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LA FIAT DOPO LA FIAT

di Mauro Bulgarelli (deputato dei Verdi)



Le forti e continue mobilitazioni di questi giorni hanno ottenuto un primo, importante risultato: la crisi della Fiat è entrata di prepotenza nella vita, nella quotidianità di questo paese ed ha raccolto attorno a sé una straordinaria attenzione e solidarietà. Segno che, al di là dei numeri e delle prospettive future, quella operaia è ancora una vicenda in grado di riassumere, anche sul piano simbolico, il senso di quello scontro sociale che, mai come in questo periodo, attraversa in lungo e in largo la società civile. Sul piano concreto dei risultati, invece, il quadro è molto più fosco. E' vero che la temporanea sospensione della cassa integrazione per 7.600 operai può essere letta come una manovra difensiva imposta in qualche modo dal governo per porre un argine all'assedio a cui è sottoposto, ma è altrettanto vero che il piano di ristrutturazione presentato dalla Fiat come piattaforma per la trattativa offre scarsissimi margini di accordo ed appare vergato dalla mano dei banchieri, sempre più preoccupati di rientrare dei crediti che vantano nei confronti della casa torinese. In altre parole, è un piano inaccettabile, che disattende gli stessi obiettivi produttivi individuati dall'azienda soltanto a maggio di quest'anno, ignora il tema dell'innovazione tecnologica, della qualità produttiva e della commercializzazione del prodotto e che, soprattutto, nel suo puntare a superare la crisi attraverso la riduzione dei costi di produzione e i tagli sulla manodopera, formalizza la chiusura irrevocabile di un ciclo, quello dell'industria fordista, in Italia da sempre contraddistinto dall'intreccio tra capitalismo di stampo familiare e intervento pubblico. Un dato, infatti, non può essere sottaciuto, rimosso: sugli esiti della crisi della Fiat pesa un finale probabilmente già scritto, quello della vendita alla General Motors, evento che porterà allo smembramento e alla delocalizzazione programmata dell'attività produttiva - secondo la logica della globalizzazione - e alla polverizzazione di un logo - quello Fiat - non più rivendibile perché non più appetibile in termini di mercato. D'altra parte, se la Fiat non avesse comunicato espressamente la sua "strategia dell'abbandono" l'interesse della Gm non si sarebbe mai manifestato. Pertanto, comunque vadano le cose, la fine della Fiat, almeno come l'abbiamo conosciuta, non pare eludibile e assume le forme di una vera e propria smobilitazione, di una, per molti versi, oscena fuga col bottino generato dalla gigantesca appropriazione e concentrazione di ricchezza di cui ha beneficiato in questi decenni la consorteria degli Agnelli. C'è un qualcosa di "argentino", insomma, in questi saldi di fine stagione, e si capisce perché qualche analista politico più "pessimista" abbia avuto la tentazione di fare un paragone tra il crollo e la svendita della Fiat in Italia e quelli della Daewoo in Corea, ipotizzando analoghi scenari di devastazione sociale. Il carattere risolutivo della crisi della Fiat, dunque, non può non influenzare anche la tipologia delle soluzioni da predisporre a tutela degli operai che ne sopporteranno le conseguenze. Dire che questa crisi è inscritta a tutto tondo nel definitivo tramonto del fordismo italiano, però, in alcun modo deve suggerire atteggiamenti fatalisti o remissivi circa la praticabilità delle alternative occupazionali da proporre ma deve solo far riflettere sull'inadeguatezza di misure congiunturali, come la cassa integrazione, la mobilità o l'assistenzialismo. Se, nell'immediato, può essere necessario un intervento statale, deve essere ben chiaro che esso, di per sé, non porterà alcun risanamento strutturale ma potrà servire soltanto come piattaforma per sperimentare l'uso di forme concrete e innovative di tutela economica e sociale, come l'introduzione del reddito di cittadinanza e la riduzione dell'orario di lavoro. L'adozione immediata delle 35 ore, infatti, potrebbe garantire non solo la sopravvivenza dei posti di lavoro a rischio negli stabilimenti del sud, assorbendo gli esuberi programmati, ma innoverebbe, soprattutto sul piano "culturale", la percezione stessa della "centralità" del lavoro, finora considerato, soprattutto nel Mezzogiorno, come un bene da preservare a prescindere dalla sua qualità, dai suoi tempi, dalle prospettive che esso riserva nel lungo periodo, e che, invece, andrebbe inserito nella più generale difesa della qualità della vita e della gestione del tempo. Su questo piano, la riduzione dell'orario sarebbe in qualche modo propedeutica a una riforma strutturale, equa e solidale, del mercato del lavoro ruotante attorno all'introduzione, ormai non più procrastinabile, del reddito di cittadinanza. La crisi della Fiat, infatti, non è semplicemente una crisi finanziaria ma va letta all'interno della fine del ciclo petrolifero dell'auto e alla riconversione tecnologica che esso subirà nell'immediato futuro. Le grandi case automobilistiche, General Motors in testa, hanno ormai puntato risolutamente sui nuovi propulsori all'idrogeno ecocompatibili e ciò comporterà una vera e propria rivoluzione del processo produttivo, degli impianti, delle competenze professionali, dell'organizzazione del lavoro. Uno scenario di trasformazione globale che attraverserà tutto il comparto industriale, coinvolgendo indotto e piccole imprese, che sconvolgerà il mercato del lavoro investendo il territorio nella sua interezza e ridefinendo in profondità il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Una rivoluzione alla quale è impensabile rispondere con misure congiunturali come la cassa integrazione o il blocco dei licenziamenti per un anno o due ma che esige che sia ripensato il legame tra ammortizzatori sociali e prestazione lavorativa, affinché, anche in caso di rescissione del rapporto di lavoro, siano comunque garantite condizioni di vita dignitose e, soprattutto, la possibilità di ricollocarsi sul mercato del lavoro spendendo al meglio le proprie competenze professionali, senza essere pressati dall'urgenza di svenderle per sopravvivere o di imbarcarsi in mille lavori precari e senza prospettive. I giovani, d'altra parte, godendo di un reddito sociale, potrebbero investire proficuamente nella formazione ed avere molte più chances di intraprendere attività lavorative più consone alle proprie aspirazioni e, soprattutto, spendibili anche all'estero. Infine quei lavoratori espulsi dal ciclo produttivo potrebbero decidere di autorganizzarsi cooperativisticamente nella prospettiva di divenire imprenditori di se stessi, garantiti, per un periodo iniziale, dalla riscossione di un reddito che consentirebbe loro di impostare la propria attività autonoma in tranquillità. Il futuro della Fiat, e di ciò che rimane della struttura industriale fordista, dunque, dipende in primo luogo dalla parte di risorse pubbliche, oggi impegnate passivamente come ammortizzatori sociali, che si riuscirà a dirottare verso politiche attive per l'occupazione e per lo sviluppo. Riduzione dell'orario, reddito minimo garantito e reddito di cittadinanza vanno, in quest'ottica, utilizzati, combinati, in maniera sinergica e flessibile. La scommessa, in definitiva, è quella di cambiare, a partire dalla crisi, l'uso del tempo nel lavoro e nella vita, ricollocando e valorizzando le risorse umane nella prospettiva del mercato del lavoro di domani.



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