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25 LUGLIO 1943: L'ULTIMA NOTTE DELLA DITTATURA

di Annibale Paloscia

da "Liberazione" del 25.07.02

Fu l'ultima notte della dittatura di Mussolini e lui ne ebbe la consapevolezzza, tanto che appena si concluse la riunione del Gran Consiglio telefonò a Claretta, l'amante (la tefonata fu intercettata dal servizio informazioni) e le disse con l'enfasi dell'eroe sconfitto: «Siamo giunti all'epilogo.... alla più grande svolta della storia». Naturalmente si guardò bene dal mostrarsi finito ai gerarchi che ancora confidavano nel suo genio, ai tedeschi che ritenevano di poterlo ancora usare, al re che aveva sempre avuto paura di lui, ma ora poteva alzare un po' la testa. Con un grande cronaca, che è insieme una grande lezione di storia, Claudio Fracassi (ex direttore di "Paese sera" e di "Avvenimenti") racconta La lunga notte del Duce (edizione Mursia, pagine 500, euro 22,90). E' una lezione di storia non bipartisan, come la vorrebbe il presidente della Rai, non revisionista, senza manipolazioni per far somigliare Mussolini e Hitler a Roosevelt e Churchill, Farinacci a Gobetti, il giornalista Gaetano Polverelli, autore delle veline del Duce, a Giorgio Bocca. Senza il racconto dei personaggi, dei loro palazzi, delle loro alcove, delle loro conversazioni private, delle loro ambizioni personali, dei loro maneggi, e senza il grande scenario della guerra e del popolo furibondo, senza cibo e sotto i bombardamenti, la data del 25 luglio 1943 resterebbe solo una nozione della storia accademica destinata ad essere sempre più dimenticata. La cronaca di Fracassi è scadenzata su 15 giorni: da sabato 10 luglio 1943, il giorno in cui in cui le truppe anglamericane sbarcarono in Sicilia, a domenica 25 luglio, il giorno in cui il re finalmente ebbe il coraggio di «detronizzare» il duce e di metterlo agli arresti. L'Italia aveva perso la guerra, la Sicilia invasa, Roma bombardata. Mussolini sperava solo in Hitler e cercava di prendere tempo ingannando gli italiani come sempre aveva fatto. L'uomo che Fini ha definito una volta come uno dei più grandi statisti del secolo parlava così: non può vincere la guerra un popolo (gli americani) «che ha un presidente paralitico»; le truppe sbarcate in Sicilia devono essere annientate «in modo che si possa dire che hanno occupato un lembo della nostra Patria, ma l'hanno occupato rimanendovi per sempre in una posizione orizzontale; i fascisti sono «la migliore categoria del fronte interno, ma poi c'è la deteriore composta di tutti coloro che sono minorati fisici, e minorati morali, da tutti coloro che sono ciechi, storpi, sdentati, cretini imboscati deficienti. Tutti costoro, siccome non hanno mai fatto la guerra, siccome non potranno mai fare la guerra, trovano un alibi alla loro coscienza, dicendo che questa guerra non si doveva fare». Quanto alla sua «tempra granitica» ne abbiamo un esempio nell'uomo di polvere seduto di fronte a Hitler. L'incontro avvenne a Feltre il 19 luglio del 1943, mentre Roma era sotto le bombe con i quartieri popolari in fiamme e migliaia di morti. A Hitler le notizie drammatiche da Roma non fecero nessun effetto. Parlò per due ore, fece una requisitoria contro la vigliaccheria e la disorganizzazione degli italiani senza che Mussolini lo interrompesse mai. Ascoltava e non ribatteva. Scrisse nel diario l'ambasciatore italiano in Germania presente all'incontro che il Duce «non aveva mai aperto bocca». La cricca dei gerarchi che per venti anni avevano obbedito ciecamente a Mussolini era composta di uomini mediocri che avevano legato i loro interessi al regime. Alcuni di loro - Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Galeazzo Ciano, genero del duce - avevano avuto il buon fiuto di assumere posizioni critiche verso l'alleanza con la Germania nazista e l'avventura della guerra. Mussolini non ne aveva tenuto alcun conto anche perché tutto sommato erano state critiche blande, e non potevano essere dippiù visto che quegli uomini avevano mostrato risolutezza soprattutto nel tenersi i loro onori e i loro incarichi di prestigio. La guerra persa mutava la situazione. Quegli uomini, che, erano stati, in qualche modo, le coscienze critiche della cricca mussoliniana, ingaggiarono una partita ad altissimo rischio per indurre il duce a mettere fine alla dittatura e per costringere il re a formare un governo in grado di avviare trattative di pace con le nazioni democratiche. Mussolini non avrebbe esitato a farli arrestare se si fosse sentito alle corde. Ma, per loro l'alternativa alla battaglia politica contro Mussolini era affidarsi a Hitler e lasciare che l'Italia diventasse l'ultimo bastione dell' esercito nazista contro le armate alleate: un paese in fiamme dalla Sicilia alle Alpi. La riunione del Gran Consiglio, in cui si decisero le sorti dell'Italia, fu convocata da Mussolini per la sera del 24 luglio. Credeva di potere avere partita vinta contro gli sfidanti. La maggioranza dei gerarchi o era favorevole a mettersi nelle mani di Hitler (soprattutto Farinacci) o, comunque non avrebbe mai firmato un ordine del giorno contro di lui, per soggezione morale e politica. Mussolini ostentava sicurezza davanti al partito e agli uomini del re, ma nell'intimo non aveva la certezza assoluta di poter ridurre all'obbedienza i ribelli ed era preoccupato. Dice in una telefonata a Claretta: «So che mi chiederanno conto di tutto il mio operato». «E tu?». «Io ho pronta la documentazione di quello che erano e di che cosa sono, per ognuno di loro; ma credo che ciò non basti». Infatti, non basta. Vince la risolutezza di Grandi che invoca la monarchia «a tornare allo Statuto, alla Costituzione», a ripristinare le funzioni del parlamento «che deve tornare ad essere strumento libero e consapevole del potere legislativo». Scrive Fracassi: «Il discorso aveva scosso l'assemblea. Mai davanti al duce erano state pronunciate parole così chiare contro la dittatura, mai era stata fatta un'analisi così spietata della tragedia del regime e dell'Italia. Ma nello stesso tempo Grandi aveva fatto leva sui motivi di smarrimento e di scontento che ognuno, fra i gerarchi presenti, conosceva e provava; e aveva lasciato apparantemente a Mussolini, la cui supremazia non aveva contestato, la responsabilità di unirsi al Gran Consiglio per una radicale svolta nella gestione del potere». Mussolini capisce che il discorso di Grandi ha fatto presa sulla maggioranza dei gerarchi e cerca un pretesto per sospendere la riunione. Ma Grandi insorge: «Scusami duce, ma quando si trattava dei Balilla e del dopolavoro, ci trattenevi qui fino alle quattro del mattino. Possiamo continuare a lavorare, ora che si tratta di decidere problemi vitali per la nazione». Alla fine si vota sull'ordine del giorno Grandi. Mussolini lo mette in votazione per primo, perché vuol contare gli avversari, e ha fiducia che la maggioranza dei gerarchi aspetterà di votare sull'altro ordine del giorno preparato dal segretario del partito. Ma l'ordine del giorno Grandi passa con diciannove si, sette no, un astenuto. E' la fine del regime decisa «paradossalmente», scrive Fracassi col primo voto dato secondo le regole democratiche dopo venti anni di dittatura. Fracassi restituisce alla notte del Gran Consiglio un rilievo storico che una vasta produzione memorialistica e libellistica nel dopoguerra era riuscita a ridimensionare. «L'obiettivo era in sostanza quello di bollare col marchio del "tradimento" e del "complotto" tutti i protagonisti del 24 e 25 luglio. Ad opera di ambienti vicini al re e ai militari fu diffusa la tesi poco sostenibile della irrilevanza del voto del Gran Consiglio, visto che la monarchia e i vertici dello Stato Maggiore avrebbero comunque agito». La verità è che Grandi «protagonista assoluto della battaglia politica che si svolse in seno al Gran Consiglio» portando la maggioranza a votare il suo ordine del giorno aprì la strada all'iniziativa del re. Vittorio Emanuele III, corresponsabile delle malefatte del regime, era un intrigante pavido e molliccio che non si sarebbe mai messo contro Mussolini senza avere nelle mani il mandato costituzionale fornitagli dal documento del Gran Consiglio.






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