dei resti, e già gridava contro i "giudici giacobini", e implorava D'Alema di "fermare i giudici" asserviti alla sinistra. Fu così che il Cavaliere lo volle vicepresidente del gruppo di Forza Italia al Senato, membro della commissione Giustizia e responsabile del settore Giustizia del movimento. Lui rinsaldò il legame scegliendo come sua assistente prima Jole Santelli, avvocata dello studio Previti, e poi sua sorella Roberta. E si fece onore portando avanti in Parlamento la riforma del processo penale e la legge sui pentiti, e conducendo bene, sul finale della passata legislatura, l'ostruzionismo sull'accordo italo-svizzero per le rogatorie. Da senatore, rivolse persino un'interrogazione al ministro della Giustizia Fassino per chiedere "un'azione disciplinare" contro due pm che indagavano sulla discarica di Cerro Maggiore, e avevano per principale imputato Paolo Berlusconi. E tanto per mettere in chiaro il suo personale rispetto delle regole e degli ambiti, Pera attaccò i due magistrati anche dalle colonne del Giornale, di cui è proprietario, guarda un po', lo stesso Paolo Berlusconi: "La Taddei (uno dei pm n. d. a.) non conosce le regole elementari della sua funzione" scrisse sull'organo di casa Berlusconi. Si scoprì poi che le accuse del clan di Arcore erano fondate su un errore, ma non risulta che il professor Pera abbia chiesto scusa ai magistrati ingiustamente diffamati. Tanto zelo sembrava mirato alla carica di ministro della Giustizia. E infatti alla vigilia della formazione dell'attuale Governo il senatore si premurò di far sapere che, appena insediato in via Arenula, avrebbe fatto rimuovere dal suo ufficio la scrivania appartenuta a Palmiro Togliatti. Invece Bossi puntò i piedi e Pera finì alla presidenza del Senato. Dopo l'insediamento, a chi si preoccupava per il nuovo assetto della Rai promise: "Posso assicurare che io e Casini faremo di tutto per gestire imparzialmente il riassetto della Rai". Al Corriere della Sera disse invece: "Farò di Palazzo Madama un luogo di alta cultura, di elaborazione di idee e di riflessione". Tutti abbiamo visto com'è andata a finire.






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