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YASSER ARAFAT

di Sergio Romano

da "Corriere.it"

Quando cominciò a scrivere la biografia del Baron Corvo (una delle più enigmatiche figure del mondo letterario inglese fra Ottocento e Novecento), A. J. A. Symons scoprì che il suo personaggio si era lasciato alle spalle, per meglio depistare i suoi contemporanei, uno straordinario numero di bugie e di mezze verità. Yasser Arafat, che il presidente Bush e il premier israeliano Ariel Sharon vorrebbero relegare negli archivi della storia, ha condito la tecnica del depistamento autobiografico con un pizzico di fantasia araba. Per quasi tutti gli eventi della sua vita esiste una doppia versione.
Sappiamo che venne al mondo il 24 agosto 1929, ma non sappiamo se sia nato a Gerusalemme, come egli ama far credere, o al Cairo. Sappiamo che il suo vero nome è Mohammed Abder Rauf Arafat al-Kudwa al Husseini. Ma sulla sua parentela con gli Husseini (una delle maggiori dinastie arabe di Gerusalemme) corrono voci diverse.
Secondo alcuni biografi, Arafat avrebbe rivendicato con orgoglio, in qualche circostanza, una inesistente parentela con Amin al Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme, alleato di Hitler nella lotta contro gli inglesi e gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
Secondo altri si sarebbe sbarazzato del nome per non essere accusato di simpatie naziste. E' dunque un «patologico bugiardo», secondo la definizione che dette di lui, un giorno, Ariel Sharon? Forse. Ma la sua vita, per molti aspetti, è straordinariamente coerente.
Nacque quasi certamente al Cairo. Il padre commerciava in tessili ed era egiziano di origine palestinese mentre la madre apparteneva a una vecchia famiglia di Gerusalemme. Fu questa la ragione per cui il piccolo Yasser, dopo la morte della madre, fu affidato a uno zio materno e allevato per qualche anno nella città santa. Più tardi, parlando di quel periodo, disse di non avere mai dimenticato la notte in cui alcuni soldati inglesi devastarono la casa dello zio e trattarono brutalmente i membri della famiglia. Ma è probabile che questi ricordi appartengano al suo autoritratto agiografico.
Dopo quattro anni a Gerusalemme tornò al Cairo, proseguì gli studi e cominciò a occuparsi di politica. Terminata la guerra, trasportava armi di contrabbando in Palestina per le operazioni di guerriglia contro gli inglesi e gli ebrei. A diciannove anni, durante il primo conflitto arabo-israeliano, combatteva con l'esercito egiziano nella striscia di Gaza. Qualche mese dopo era di nuovo al Cairo, scoraggiato, depresso, deciso a emigrare in America.
Ma rimase in Egitto, terminò gli studi con un diploma d'ingegneria all'università del Cairo e divenne leader di organizzazioni studentesche.
Fu verso la fine degli anni Cinquanta che la sua vita subì una brusca trasformazione. Nel 1956, allorché una spedizione anglo-francese, appoggiata dagli israeliani, cercò di impedire la nazionalizzazione del canale di Suez e di rovesciare il regime di Nasser, Arafat, a quanto pare, combatté nel Sinai come ufficiale della riserva dell'esercito egiziano. Ma nei mesi seguenti andò in Kuwait, trovò impiego nel Dipartimento dei lavori pubblici e creò di lì a poco una piccola impresa di costruzioni. Fu una una breve parentesi civile. Due anni dopo, nel 1958, fondò con un gruppo di amici una organizzazione clandestina, Al Fatah, composta da cellule segrete che si ripromettevano di colpire gli israeliani nel loro territorio. Un anno dopo, nel 1959, Al Fatah pubblicava il suo primo bollettino e cinque anni dopo, nel 1964, Arafat ne dirigeva le operazioni dal territorio giordano. Fra i molti gruppi dell'epoca, riuniti sotto l'ombrello di un «consorzio» finanziato dai Paesi arabi (l'Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina), Al Fatah dimostrò di essere, soprattutto durante la «guerra dei sei giorni», il più intraprendente ed efficace. La coalizione araba fu sconfitta, ma Arafat vinse la sua prima importante battaglia politica e divenne, due anni dopo, presidente del comitato esecutivo dell'Olp. Il piccolo ingegnere Arafat, leader di un gruppuscolo mediorientale, è ormai il «chairman Arafat», protagonista politico di tutte le crisi regionali dal 1967 ai nostri giorni.
Non basta. Grazie ad Arafat l'Olp non è più un semplice strumento della politica araba. E' una organizzazione indipendente, capace di formulare i propri obiettivi politici e di affrancarsi, entro certi limiti, dal controllo delle potenze regionali.
Ma è certamente una organizzazione terroristica. Dove gli eserciti hanno fallito, riusciranno, secondo Arafat, le bombe, le operazioni di commando, i dirottamenti. Comincia così la sanguinosa stagione degli attentati negli aeroporti, sugli aerei, contro le istituzioni ebraiche nel mondo e contro gli atleti israeliani ai Giochi Olimpici di Monaco.
Ecco qualche esempio tratto da un solo mese del 1970. Il 6 settembre i terroristi palestinesi s'impadroniscono di quattro aerei sulle rotte del Cairo, di Amman e di Londra. Il 9 costringono un aereo delle linee britanniche ad atterrare sull'aeroporto di Dawson's Field in Giordania. Il 12 distruggono con gli esplosivi tre dei velivoli parcheggiati nell'aeroporto giordano.
Non tutti gli atti terroristici sono riconducibili ad Al Fatah, ma Arafat diventa rapidamente il maggiore avversario dello Stato ebraico. Ha molti nemici, tuttavia, anche nel campo arabo. In Giordania, dove i palestinesi sono divenuti ingombranti e l'Olp è ormai uno Stato nello Stato, re Hussein, pochi giorni dopo gli ultimi dirottamenti, ordina all'esercito di cacciare gli ospiti. Dopo dieci giorni di combattimenti per le vie e nelle case di Amman, le ostilità cessano con una tregua, sottoscritta al Cairo dal re, dal presidente dell'Olp e da alcuni leader arabi. Ma le milizie di Arafat dovranno abbandonare la Giordania e trasferirsi in Libano. I palestinesi erranti sembrano ormai condannati a imitare i loro nemici ebrei, ma portano con sé, nelle loro trasmigrazioni, i mitra che appaiono da quel momento sui loro stendardi. E «Settembre nero», in ricordo della tragica guerra civile giordana, diventerà il nome di una nuova organizzazione terroristica.
Comincia così, nella vita di Arafat, il capitolo libanese. Il leader, ormai, è divenuto una icona. E' piccolo, tozzo, brutto, il viso coperto da una barba ispida, il torso avvolto in una giubba militare di taglio inglese, la testa nascosta da una kafiah bianco-azzurra. Ma ha occhi vivaci e un sorriso accattivante. Chiunque lo abbia visto a Cernobbio, ospite con Shimon Peres del Seminario Ambrosetti negli anni in cui i due Nobel per la pace sembravano garantire il futuro della regione, sa che il vecchio guerrigliero può essere un magistrale incantatore di serpenti. Se ne accorsero i delegati dell'Onu quando fece la sua apparizione all'Assemblea generale nel 1972 con una pistola al fianco e un ramoscello d'ulivo nella mano destra.
In Libano, nel frattempo, il capo dell'Olp approfitta della guerra civile per installare le sue milizie e proseguire la guerra di guerriglia che aveva lanciato contro Israele dal territorio giordano. Ed è qui che nel 1982 Arafat incontra il suo maggiore nemico. A Gerusalemme il ministro della Difesa è Ariel Sharon, veterano di tutte le guerre e paladino delle maniere forti. Sharon invade il Libano e si serve delle milizie cristiane per attaccare i campi palestinesi di Sabra e Shatila. E Arafat è costretto, ancora una volta, a partire. Troverà rifugio a Tunisi dove s'installerà per qualche anno con il suo quartiere generale. E' uno dei momenti peggiori della sua vita. Cacciato dal Libano e dalla Siria, costretto a separarsi dalle sue milizie e insidiato dai servizi israeliani, sfugge a un attentato, esce più o meno indenne da un incidente aereo, sopravvive a un infarto.
Ma in quello stesso periodo sposa segretamente una giovane palestinese (il matrimonio verrà pubblicamente annunciato quindici mesi dopo) e diviene padre di una bambina.
A Gerusalemme, nel frattempo, gli israeliani constatano che l'operazione libanese ha prodotto risultati imprevisti. Dopo avere combattuto il terrorismo laico di Arafat debbono ora affrontare un nemico ancora più insidioso: il terrorismo religioso dei gruppi integralisti. Non basta.
Nella seconda metà degli anni Ottanta la protesta si estende ai territori occupati e diventa una «rivolta delle pietre» (Intifada). E' questo il momento in cui Arafat decide di cambiare politica. Nel 1988, a Ginevra, in occasione di una seduta speciale delle Nazioni Unite, dichiara che l'Olp intende rinunciare al terrorismo, auspica la fine del conflitto, intravede un Medio Oriente in cui lo Stato palestinese potrà vivere «in pace e in sicurezza» con Israele e i suoi vicini. E' possibile prestargli fede? Molti israeliani diffidano di lui e non saranno sorpresi allorché il leader palestinese, all'epoca della Guerra del Golfo, si schiererà dalla parte di Saddam.
Ma il vecchio camaleonte ha ancora una straordinaria agilità politica e sa cogliere le buone occasioni. Terminato il conflitto, approfitta di una migliore costellazione israeliana (i laburisti hanno vinto le elezioni del giugno 1992) e avvia trattative che si concluderanno con gli accordi di Oslo dell'anno seguente.
Il resto è storia degli ultimi dieci anni, vale a dire di un periodo in cui ogni evento è oggetto di almeno due interpretazioni contrastanti.
Arafat non ha potuto o voluto controllare le fazioni più radicali del campo palestinese e ha certamente permesso che l'amministrazione dell'Autorità divenisse una delle più corrotte della regione. Ma ha dovuto confrontarsi con governi israeliani a cui premeva diluire o sabotare gli accordi di Oslo.
Il suo maggiore errore fu a Camp David (luglio 2000), verso la fine della presidenza Clinton, quando non ebbe il coraggio di accettare il piano offertogli dal Primo ministro israeliano Ehud Barak. Ma anche su quell'episodio e sulle responsabilità dei protagonisti corrono versioni diverse. Il bilancio di una vita, del resto, è possibile soltanto alla fine, quando sulla storia di un uomo cala il sipario. Siamo davvero certi che quella di Arafat, dopo le ultime dichiarazioni del presidente Bush, possa considerarsi conclusa? L'imperturbabile ottimismo con cui ha reagito alle dichiarazioni americane sembra dimostrare che il vecchio «bugiardo» ha ancora un asso nella manica.
Prima di scrivere la parola fine è meglio aspettare la sua prossima mossa.






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