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ANKARA, STRETTA TRA LA GUERRA DI BUSH E IL MEDIO ORIENTE

di Giancarlo Lannutti

da "Liberazione" del 04.08.02

Ankara recalcitra di fronte alle intemperanze di Bush e cerca di sfilarsi dalla trappola in cui rischia di cacciarla la preannunciata (seconda) guerra americana contro l'Iraq di Saddam Hussein. Un'impresa in verità tutt'altro che facile per il primo ministro Ecevit, il quale sa benissimo che i legami strategici e gli obblighi militari con Washington entrano oggi in palese contraddizione con gli interessi specifici della Turchia a breve e medio termine, a cominciare dall'ingresso nell'Unione europea. Il quadro regionale e internazionale è infatti ben diverso da quello della prima guerra contro Saddam, undici anni fa. Allora la Turchia fu parte in causa, gli aerei che bombardavano Baghdad partivano anche dalle sue basi, ma questo avveniva nel contesto di una ampia coalizione internazionale di cui facevano parte anche paesi arabi come l'Egitto, la Siria, l'Arabia Saudita, il Marocco; oggi il mondo arabo è unanime nell'opporsi a un attacco all'Iraq, lo stesso Kuwait subordina il suo eventuale assenso a una risoluzione dell'Onu che appare altamente improbabile, per non dire impossibile; e mentre allora Israele fu costretto, benché recalcitrante, da Bush padre a restare fuori dal conflitto, oggi la guerra privata di Sharon contro i palestinesi è strettamente intrecciata con la guerra "duratura" di Bush figlio ieri contro l'Afghanistan, domani contro l'Iraq e dopodomani chissà contro chi altro (a cominciare magari dall'Iran, ma questo è un capitolo che affronteremo a parte). Ecco, Israele: qui sta un elemento non secondario di novità rispetto al 1991. Alla metà degli anni Novanta la conclusione di un asse strategico - politico, economico e militare - fra la Turchia e Israele segnava in un certo senso una svolta o comunque un punto di forza, del progetto americano per il controllo della regione e delle sue risorse petrolifere, esaltando fra l'altro il ruolo di Ankara ben al di là di quello tradizionale di bastione della Nato nel punto di cerniera fra Europa, Medioriente e Asia centrale. Con la Regione stretta nella tenaglia dei due più potenti eserciti dell'intera area e con le città e i centri nevralgici di paesi come l'Iraq e la Siria ormai a portata dell'aviazione israeliana, grazie alla disponibilità delle basi turche, i rapporti di forza su scala locale mutavano in modo evidente, e se ne è avuto il primo clamoroso esempio con la drammatica vicenda del leader kurdo Ocalan, sloggiato da Damasco per la congiunta pressione militare di Ankara e Tel Aviv per finire poi abbandonato da un'Europa imbelle alla mercé dei suoi aguzzini. Un vero e proprio banco di prova della "normalizzazione" americana di cui l'asse turco israeliano doveva essere lo strumento. La contropartita era, per Ankara, il sostegno tecnologico e finanziario di Tel Aviv per penetrare nell'area dell'Asia centrale ex Sovietica, prevalentemente turcofona. Se nonché la tragedia dell'11 settembre e i suoi seguiti, con la dissennata "crociata" di Bush (seguito a ruota da Sharon) hanno rimescolato le carte e reso tutto più difficile. Un nuovo conflitto contro l'Iraq - che sarebbe più duro e sanguinoso di quello del 1991 - troverebbe la Turchia pericolosamente esposta su una serie di temi nevralgici. Andando con ordine: un rinvio sinedie delle elezioni fissate per novembre, con il prolungarsi di una crisi politica, ma dalle radici anche economiche, che appare ormai insanabile; il timore che la possibile dissoluzione dell'Iraq abbia come conseguenza la nascita di uno stato kurdo nel nord del paese, con gli inevitabili contraccolpi sulla questione del Kurdistan turco, per ora apparentemente sopita ma tutt'altro che chiusa (come dimostrano le limitate concessioni "linguistiche" votate dal Parlamento di Ankara); un nuovo rallentamento del processo di adesione all'Unione europea, che ha indotto il Parlamento turco a varare misure di democratizzazione che però, per quanto in parte "di facciata", mal resisterebbero alla stretta militaristica inevitabile in caso di conflitto (e non dimentichiamo che alla questione dell'Europa è legato anche l'annoso problema di Cipro e della sorte dello staterello secessionista turco-cipriota); infine il prevedibile inasprirsi all'interno, in chiave anti Usa e anti occidentale, della pressione di un movimento islamico contro la cui crescente influenza i militari hanno dovuto intervenire già due volte nel recente passato. Anche la faticosa costruzione di un nuovo rapporto con l'insieme del mondo arabo, che nei mesi scorsi ha visto Ankara assumere inedite posizioni a favore dell'Autorità palestinese, verrebbe di fatto rimessa in discussione. E' un intreccio di problemi, come si vede, che metterebbe a dura prova anche un governo "forte"; figurarsi uno come quello di Bulent Ecevit che ormai perde pezzi da tutte le parti. Questo spiega l'affannoso attivismo del primo ministro e i suoi incontri a catena da un lato con i vertici militari e dall'altro con gli esponenti dell'amministrazione Usa, agganciandosi anche alla sponda insperatamente offerta dalla recente mossa di Saddam sulla questione degli ispettori Onu. Ma se le pressioni congiunte dei paesi arabi - inclusi alleati "storici" dell'America come l'Arabia Saudita, la Giordania e l'Egitto - sembrano impotenti di fronte alla ostinazione di Bush figlio e dei "falchi" che lo circondano, non ci vuol molto a capire che quando il premier turco si vedesse presentare il conto non potrebbe esimersi dal pagarlo, con tutte le conseguenze del caso. Sempre che a quella data non sia già uscito di scena.






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