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CLIMA, SUPERARE KYOTO

di Sabina Morandi

da "Liberazione" del 29.11.02

Il 28 ottobre scorso le strade di Delhi sono state attraversate da una strana manifestazione: organizzazioni di pescatori, contadini, bambini di strada, abitanti delle baraccopoli, gruppi di donne e guidatori di risciò hanno attraversato le strade del centro, dal Mahatma Gandhi Memorial fino ai grattacieli del centro dove, il 1° novembre, si è aperta l'ottava Conferenza delle Parti (CoP8) organizzata dall'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di cambiamenti climatici. L'eterogeneo corteo, guardato a vista dalla polizia, era accomunato da una profonda consapevolezza: se piove troppo non è certo per colpa degli dei.

Piove sul bagnato
Pescatori e bambini di strada sono, in India, fra le principali vittime di quei fenomeni atmosferici estremi che accompagnano l'effetto serra, ovvero il riscaldamento globale del pianeta. Se queste due categorie, insieme ai guidatori di risciò, sono prettamente indiane, i contadini sanno bene cosa significa la deregulation delle precipitazioni anche alle nostre latitudini. Quello che però i nostri giornalisti tendono a dimenticare è che alluvioni e allagamenti hanno dei precisi responsabili che, invece di essere fermati, sono lasciati sempre più liberi di esercitare crescenti pressioni per evitare che venga intrapresa qualsiasi misura, per quanto moderata, per ridurre le emissioni responsabili del riscaldamento globale. Si tratta, in sostanza, di una cinquantina di corporation che sono riuscite a trasformare le più recenti occasioni in cui si è discusso di riduzione delle emissioni in occasioni d'affari. A Johannesburg gli interessi delle corporation del petrolio sono state degnamente difese dagli Stati Uniti, il paese che inquina di più al mondo, che continua a non sottoscrivere il Protocollo di Kyoto e il cui presidente fa saltare una dopo l'altra tutte le misure ambientaliste adottate dai suoi predecessori, a cominciare dal Clean Air Act di Clinton per finire con il via libera di ieri al taglio delle foreste, che ammortizzano in parte l'effetto delle emissioni. A Nuova Delhi ci hanno pensato i potentissimi gruppi di pressione transnazionali, come il World Business Council for Sustainable Development - associate di spicco la Shell e la BP - a far saltare qualsiasi ipotesi di mettere mano al Protocollo.

Quel protocollo
Per quanto oggi sia considerato l'ultimo bastione di uno sviluppo non distruttivo per l'ambiente quando il Protocollo venne lanciato, il 10 dicembre 1997, furono in molti a criticarlo. Prima di tutto Kyoto poneva come obiettivo la "stabilizzazione delle concentrazioni in atmosfera dei gas a effetto serra" e non una loro drastica riduzione. I paesi industrializzati si sarebbero dovuti impegnare a ridurre le emissioni del 5,3% rispetto ai livelli del 1990, entro il periodo compreso tra il 2008 e il 2012: una misura che oggi sappiamo del tutto insufficiente. Nel 1995, infatti, si pensava che la temperatura mondiale media sarebbe aumentata al massimo di 3 gradi entro il 2000. Oggi siamo già sui 5 gradi, la più alta dopo la fine dell'ultima glaciazione, e i sei gradi sono dietro l'angolo. Gli scienziati dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite hanno trovato prove del riscaldamento globale ovunque: nel ritiro dei ghiacciai, nell'assottigliamento della calotta polare, nella diminuzione delle nevi perenni, nell'aumento delle precipitazioni e nell'impressionante incremento delle più violente manifestazioni metereologiche. Naturalmente, mentre la maggior parte delle emissioni di gas serra proviene dal mondo industrializzato, sono i paesi più poveri a soffrirne di più. La desertificazione rosicchia via le terre coltivabili, i morti da inondazione si contano a migliaia e i cosiddetti "profughi ambientali", nuovo termine coniato per l'occasione, vengono lasciati a morire di fame a telecamere spente.

Giustizia climatica
Pescatori, contadini e ragazzi di strada non si sono limitati a manifestare. In occasione del Summit dell'Onu a Delhi si è tenuto il primo Climate Justice Summit (il Vertice sulla giustizia climatica) cui hanno partecipato tutte le componenti del movimento indiano. I seminari e gli incontri che, come al solito, si sono susseguiti a ritmo serrato, hanno lavorato sull'idea, rimbalzata da Porto Alegre a Johannesburg e poi fino a Delhi, che giustizia sociale e protezione ambientale non possano venire separati. La "giustizia climatica" non ha soltanto motivazioni etiche. L'opzione di introdurre un meccanismo di risarcimento è anche, di fatto, l'unica strada che può sbloccare la fase di stallo del Protocollo di Kyoto. Perché, infatti, i paesi del sud del mondo dovrebbero impegnarsi a frenare il proprio sviluppo fissando un tetto per le emissioni quando dello sviluppo ancora non hanno usufruito? Occorre un segnale forte perché i paesi in via di sviluppo accettino di trattare con un paese come gli Stati Uniti che, con il 4,6% della popolazione mondiale, è responsabile del 25% delle emissioni inquinanti. Sul modello della "giustizia climatica" sono state stilate alcune ipotesi concrete per riformare le modalità di calcolo delle emissioni previste dal Protocollo. A Porto Alegre, ad esempio, Emilio La Rovere, consulente del governo brasiliano per la riforma energetica, ha stilato una proposta sul conteggio cumulativo delle emissioni di C02. In sostanza per calcolare quanto un paese deve investire in riconversione, si fa una somma delle emissioni inquinanti di quel paese, per esempio dal 1950 in poi. In questo modo, ovviamente, i paesi industrializzati pagherebbero il loro "debito" di inquinatori nei confronti del resto del mondo e i G77 potrebbero presentare un fronte compatto per reclamare quanto gli è dovuto.



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