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LA "CINA HOLDING" SOGNA UN POSTO NEL G7

di Francesco Sisci

da "Tuttosoldi", suppl. "La Stampa" del 24.02.03

Continua il boom, più vicino il sorpasso ai danni del Giappone Il paradosso è che un processo di democratizzazione accelerato potrebbe frantumare in modo irrimediabile l'unità nazionale Il paese difende soltanto priorità strategiche senza operazioni di contrasto a tutto campo antiamericane come faceva l'Urss

Pechino. La Tienanmen è la più grande piazza del mondo. Fu costruita negli Anni '50 in una delle tante frenesie di gigantismo che periodicamente hanno preso la Cina. Mao Zedong era stato a Mosca, aveva visto la Piazza Rossa e voleva per la sua capitale una spianata più grande, per simboleggiare con future adunate oceaniche il grande, allora solo auspicato, peso politico globale del suo paese. Mao distrusse così oltre 50 ettari di case e palazzi secolari, rimpiazzandoli con un'architettura monumentale cino-sovietica che si staglia ancora nel centro di Pechino. Il gigantismo architettonico, però, era l'allora contrappasso del nanismo politico. Pechino viveva solo grazie agli aiuti sovietici e poi, dopo la rottura con Mosca nel 1960, ricorse a un'alleanza di fatto con l'America negli Anni '70 per mettersi al sicuro da eventuali attacchi a tutto campo sovietici. Insomma, la Cina era allora una pedina, più o meno importante, dello scacchiere internazionale, ma solo una pedina. Gli ultimi 25 anni di rapido sviluppo economico e l'ultimodecennio di attivismo politico hanno però cambiato tutto. Come la seconda metà del secolo scorso è stata contraddistinta dallo scontro tra blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti, e blocco orientale guidato dall'Unione Sovietica, ora il mezzo secolo che si apre appare concentrarsi sulla preoccupazione degli Usa verso la Cina. Per l'America è una sfida all'ordine internazionale costituito se la Cina cresce economicamente e parallelamente, come sta facendo, aumenta di influenza politica, ma è anche una sfida se, come potrebbe essere possibile, nel corso di questo suo sviluppo le cose andassero male e la Cina andasse a pezzi come è successo all'Urss. All'inizio della sua presidenza, George W. Bush junior agitava per la prima volta a livello ufficiale quello spettro della minaccia cinese, che gli archivi strategici americani avevano visto crescere ufficiosamente per anni. Bush accusava Pechino di avere fornito equipaggiamenti militari all'Iraq, di fornire tecnologia missilistica e nucleare ai paesi canaglia e di essere una minaccia strategica globale per gli Stati Uniti e l'Occidente. Nell'aprile del 2001 la tensione tra Cina e Usa salì alle stelle con l'atterraggio a sorpresa di un aereo spia americano EP3 in una base cinese. L'EP3 era stato danneggiato da un caccia cinese, che gli si era schiantato contro nel vano tentativo di allontanare l'aereo dai pressi dello spazio cinese. Se non ci fosse stato l'attentato dell'11 settembre, che ha spostato il centro di attenzione americano dalla Cina alla guerra al terrorismo, molto probabilmente in questi giorni staremmo parlando della politica di nuovo contenimento che il Pentagono stava preparando intorno a Pechino. In qualche modo lo si può considerare un complimento degli Usa alla Cina, perché le teste d'uovo del Pentagono pensano che Pechino sia il vero grande polo politico in ascesa nel mondo. I calcoli americani sono semplici e brutali, e mettono di fatto la Russia nello scantinato politico. Mosca ha ancora un grande arsenale militare, ma la sua tecnologia perde di freschezza ogni giorno che passa e non ha poi l'economia per mantenerla. La Russia infatti possiede, come il Belgio o la Svizzera, grandi riserve di materie prime ma senza quelle multinazionali che espandono l'influenza di un paese in tutto il mondo. La Russia, poi, è diventata una democrazia parlamentare, è entrata a far parte del G8 e ha stretto un accordo politico con la Nato. In qualche modo fa parte del club politico occidentale. La Cina è del tutto diversa. Il suo settore militare è ancora arretrato ma fa rapidi passi avanti, tanto che l'Fbi la scorsa settimana ha lanciato un programma di arruolamento di agenti per contrastare i furti cinesi di tecnologia militare americana. Gli armamenti di Pechino provengono ancora per buona parte dall'arsenale messo sul mercato da Mosca, ma non solo, se è vero che, come riferiva la stampa giapponese nel fine settimana, i cinesi hanno sviluppato e sperimentato proprie testate multiple. Pechino non fa parte del G8 (non è una democrazia parlamentare), né è parte della Nato. La Cina fa parte della comunità economica mondiale per quanto riguarda l'economia ma non è parte del club politico occidentale. Così è diversa dalla vecchia Urss che era un altro mondo rispetto all'occidente, sia politicamente che economicamente. In altre parole, per quanto il livello di tecnologia rimanga decenni indietro rispetto all'America, la Cina ha oggi l'unico grande apparato militare fuori dal controllo americano, ma grazie al dinamismo della sua economia può evitare le trappole della vecchia Urss, che fu schiacciata nelle sue ambizioni politiche da un'economia inefficiente. Così oggi l'economia è circa quattro volte quella della Russia e con aziende multinazionali che stanno cominciando a esportare in tutto il mondo. Già oggi, con il cambio attuale, la Cina è la quinta-sesta più grande economia del mondo e se il renminbi cinese si rivalutasse del 40%, come vorrebbero i giapponesi, le dimensioni dell'economia cinese sarebbero quelle della Germania. Presto potrebbe essere difficile negarle un posto nel G7. Tra 20 anni, o forse solo dieci, per l'eventuale rivalutazione del cambio, la Cina dovrebbe superare il Giappone e diventare la seconda economia del pianeta, rivaleggiando con gli Usa. Con quelle risorse e un sistema militare indipendente, la Cina potrebbe a quel punto mostrare una capacità di contrasto della presenza americana in Asia e in ambito globale. Questa è la grande preoccupazione americana, sottolineata dal fatto che il sistema politico cinese non è democratico, cioè manca di trasparenza, e rende opache le vere intenzioni di Pechino. Da qui anche le pressioni americane per una rapida democratizzazione della Cina. Un sistema politico democratico in Cina renderebbe trasparenti le decisioni e i loro processi e quindi darebbe tempo e modo all'America di analizzarle ed eventualmente influenzarle, cosa del resto che il sistema politico americano rende possibile ai cinesi. Ma un tale processo di democratizzazione non ha tempi brevissimi. Il paradosso cinese è infatti che, se da un lato la dimensione complessiva dell'economia è grande, il reddito medio pro capite rimane, e rimarrà, basso per molti anni con crescenti differenze tra ricchi e poveri. Così, dicono i cinesi, un processo di democratizzazione accelerato, applicato a una popolazione ancora molto disgregata, nel mezzo di un processo epocale di urbanizzazione che porterà mezzo miliardo di persone nelle città nei prossimi 20 anni, rischia di frantumare il paese. L'esperienza delle riforme politiche di Gorbaciov in Russia sono un incubo ricorrente per i governanti di Pechino, dove nessuno vuole diventare il Gorbaciov cinese e aprire quindi la porta allo sgretolamento politico della Cina. Inoltre è chiaro ai cinesi, innamorati dell'idea della Grande Cina, che uno spezzettamento del loro paese ne diminuirebbe il peso politico globale. Contro l'idea della frantumazione sono poi anche gli americani: temono che la caduta della Cina unitaria possa aprire le porte all'esportazione di milioni di profughi cinesi in tutto il mondo e l'allargamento dell'influenza delle mafie cinesi, tendenzialmente più perico lose perfino delle micidiali mafie russe. Se solo l'1% dei cinesi cominciasse a emigrare nei paesi occidentali, sarebbero 13 milioni di cinesi in fuga verso Europa, America e Giappone. L'Europa è pronta ad accogliere un'ondata di tre, quattro milioni di profughi cinesi? Per i giapponesi, invece, i timori sono moltiplicati perché una Cina più forte già sta sostituendo la sua presenza nella regione e una crescita politica e militare cinese, che magari fra 20 o 30 anni sostituisca gli Usa in Asia, impone a Tokyo un dibattito su un possibile futuro riarmo, cosa esclusa finché gli Usa rimangono pesantemente coinvolti nella regione. In altre parole, la Cina è la vera sfida politica dei prossimi anni, grande se lo sviluppo procede, e ancora più grande se lo sviluppo si arrestasse e i cinesi cominciassero ad emigrare in massa. Questo peso non è futuro ma presente. La Cina finora in abito internazionale non cerca un profilo alto, non manda il suo Krushev a battere la scarpa sui seggi dell'Onu né promuove rivoluzioni anti occidentali, ma è attentissima a difendere le sue priorità strate-iche. Per esempio, nella crisi nordcoreana sta strenuamente ed efficacemente bloccando l'opzione militare sostenuta dal segretario della difesa Usa Rumsfeld, in Iraq chiede che, guerra o no, tutto sia deciso in ambito Onu, e per ora così sta accadendo. In altre parole, Pechino non tenta operazioni di contrasto a tutto campo, come faceva l'Urss con gli Usa, tenta piuttosto di fare una gerarchia dei suoi desideri, mettendoli in ordine di importanza secondo quello che è più vicino alla Cina e quello che si può più facilmente otte-nere. Così, con la crisi in Iraq, per la pri-ma volta la Cina ha cominciato a partecipare alla politica in Medio Oriente, mentre con il bombardamento della sua ambasciata a Belgrado nel 1999 è entrata nella discussione della politica europea, per la prima volta nella storia millenaria del paese. Allora la futura crescita della sua economia e il rafforza-mento del suo apparato militare, l'ampliamento dei suoi interessi commerciali e di quelli strategici legati alla ricerca di materie prime e tecnologie ne-cessarie alla sua crescita economica, non porteranno la Cina a essere sempre più assertiva e presente in ambito globale?



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