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GENOVA, UN ANNO DOPO

di Vittorio Agnoletto

da "Liberazione" del 17.06.02

"L'Italia è il Paese delle cento città"; ognuno di noi avrà ascoltato decine e decine di volte questa affermazione, che illustra fedelmente la natura policentrica del nostro Paese, ben rappresentata anche nella sua storia politica e sociale. Ma ogni periodo storico ha i suoi riferimenti: oggi non vi è dubbio che nel cuore e nella mente di un'intera generazione vi è Genova. A Genova, un anno fa, si è consumata una rottura, si è aperta una ferita che tuttora continua a sanguinare. La Costituzione italiana è stata sospesa, calpestata, ignorata ma anche derisa; non da un gruppo eversivo, non da un nucleo di terroristi, ma da chi ne doveva essere geloso custode, da chi era ed è stato delegato, dalle regole scritte della nostra convivenza civile, ad essserne difensore e rappresentante. In spregio del dettato costituzionale, contro tutta la nostra legislazione, rappresentanti delle forze dell'ordine hanno aggredito, picchiato selvaggiamente, insultato pacifici dimostranti; hanno umiliato, torturato (il solo scrivere questa parola provoca in me angoscia e incredulità), privato di qualunque diritto cittadini inermi; hanno impedito ad avvocati e giornalisti di compiere il proprio lavoro, ignorando che l'indipendenza dell'informazione e il diritto alla difesa, anche contro il potere politico, costituiscono due principi fondanti del moderno stato liberale nato dalla rivoluzione francese. Non solo è stato negato il diritto-dovere del personale sanitario a prestare sempre, comunque e verso chiunque, la propria opera di soccorso, ma abbiamo anche assistito alla rottura del giuramento d'Ippocrate da parte di medici, uomini e donne (fortunatamente un numero ristretto in confronto ai tanti sanitari che si sono prodigati durante quelle drammatiche giornate), che hanno posto il loro sapere scientifico non a tutela della salute individuale e collettiva ma al servizio di un potere accecato dall'odio e dalla violenza. Non si può inoltre dimenticare che, tra chi dovrebbe contribuire all'accertamento della verità, vi è chi è stato accusato non solo di false dichiarazioni, ma anche di aver costruito prove false. Chi, in quelle giornate di luglio era a Genova, ha visto tutto ciò con i propri occhi e spesso lo ha "sentito" sul proprio corpo; per chi non c'era, per chi non ha voluto credere alle nostre parole, vi è la denuncia di Amnesty International a ricordarlo. Chi, tra i magistrati, a Napoli prima ancora che a Genova, ha scelto di svolgere il proprio lavoro secondo coscienza e in linea con l'obbligatorietà dell'azione penale, prevista dal nostro codice, si è ritrovato a sua volta oggetto d'indagine punitiva. C ertamente abbiamo il dovere di non semplificare, di ricordarci sempre che i comportamenti di singoli non possono mai tradursi in condanne indiscriminate di intere fasce di popolazione; lo sappiamo bene e non abbiamo esitato ad essere i primi a ricordarlo anche in occasione dell'aggressione subita a Roma nell'ex ghetto. Ma quanto è avvenuto a Genova non può essere sbrigativamente archiviato come «semplici atti di violenza commessi da singole persone»; l'estensione di simili comportamenti, la loro ripetitività, il coinvolgimento di ruoli apicali delle forze dell'ordine, la difesa compatta esercitata dai vertici della polizia dell'operato dei propri sottoposti, fino quasi a negare l'evidenza dei fatti, il vergognoso scaricabarile esercitato dalle varie autorità, testimoniano che non siamo di fronte ad un'escrescenza in un corpo sano, ma ad un organismo profondamente malato che necessiterebbe di urgenti e profondi interventi chirurgici. Proprio chi, all'interno della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza e della polizia penitenziaria crede nel proprio ruolo di tutore del dettato costituzionale e di garante della libertà e della convivenza sociale dovrebbe per primo chiedere indagini rigorose, finalizzate ad individuare le precise responsabilità degli esecutori materiali come dei mandanti. Dovrebbe costituirsi parte civile contro costoro per tutelare la dignità del proprio lavoro e della propria immagine, così fortemente compromessa presso l'opinione pubblica. Abbiamo sperato, allora, che qualcuno, come avvenuto nel passato, si rifiutasse di obbedire, si ricordasse che «l'obbedienza non è più una virtù», abbiamo atteso che qualcuno, tra le forze dell'ordine presenti in quelle giornate, denunciasse l'operato dei propri colleghi, ricordandosi la differenza tra delazione e dovere civico, tra violenza e rispetto dei diritti umani. Qualche voce si è levata, qualche sindacato di categoria ha preso posizione, e a loro manifestiamo il nostro apprezzamento e il nostro sostegno, ma ci saremmo aspettati di più. Siamo consapevoli di cosa rischiano, forse anche il posto di lavoro, ma siamo altresì consapevoli che spesso la difesa della democrazia ha richiesto anche l'assunzione di responsabilità e di rischi individuali. Prendiamo atto dell'indignazione e delle proteste sollevate dalle varie forze politiche di opposizione, ma ci saremmo aspettati anche qualche sana autocritica da parte di chi trasformò i carabinieri in un corpo militare, garantendogli nei fatti l'impunità, da parte di chi nominò l'attuale capo della polizia e mai ne volle chiedere con forza le dimissioni, da parte di chi, per non pochi giorni, continuò a parlare della connivenza del Gsf con la violenza. Oggi, ancora una volta chiediamo le dimissioni di De Gennaro, di tutti i vertici delle forze dell'ordine e del ministro Castelli, testimone oculare e reticente delle violenze consumatesi quella notte. Da parte di questo governo non ci siamo mai aspettati molto, ma certo meraviglia il silenzio di coloro che, militando nella Casa delle Libertà, si sono più volte dichiarati nel passato attenti e sensibili ai diritti umani; con il loro silenzio hanno perso un'importante occasione per chiarire come questa loro attenzione sia indipendente dal reddito e dal potere della persona da tutelare. Chiediamo verità e giustizia e continueremo a batterci per ottenerle. Ma è bene che tutti siano consapevoli che quella che si sta giocando anche durante queste giornate non è una partita privata tra il movimento e i vertici delle forze dell'ordine; il rispetto dei diritti umani e della nostra Costituzione, riguardano chiunque, anche coloro che non hanno condiviso e che ancora oggi non condividono le nostre idee. La democrazia e il diritto non possono essere invocati a seconda del colore politico e delle convinzioni sociali di questo o quel cittadino, altrimenti è destinata a prevalere la legge della giungla, la legge del più forte e diventerebbe quasi troppo facile ricordare che quello che oggi capita a noi domani potrebbe capitare a voi, o meglio «non lasciar fare ad un altro quello che non vorresti fosse fatto a te stesso». Ecco perché oggi chiediamo a tutti di venire a Genova, a tutti: a chi c'era, a chi non aveva potuto venire, a chi allora non condivideva le nostre ragioni ma oggi si sente più vicino alle nostre posizioni, a chi continua a non condividere completamente le nostre idee ma è consapevole che a Genova, nei prossimi giorni, si lotterà per i diritti di tutti, anche di coloro che non la pensano come noi, perché questa è l'unica democrazia nella quale crediamo.







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