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LA TORTURA SECONDO BUSH

di Daniele Zaccaria

da "Liberazione" del 26.07.02

Il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite ha approvato ieri un importante protocollo per sanzionare gli stati che nel mondo praticano la tortura. Ma gli Usa si sono atenuti. Dopo un lungo ciclo di discussioni, in cui Washington ha a lungo osteggiato il contenuto del documento, invocando la sua presunta incongruenza con il dettato della Costituzione americana, l'Onu è riuscita a spuntarla. Anche perché molte delegazioni cominciavano a mostrare visibili segni d'insofferenza verso il sistematico ostruzionismo della Casa Bianca: «Gli Stati uniti vogliono guadagnare tempo per uccidere il protocollo», aveva tuonato poco prima dell'accordo la Danimarca, Presidente di turno dell'Unione europea. Non del tutto a torto, in quanto, per riuscire a rinviare il voto, la diplomazia statunitense si era prodigata in una vera e propria schermaglia giuridica, evocando e comparando leggi, trattati e convenzioni internazionali, per riuscire a dimostrare come un tale protocollo costituisse una flagrante ingerenza nella sua sovranità nazionale: "E' una violazione delle nostre leggi e del nostro ordinamento giudiziario", si è giustificato goffamente un delegato. Ma, come spesso accade, ogni disputa ideologica dissimula un interesse più che concreto. In questo caso il problema risiede nel carattere effettuale delle sanzioni previste nel testo. A cominciare dall'istituzione di un ispettorato incaricato di compiere dei controlli a sorpresa per verificare le condizioni di detenzione dei prigionieri nei differenti paesi. Un'autentica spada di Damocle per una nazione che è da tempo nel mirino delle Nazioni Unite e delle associazioni umanitarie, per il trattamento riservato ai membri di Al Qaeda, rinchiusi nella prigione militare di Guantanamo. La dissociazione di ieri, impedirà che gli ispettori dell'Onu possano presentarsi ai cancelli del famigerato campo di detenzione "X-ray" per verificarne le condizioni di detenzione. Infatti, solo le nazioni firmatarie del protocollo, sono soggette ai suoi vincoli: ragion per cui ora Washington non corre più tali pericoli. Ma anche senza scomodare le poco limpide procedure della giustizia militare, è l'intero sistema carcerario americano che avrebbe rischiato di venire di venire messo all'indice dall'opinione pubblica internazionale. Le recenti esibizioni muscolari della polizia californiana verso ragazzi neri (prontamente riprese dalle sempre più provvidenziali telecamere amatoriali), hanno infatti riaperto il mai archiviato dibattito sull'effettiva democraticità delle forze dell'ordine statunitensi, e delle loro costanti performance a base di manganellate contro cittadini inermi, ma considerati "sospetti". Il testo finale, approvato con 35 voti a favore, 8 contrari e dieci astensioni (assieme agli Usa si sono schierati anche la Cina, la Russia, Cuba, Sudan, Egitto, Pakistan e Libia) è il frutto di uno sfibrante itinerario diplomatico durato più di dieci anni (l'ultimo trattato anti-tortura era quello di Ginevra del 1984, condiviso peraltro anche dagli Usa, ma erano altri tempi). E che ora riceve l'applauso delle principali organizzazioni umanitarie: «Siamo felici. il protocollo diventerà un autentico strumento contro l'uso politico della tortura. La maggior parte degli stati si è resa conto che, invocando l'unanimità, gli americani ponevano di fatto un veto sul documento» ha esultato Joanna Weschler di "Human Rigth Watch". La ratificazione finale della bozza da parte dell'Assemblea dell'Onu (che scriverà nero su bianco gli orientamenti generali del protocollo) è prevista per il prossimo autunno, ma ormai sembra una pura formalità. E dire che appena qualche giorno fa, nel corso di una conferenza stampa a Mosca, l'ambasciatore degli Stati Uniti in Russia, Alexander Vershbow, aveva duramente denunciato «le gravi violazioni dei diritti dell'uomo sulla popolazione civile cecena, commesse dalle forze armate russe nel nome della lotta al terrorismo». Colpisce in particolar modo l'umoristico riferimento alla pretestuosità della "lotta al terrorismo", che poi non è altro che l'asse attorno a cui ruota l'intera strategia militare di Casa Bianca e Pentagono dall'undici settembre in poi. Il più inamovibile presupposto concettuale della "guerra infinita"di George. W. Bush, che è servito da cauzione per i bombardamenti in Afghanistan e nella realizzazione di imponenti dispositivi securitari nelle grandi città occidentali. Detta da un loro esponente, una frase del genere acquista davvero il sapore della beffa. Ma evidentemente la macabra geografia degli abusi militari non disegna una omogenea mappa delle responsabilità, le quali variano a seconda di chi sia il soggetto che commette le "gravi violazioni dei diritti umani". Tra il dire e il fare spesso, s'interpongono gli stringenti dettàmi della realpolitik e le mille articolazioni della "ragion di stato". Che oggi pongono gli Stati uniti di fronte ad una contraddizione grande come una casa. Da un lato si fregiano d'incarnare l'essenza stessa della democrazia, autoproclamandosi avanguardia della comunità internazionale. Ma dall'altro sono i primi ad infrangerne le regole, appena queste ultime intralciano i loro interessi nazionali.

UN FALSO STATO DI DIRITTO

di Ciccio Radar



A poche settimane dall’anniversario del G8 di Genova , si presentano nuovi e interessanti sviluppi dell’inchiesta giudiziaria sui tragici contemporanei fatti di piazza. Tralasciando le circostanze dell’uccisione di Carlo Giuliani, di cui trovate un approfondimento satirico su altra pagina di ((cr)), penso valga la pena di spendere due righe su quanto accaduto alla scuola Diaz. Certamente ricorderete a cosa mi riferisco, ovvero all’irruzione delle Forze dell’ Ordine all’interno della scuola genovese, quartier generale dei NoGlobal e sede della sala stampa del movimento. Preciso che non si trattava di una scuola “okkupata”, ma di uno spazio regolarmente concesso. La sera dopo la chiusura del summit, appunto, gli zelanti tutori dell’ordine che già avevano massacrato di botte centinaia di pacifici manifestanti (i cattolici di Lilliput e Pax Christi – che tutti spero abbiano visto nelle immagini di quei giorni – oltreché fisicamente non particolarmente aggressivi, non credo che si ispirino a principi e atteggiamenti da ultrà, e tantomeno da Black Block…) e che alla caserma Bolzaneto inscenavano una parodia (in realtà ben poco divertente per chi ne è stato vittima) dei futuri campi di prigionia di Guantanamo, organizzavano un’irruzione alla Diaz. Dissero che ciò fu necessario in seguito ad una sassaiola di alcuni manifestanti nei confronti di un mezzo della Polizia. FALSO: l’agente che firmò il verbale sull’accaduto ha ammesso di averlo fatto su indicazione dei colleghi, non avendo per nulla visto sassi o altri oggetti lanciati sull’automezzo!! Dissero poi che un agente di polizia rimase accoltellato durante gli scontri. FALSO: I Carabinieri del Reparto Investigazioni Scientifiche hanno rilevato come fu lo stesso agente ad auto-infliggersi una lacerazione da coltello!! Dissero che, dopo aver letteralmente pestato a sangue i giovani e i meno giovani, donne e uomini, italiani e stranieri, della scuola Diaz, erano state rinvenute spranghe, bastoni ,e molotov. FALSO: quelle spranghe e quelle catene provenivano da un cantiere lì vicino e nessuno è mai riuscito a dimostrare che fossero state utilizzate dai no-global durante il vertice, mentre sulle molotov gli inquirenti hanno già stabilito trattarsi di oggetti incendiari rinvenuti altrove precedentemente ai fatti della scuola Diaz : lo stesso agente che le ha ritrovate altrove le ha riconosciute!! E’ quindi assolutamente acquisito che le Forze dell’Ordine hanno mentito su tali avvenimenti, come è probabile che sia accaduto per altre circostanze ancora in corso di accertamento. Ci troviamo quindi in una situazione in cui gli Organi che ci dovrebbero difendere, tutelare e proteggere mentono a se stessi e ai cittadini, poi indagano su se stessi e poi… Le Forze dell’ Ordine, in uno Stato di diritto, sono le uniche a poter esercitare la violenza. E’ questo un onere che va esercitato solo in situazioni estreme e in cui si renda assolutamente necessario. Vale quindi forse la pena di riflettere sul fatto che le mele marce , all’interno di un meccanismo così potente e delicato, vanno ricercate e perseguite con puntualità e precisione, nonché con certezza e in tempi rapidi. I recenti fatti che hanno coinvolto la Questura napoletana purtroppo non vanno in tale direzione, acuendo lo scontro (certo, probabilmente anche politico) tra diversi Poteri dello Stato, dove la Magistratura indaga, mentre il Ministro regala promozioni ad alti funzionari ancora indagati e comunque sottoposti a inchieste disciplinari per gravi fatti, sempre di violenza. Gli esponenti politici, di destra o di “sinistra” che siano, i quali continuano a negare l’esistenza di un disegno repressivo gestito dall’alto, dovrebbero sentirsi in dovere di fornire spiegazioni soddisfacenti all’opinione pubblica e appoggio incondizionato a cittadini violentemente colpiti nell’esercizio del loro diritto di manifestare. Le indagini stanno portando oggettivamente alla luce con prove concrete l’esistenza di meccanismi antidemocratici di repressione i quali, scattando con preoccupante precisione in occasione di avvenimenti internazionali, non sono certo degni di un vero stato di diritto.
M.C. & L.B. ((cr))

"MAI PIU' SFRUTTARE I BAMBINI" ORA LA NIKE CERCA IL RISCATTO

di Federico Rampini

da "Repubblica.it" del 22.06.02

SAN FRANCISCO - Per il movimento no-global è una strana vittoria, dover celebrare l'apertura di una fabbrica dell'odiatissima Nike nel Terzo mondo. Eppure di vittoria si tratta. La celebre multinazionale americana sta per tornare a produrre scarpe e abiti sportivi in Cambogia, dopo esserne fuggita per le accuse di sfruttamento del lavoro minorile. Ma se ora può tornarci è perché la battaglia dei no-global, delle associazioni di consumatori e dei sindacati americani ha avuto successo. La Cambogia, infatti, apre le sue fabbriche ai controlli internazionali sui diritti dei lavoratori, e si impegna a debellare la piaga sociale dei bambini-operai costretti a produrre per i paesi ricchi. Due anni fa l'immagine della Nike subì un duro colpo proprio a causa della Cambogia: tempestata dalle accuse di sfruttare manodopera infantile, minacciata dal boicottaggio dei consumatori "politically correct", l'azienda americana si difese garantendo che i suoi fornitori cambogiani impiegavano solo ragazze sopra i 16 anni, ma fu messa alla gogna dall'inchiesta-verità di una tv americana che riuscì a filmare fabbriche dove lavoravano eserciti di bambine. Per il "logo" della Nike - il più grosso sponsor di avvenimenti sportivi nel mondo - la macchia era indelebile. La multinazionale Usa per limitare i danni decise di cancellare tutti i contratti con i suoi fornitori cambogiani. Fu una prima vittoria per il composito "popolo di Seattle": l'alleanza fra gruppi terzomondisti, difensori dei diritti umani e sindacati, che nel dicembre 1999 avevano paralizzato il vertice del Wto a Seattle anche per protestare contro il dumping sociale, la delocalizzazione delle produzioni industriali verso paesi con bassi salari e nessuna legislazione del lavoro. La ritirata della Nike però fu anche una sciagura per la Cambogia. L'industria del tessile abbigliamento frutta a Phnom Penh un miliardo di dollari di ricavi, pesa per più dell'80 per cento delle esportazioni cambogiane e dà lavoro a 180.000 operai, per lo più donne e ragazze emigrate dalla miseria delle campagne che rimandano a casa i loro salari per mantenere le famiglie. Il boicottaggio militante del popolo no-global rischiava di provocare più danni che benefici: senza multinazionali americane il paese si impoverisce e lo sfruttamento minorile continua lo stesso. Alla fine sono stati i sindacati Usa a trovare una via d'uscita. La potente confederazione Afl-Cio ha insediato a Phnom Penh un rappresentante permanente, Jason Judd, per premere sul governo e sugli industriali cambogiani; al tempo stesso, i vertici del sindacato facevano lobbying a Washington per l'invio di ispettori internazionali. "Abbiamo capito che l'unica cosa da fare era di migliorare il rispetto dei diritti umani, delle tutele e delle condizioni di lavoro, in modo che le grandi aziende americane come Nike e Gap si sentissero sicure nell'affidare commesse ai nostri stabilimenti" ha dichiarato al Financial Times Van Sou Ieng, presidente della Federtessile cambogiana. Il governo di Phnom Penh ha dovuto cedere: ha aperto per la prima volta le sue frontiere all'International Labour Organisation (Ilo) di Ginevra, che ha sguinzagliato i suoi esperti in giro per il paese. Il primo rapporto dell'Ilo - risultato di ispezioni severe in 70 fabbriche - traccia un quadro drammatico: lavoratori pagati sistematicamente sotto il minimo legale, orari massacranti per il ricorso costante a straordinari senza limiti. Ma adesso per lo meno è iniziata un'operazione-trasparenza, che ha pochi eguali negli altri paesi del Terzo mondo. Entro poche settimane un nuovo rapporto degli ispettori Ilo farà nomi e cognomi degli industriali-schiavisti, con un elenco preciso delle fabbriche che non rispettano gli standard minimi di sicurezza e i diritti dei lavoratori. Per le multinazionali Usa si apre un'opportunità: possono ritornare a delocalizzare produzioni di scarpe e vestiti in Cambogia, scegliendo come fornitori solo quelle fabbriche che si guadagnano la sufficienza nei rapporti degli ispettori inviati dalla Svizzera. "Per noi è attraente - ha detto il portavoce della Nike Chris Helzer - perché l'Ilo ha un'alta credibilità internazionale" (nell'organismo siedono anche i rappresentanti sindacali dei paesi industrializzati). La storica apertura della Cambogia è stata favorita da un'operazione politica degli Stati Uniti. Grazie alle pressioni del sindacato Afl-Cio, Washington ha offerto al paese asiatico un patto senza precedenti. Se migliora il trattamento salariale e la tutela dei diritti dei suoi lavoratori delle fabbriche (a cominciare dal divieto del lavoro minorile), Phnom Pen avrà diritto a una quota aggiuntiva del 18 per cento di esportazioni tessili sul ricco mercato americano. E' una ricompensa allettante in una fase in cui si ridiscutono gli accordi doganali sui prodotti tessili e l'ingresso della Cina nel Wto accentua la competizione fra i produttori asiatici. Per la Cambogia si presenta un'occasione unica. Può candidarsi a diventare una "vetrina", un paese-modello dove le multinazionali Usa sensibili alla propria immagine si sentano libere di subappaltare produzioni a basso costo senza temere scandali per il maltrattamento degli operai. Anche per i sindacati americani è un'opportunità: se funziona l'esperimento cambogiano, possono dimostrare che le loro campagne contro il dumping sociale non nascondono l'egoismo protezionista dei ricchi. Più che per l'ideologia no-global, il ritorno della Nike in Cambogia è la vittoria di una globalizzazione "riformista". La minaccia di un boicottaggio dei consumatori e la paura di un danno all'immagine hanno piegato Nike; il suo ritiro è stato un'arma di pressione sul governo cambogiano; il suo ritorno può segnare una svolta per le condizioni di lavoro locali. "Ora resta da vedere quanto le autorità locali vorranno applicare le leggi - dice il sindacalista Judd - perché una delle attrattive per le multinazionali che delocalizzano nei paesi poveri è sempre il fatto che le regole qui non vengono rispettate". Intanto il rappresentante dell'Afl-Cio a Phnom Penh è impegnato a addestrare una leva di sindacalisti locali: non c'è migliore controllo di quello che i lavoratori esercitano in proprio, quando si organizzano e acquistano potere contrattuale. La strada verso una globalizzazione più umana resta lunga: secondo l'ultimo rapporto pubblicato a Ginevra dalla confederazione internazionale dei sindacati liberi (Icftu), l'anno scorso nei paesi in via di sviluppo sono stati assassinati 223 sindacalisti e feriti altri mille; 4.000 sono stati arrestati; diecimila rappresentanti dei lavoratori sono stati licenziati per rappresaglia. In cima all'elenco delle violenze e delle intimidazioni figurano Cina, Pakistan, Indonesia, Corea del Sud e Colombia.

ACQUA, DA DIRITTO A MERCE

di Emilio Molinari (vicepresidente del Comitato italiano per il contratto mondiale sull'acqua)

da "Liberazione" del 04.09.02

La prima considerazione che mi viene spontanea è sulla città. Johannesburg, una "non-città", è quasi un emblema di ciò che si sta discutendo dentro al summit; è un incubo del futuro che ci aspetta. In questo senso Johannesburg non è un qualcosa di arretrato, è la modernità, la terribile modernità. Un insieme di colline, di parchi dentro ai quali si intravedono stupende ville vittoriane, agglomerati di uniformi villette a schiera, edifici pubblici, tutti collegati da ampie e interminabili strade sulle quali sfrecciano colonne di automobili guidate prevalentemente da bianchi. E campi da golf, da cricket, da tennis, piscine e centri commerciali... E bianchi che giocano, passeggiano... E neri che portano la sacca con le mazze da golf, che curano le piante, che puliscono, che stanno armati agli ingressi dei parchi e delle ville... Già, perché parchi e ville sono anche sempre circondati da muri elettrificati e sormontati da lunghe spire di filo spinato, come se si fosse in una trincea. Muri che con le scritte "armed reaction" e "warning" ammoniscono, con ossessiva ripetizione. E i neri? I neri camminano e s'ammassano sui marciapiedi e lungo le interminabili strade come fantasmi. I neri lavorano ovunque, nei cantieri stradali, nelle costruzioni, dove c'è da servire e sollevare pesi. I neri stanno in fila dietro una sbarra per oltrepassare un muro elettrificato. I neri vestono uniformi blu con la scritta "police" e stanno sui marciapiedi e lungo le strade curando i fantasmi. I neri abitano anche; in quartieri popolari centrali, che in qualche modo sono l'unica forma di ci vita urbana cittadina... Quartieri dove tutti dicono che è meglio non entrare. Ma soprattutto i neri abitano in immense bidonville che vedi scorrere lungo la strada, mentre sull'altro lato scorrono quei muri elettrificati con la scritta "armed reaction". La seconda considerazione riguarda il summit. Le promesse iniziali di un'equa rappresentatività sono ormai miseramente franate. Resta la brutale realtà della schiacciante presenza delle imprese multinazionali e del peso delle sue capacità di corruzione e consenso. Noi come comitato italiano per il contratto mondiale sull'acqua, stiamo seguendo solo i lavori su questa questione. Ma proprio su questa questione tocchiamo con mano il peso della presenza di Vivendi. Non c'è riunione, conferenza, incontro in cui funzionari o tecnici delle multinazionali del settore idrico oppure funzionari governativi di questo o quel paese del sud del mondo, e dell'Africa in particolare non siano presenti ed intervengano con sistematica monotonia ripetendo lo stesso ritornello imparato a memoria e già sentito fino alla nausea in Italia dai politici e dai funzionari pubblici del nostro paese: «L'acqua deve essere gestita da chi ha la competenza, la tecnologia e il denaro. Cioè i privati». Questo fuori dal summit, nei due siti lontani, a più di un ora dal centro e dal summit stesso dove sono state relegate le attività autogestite in promiscua coabitazione con alcune imprese e alcuni organismi governativi: le Ong, i movimenti e la società civile. Dentro è ancor peggio. La presenza è ancor più pressante ed invadente. Lo è nella selezione delle presenze e degli accreditamenti e nel diritto di parola. La giornata del dibattito sull'acqua è stata significativa a tale proposito. Il Contratto Mondiale è stato escluso dalla partecipazione e lo stesso Riccardo Petrella ha potuto parteciparvi attraverso un'altra sigla. Inoltre credo sia significativo il fatto che gli interventi fossero riservati ai soli rappresentanti del ministeri e a due Ong super-accreditate e controllate, mentre l'intervento introduttivo è stato "consegnato" alla presidentessa del Water Global Partnership, nonché presidentessa del Comitato Tecnico Scientifico di Vivendi e le conclusioni al Segretario di Generale des Eaux. Questa è l'immagine dell'oligarchia e così introduciamo la questione dei contenuti. La terza considerazione. E' a tutti noto che il summit, a proposito di acqua, avrebbe dovuto affrontare tre grandi questioni: il principio del diritto umano all'acqua; la privatizzazione, mercificazione della risorsa; la difesa del patrimonio idrico e degli ecosistemi. Il diritto umano, probabilmente anche perché la pressione di un'opinione pubblica, che è andata acquisendo consapevolezza negli ultimi tempi, ha in qualche modo influenzato anche la sfera della politica e delle burocrazie, è stato lasciato in una generica e ambigua indeterminatezza. Tant'è che alla diretta e provocatoria domanda del moderatore, l'ex ministro belga dell'ambiente, che chiedeva a tutti se erano d'accordo per affermare il principio dell'acqua diritto umano, nessuno si è sentito in dovere di rispondere si o no. Solo il ministro dell'ambiente svizzero ha preso la parola rispondendo che, dopo numerosi summit, era una vergogna che stessero ancora a porsi simili domande. Ma è sulla questione della privatizzazione che si anima e si attiva l'attenzione; e ciò è rivelatore della vera finalità del summit. Tutti gli interventi vengono influenzati dalla relatrice e dal sistematico ripetere che solo i privati possiedono tecnologia, competenza e denaro, fino al punto di sostenere che solo i privati potranno garantire il diritto all'acqua a tutti.


L'ITALIA, I ROM E IL RAZZISMO

di C. Cahn e C.D. Carlisle

da "International Herald Tribune" del 16.02.02

Sabato 2 febbraio, Fabio Halilovic di 16 anni è stato colpito e ucciso dai carabinieri alla periferia sud di Roma, presso il campo di Salone, dopo aver oltrepassato un posto di blocco, posto al di fuori del campo in cui viveva. La versione dei carabinieri, così come riportata anche dai quotidiani nazionali, riferisce che una macchina, con quattro ragazzi Rom a bordo si è rifiutata di fermarsi all’alt imposto dal posto di blocco, verso le dieci di sera. I carabinieri dichiarano che la persona al volante della macchina ha cercato di investire gli agenti in servizio. Nella versione dei fatti delle forze dell’ordine la macchina, una Fiat Tipo di colore scuro, ha superato il posto di blocco per poi tornare indietro a retromarcia a forte velocità. Un agente per evitare di essere investito è caduto a terra e dalla sua pistola è partito un colpo accidentale. Il proiettile è entrato dalla parte posteriore della macchina, ha attraversato i sedili e ha colpito Fabio Halilovic alle spalle, passando attraverso un polmone e il cuore. Gli altri passeggeri della macchina lo hanno soccorso e lo hanno portato immediatamente all’ospedale più vicino, dove è morto poco dopo il suo arrivo. Testimoni che hanno visto la successione degli eventi e la sparatoria, non sono in linea con quanto riferito dai carabinieri, soprattutto un testimone oculare ha riferito che l’agente che ha sparato a Fabio non è mai caduto a terra. I vicini di Fabio hanno riferito che era uscito con gli amici per andare in una pizzeria. Fabio parlava italiano con accento Rom e amava il calcio in particolar modo. Ora, come tante volte in passato, arriva la repressione. I media italiani sono inondati con storie di “zingari criminali” e dal comportamento asociale. Già nelle prime ore dopo la sparatoria e l’uccisione di Fabio Halilovic, la responsabilità dell’atto criminale era stata imputata ai Rom che risiedono nel campo. Il 3 febbraio, il giorno dopo, il Messaggero titolava l’articolo ”Nomadi. Ritorna l’emergenza: smantelliamo i campi”. Il Corriere della Sera ha scritto il 6 febbraio, quattro giorni dopo l’uccisione di Fabio, che “Il campo nomadi sarà sorvegliato 24 ore al giorno per ristabilire un minimo livello di legalità”. Il pubblico di lettori è soddisfatto (soprattutto essendo in linea con i toni allarmistici dei quotidiani) dalle misure draconiane che vengono prese. Queste sono state le conseguenze: i campi Rom sono stati perquisiti, almeno tre volte quello di via Salone dove Fabio viveva, intere famiglie svegliate nel cuore della notte e tirate giù dal proprio letto per il controllo dei documenti, moltissime persone detenute in attesa di espulsione, alcune baracche sono state abbattute e le poche e povere proprietà confiscate. Il capo della polizia romana Giovanni Finanzo ha dichiarato ai media: “Oltre 100 espulsioni sono state avviate”. Le autorità italiane, i media e la gente devono rendersi conto che l’Italia sta diventando il paese europeo che più di altri mette in atto un terribile discriminazione contro i Rom. La commissione delle Nazioni Unite per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali (Cerd) ha recentemente espresso preoccupazione “per la sorte di molti Rom, che non potendo avere una casa pubblica vivono nei campi” e continua affermando che “in aggiunta alla mancanza fondamentale degli aiuti di base, il permettere che esistano questi campi, invece di provvedere con reali case, comporta non solo una segregazione fisica dal resto della comunità italiana, ma una segregazione economica, politica e culturale”. Il CERD è particolarmente preoccupato per i “rapporti che indicano atti di abuso e uso della violenza da parte della polizia e della polizia penitenziaria contro gli stranieri e i membri delle minoranze”. Il CERD raccomanda all’Italia di “intensificare l’educazione al rispetto da parte degli ufficiali di polizia” per la tolleranza interetnica e per i diritti umani e di istituire una commissione per i diritti umani che possa avere cura delle istanze dei gruppi di minoranza e che combatta la discriminazione. Ma nessuna commissione sembra che sia stata istituita. Questo perché l’Italia non vuole riconoscere i Rom come un gruppo etnico minoritario. Per l’Italia sono soltanto “nomadi” e se non sentono l’esigenza di muoversi e di andarsene da soli, allora uno scoppio di violenza, attentamente conciliato all’interno del linguaggio amministrativo, li può mettere sulla loro strada. Ma se la tua casa è circondata da mura, costruita dalla città che ti ospita per isolarti dal resto dell’umanità? E se la tua casa ha un posto di blocco permanente che ti controlla i documenti ogni volta che ti muovi e controlla che i tuoi ospiti se ne siano andati al tramonto? Se sei un Rom e stai leggendo queste righe allora hai altissime probabilità che tu viva in un posto come questo. Altrimenti vivi in una macchina ai margini della strada. E qualunque sia la tua abitazione sicuramente sei stato svegliato nel cuore della notte, tirato giù dal letto, ti sei sentito chiamare “zingaro” e se stato controllato da parte della polizia, e forse hanno tirato giù la tua baracca in cui vivi con un bulldozer del municipio. Se sei uno zingaro sicuramente sei stato tenuto in custodia preventiva almeno una volta e picchiato un poco. I Rom soffrono della segregazione razziale in Italia. Al cuore del comportamento dell’Italia verso i Rom c’è il razzismo. La convinzione, spesso inconsapevole, dettata dall’ignoranza che i Rom siano delle persone strane, biologicamente diverse, che non appartengono all’Italia e che la loro presenza è un errore. I Rom in Italia sono appena tollerati nel migliore dei casi, ma oggi il razzismo e la xenofobia in Italia si sta diffondendo come benzina su un pavimento in fiamme. L’uccisione di Fabio Halilovic è la scintilla che accenderà questo fuoco.


BUSH, ISOLATO E PERICOLOSO

di Rina Gagliardi

da "Liberazione" del 28.08.02

La sensazione - speriamo non determinata dai nostri wishfulthinkings - è quella di un isolamento crescente di Bush junior e dei suoi falchi guerrieri - quelli tipo il vicepresidente Cheney, per intendersi, che ripropongono un giorno sì e l'altro no lo spianamento «preventivo» di Baghdad. Questa volta, insomma, l'America non sembra percorsa da fiammeggianti vocazioni di vendetta o di aggressione bellica. Non muore dalla voglia di mandare i suoi boys a seppellire di bombe un paese lontano, per quanto nemico e minaccioso sia. A un anno dall'attentato dell'11 settembre e dalla proclamazione della «guerra santa al terrorismo internazionale», non percepisce, insomma, né la necessità né l'urgenza di un'altra guerra, contro l'opinione di quasi tutti gli alleati, europei, arabi, russi, canadesi. Perfino il servo più fedele, il sempre-sorridente Tony Blair, questa volta è costretto a ritrarsi, premuto da un'opinione pubblica che di guerra non vuole sentir parlare. In questo quadro, si colloca il conflitto ormai aperto tra il Presidente e un'ampia parte del Congresso: non si tratta più soltanto della (scontata?) opposizione democratica, ma di una diffusa area del Great Old Party. Uno scontro che, al di là della sua eventuale complessità "giuridica", è squisitamente politico. Un inquilino della Casa Bianca che fosse sicuro di sé e della sua strategia internazionale di guerra, si sottoporrebbe comunque al giudizio del massimo organismo parlamentare: cercherebbe (e magari otterebbe) un consenso tanto più necessario in una fase così critica per la politica internazionale degli Usa. Invece, "Dablju" (come vien sarcasticamente definito il Presidente, per distinguerlo dal padre che, a paragone con il rampollo, sembra adesso un gigante politico) va alla sfida aperta, come se volesse umiliare i "rappresentanti del popolo", svuotare il Congresso di ogni prerogativa che non sia meramente consultiva, andare ad una stretta centralistica, nel senso del rafforzamento dei poteri presidenziali. Un atteggiamento dettato dalla debolezza, dalla paura, nonché dai "cattivi consiglieri" che circondano la Casa Bianca. Il fatto è che il bilancio politico della "guerra al terrorismo" rischia di essere tutto e solo in rosso: in un anno, non ha prodotto alcun risultato apprezzabile. Bin Laden resta una sorta di "Diabolik" planetario, mitico e inafferrabile, e la rete mondiale di Al Qaeda, se pure esiste, non è stata certo smantellata. I taliban sono stati rovesciati, ma non sconfitti, e l'Afghanistan di oggi è tutto fuorché un paese democraticamente stabile. In compenso, sono sul tappeto, pienamente aperte, crisi drammatiche, come quella del Medio oriente e del Pakistan. E, quanto all'Occidente, la logica dell'emergenza permanente ha drasticamente ridotto i diritti civili essenziali e gli spazi di libertà. In un quadro del genere, basta il buon senso per capire che un'aggressione all'Iraq non farebbe che aggiungere catastrofe a "disordine", con rischi evidenti per la stessa politica di potenza nordamericana: e se Saddam riuscisse, ancora una volta, a sopravvivere? E se la devastazione dell'Iraq innescasse un conflitto incontrollabile in tutta l'area? E se questa guerra producesse un ulteriore raffreddamento nei rapporti con interlocutori preziosi per Bush, come quel Putin che continua tranquillissimo a fare affaroni con il Raìs di Baghdad? Proprio la forza di questi "semplici" interrogativi schiera contro il conflitto figure insospettabili di pacifismo, come Henry Kissinger e la signora Allbright. E proprio questo isolamento può produrre nell'amministrazione di Washington il riflesso opposto: un'arroganza estrema, la voglia di dimostrare al mondo che gli Usa non hanno bisogno di nulla e di nessuno. Qui, lo sappiamo, sta il pericolo maggiore: un nemico potente, isolato e anche stupido.


IL DOTTOR ZIVAGO NON ABITA PIU' QUI

di Sabina Morandi

da "Liberazione" del 28.07.02

Se c'era una cosa di cui poteva andare fiera l'Unione Sovietica era il suo sistema sanitario. Con una serie di coraggiosi piani quinquennali decisi da Mosca, i sovietici guadagnarono una vittoria dopo l'altra contro malattie ed epidemie. Nel 1970 la Russia aveva innalzato l'aspettativa di vita, che prima della rivoluzione era di trentotto anni per gli uomini e quarantatré per le donne, fino a sessantacinque e settantaquattro anni. La mortalità infantile era passata da 250 morti ogni mille nati nel 1917, a 20 nel 1970. Il successo era stato edificato sui metodi autoritari del periodo staliniano - metodi molto efficienti sia per combattere le malattie infettive che per reprimere "patologie sociali" come l'alcolismo o il dissenso politico - e, in seguito, sulla pianificazione di uno dei sistemi sanitari più efficienti che il mondo abbia mai conosciuto. L'Unione Sovietica vantava infatti di avere più dottori, infermieri e posti in ospedale pro capite di ogni altro paese. E' con questa realtà - che già era andata degenerando dagli anni '70 agli '80 - che bisogna paragonare il disastro di oggi, un disastro sanitario che si è prodotto in appena un anno dal collasso dell'Urss.

Epidemie
Nel 1991 si sono susseguite le epidemie di difterite (200 mila infettati, 5 mila morti), polio ed epatite in tutte le repubbliche dell'ex Unione Sovietica. Nel 1995 l'influenza è stata così violenta che il governo ucraino ha dovuto chiudere per una settimana. Nel '96 il tifo ha colpito il Tagikistan mentre San Pietroburgo combatteva contro il colera e la dissenteria. L'Aids è cresciuto in modo esponenziale, con 20 mila nuovi casi in Ucraina solo nel 2001, mentre la tubercolosi, la sifilide e la gonorrea seguivano a ruota. Alcolismo, tossicodipendenza e una quantità mai registrata altrove di suicidi nel '95 hanno toccato cifre che, secondo gli standard internazionali, sono da considerarsi vere e proprie epidemie. Solo fra il '92 e il '93, l'aspettativa di vita è scesa di tre anni. In appena otto anni dalla dissoluzione dello stato sovietico, il più grande progetto di assistenza sanitaria che l'umanità abbia mai costruito, si era già dissolto nel caos. Tutti gli operatori sanitari hanno visto ridurre e poi sparire i loro stipendi, e hanno cominciato a prestare servizio a pagamento in ospedali diventati ormai fatiscenti: senza riscaldamento, con acqua corrente razionata, privi di qualsivoglia fornitura medica e, talvolta, della stessa corrente elettrica. Ogni sussidio alla ricerca è stato praticamente interrotto dal '93, cosa che ha di fatto messo fine al lavoro degli epidemiologi addetti al monitoraggio della salute. Da qualche anno non c'è più nessuno che possa fornire una stima affidabile del disastro sanitario in corso. Nessun paese ha mai subito un così drastico cambiamento in tempo di pace. Basandosi sui successi degli anni '70, i ricercatori prevedevano che, nella sola Russia, ci sarebbe stata una popolazione di 160 milioni entro il 2000. Oggi, dopo dieci anni di crisi sanitaria, ci si aspetta di raggiungere 120 milioni di abitanti nel 2010, ovvero il livello più basso dai tempi della rivoluzione. Ma anche questi pronostici potrebbero rivelarsi ottimistici. E' vero che nel '99 gli omicidi si sono ridotti, ma le morti premature sono continuate e per il 2050 si stima una popolazione fra gli 80 e i 90 milioni, ovvero il numero più basso in oltre due secoli. Ma i russi non si limitano a morire. Le durissime condizioni economiche e la totale assenza di ammortizzatori sociali, spingono la gente a fare scelte drastiche in materia di figli, invertendo così il rapporto fra nati e morti. Nel 1992 il tasso di mortalità era di 1,6 volte più alto del tasso di natalità, con almeno tre milioni di giovani deceduti come diretta conseguenza della crisi del sistema sanitario, ovvero dieci volte il numero dei ragazzi morti in Afghanistan e nelle guerre cecene messi insieme. Se la situazione non dovesse cambiare solo il 54 per cento dei sedicenni di oggi potrebbe arrivare alla pensione.

E' il mercato bellezza!
La disintegrazione sociale colpisce ancora più duramente una popolazione che per generazioni è stata abituata a contare sullo Stato, sia materialmente che psicologicamente. In Russia, da un mese all'altro, intere città sono state lasciate senza lavoro, e quindi senza tutto ciò a cui il lavoro dava diritto: la casa, il cibo, l'assistenza medica. L'alcolismo, da sempre endemico nella società russa, è esploso a livelli inimmaginabili con tutte le conseguenze che solitamente comporta: violenza familiare, abusi, omicidi, suicidi, malattie e morti causate non soltanto dalle tipiche patologie dell'alcolismo, come la cirrosi epatica, ma da vere e proprie epidemie di avvelenamenti dovuti alla bassissima qualità dei prodotti più a buon mercato. Non è raro che i russi si trovino a bere, al posto della vodka, metanolo o addirittura combustibile per aerei. L'alcolismo, insieme alla dissoluzione di qualsiasi vincolo sociale, hanno dato luogo a due fenomeni che in Russia si registrano con un'intensità mai vista altrove: i suicidi e gli abbandoni infantili. Eserciti di bambini abbandonati o fuggiti da nuclei familiari particolarmente disturbati popolano le metropoli russe e vivono per strada come i bambini brasiliani, ma con due aggravanti: il loro numero, che fa impallidire le cifre record registrate a San Paolo o a Rio, e i rigori dell'inverno russo, durante il quale vivere per strada equivale a una condanna a morte.

La calata dei microbi
Negli ultimi dieci anni l'Occidente se ne è stato tranquillamente a guardare mentre la brusca transizione al mercato mieteva migliaia di vittime. Da un anno all'altro milioni di persone si sono trovate prive di stipendio, di casa e di cure mediche in un paese dove d'inverno il termometro scende di decine di gradi sotto lo zero. Anche se le conseguenze erano facilmente immaginabili, nessuno, nemmeno l'Organizzazione mondiale della sanità, ha emesso un fiato per segnalare la grave crisi sanitaria che si andava profilando. Perché oggi se ne comincia a parlare? In primo luogo, a transizione avvenuta, non c'è più il rischio di disturbare il manovratore con inutili appelli alla prudenza - autorevoli analisti sono concordi nell'affermare che sarebbe bastato predisporre degli ammortizzatori sociali sul modello occidentale - ma, soprattutto, appare evidente che il dissesto sanitario non conosce confini. Le Repubbliche dell'ex-Unione Sovietica stanno diventando una fabbrica a cielo aperto di epidemie e batteri antibiotico-resistenti, esportati a flusso continuo attraverso le frontiere. Impossibile, nel villaggio globale, lasciare che il primo esperimento di rivoluzione capitalista violenta segua il suo corso. I disperati fuggono dalle città fantasma dell'industrializzazione forzata, dove le fabbriche sono state chiuse e il cibo non arriva più, e si riversano in Occidente portando con sé il loro carico di malattie non curate o, peggio, curate male. Così l'Occidente si riscopre filantropico e progetta di correre ai ripari. In fondo è solo una ripetizione - in chiave terribilmente accelerata - del fenomeno che alla fine della rivoluzione industriale portò alla nascita dei sistemi sanitari moderni. Quando cioè i ricchi borghesi scoprirono che la tubercolosi, il colera e il tifo non volevano saperne di restarsene confinati nei ghetti degli operai o dei minatori.


UNA MACCHINAZIONE INDECENTE

di Annibale Paloscia

da "Liberazione" del 29.06.02

La vera notizia è la macchinazione contro Cofferati. Stupisce che questo elemento di valutazione della notizia non appaia chiaramente nella forma in cui Repubblica confeziona i fatti e i commenti. Colpisce anche che lo scoop capiti nel mezzo della campagna di delegittimazione della Cgil lanciata dai ministri Scajola e Giovanardi, secondo i quali definire patto scellerato un accordo che mina i diritti fondamentali dei lavoratori significa invitare al ballo i terroristi. L'aggressione alla Cgil ha avuto una sponda attivissima nei giornali di destra (in prima linea il Foglio) e in tutti i telegiornali, e mescolata con notizie di attentati immaginari propagandati dal ministri della Difesa e dai carabinieri ha introdotto elementi torbidi nella politica interna. E' stato il colmo della sfrontatezza far coincidere le provocazioni con la discussione parlamentare sul nuovo sistema centralizzato delle scorte, messo a punto da Scajola, dopo la frettolosa assoluzione di tutti i prefetti responsabili della mancata protezione a Biagi. Non basta l'assoluzione, non basta l'oscuramento della verità: si mette sotto accusa il sindacato. Graziella Mascia, parlamentare di Rifondazione comunista, ha detto durante il dibattito: «Ho sentito le dichiarazioni irresponsabili di qualche ministro: si tratta di dichiarazioni che scherzano col fuoco, che fanno riferimento al dramma del terrorismo tentando di strumentalizzarlo per colpevolizzare il conflitto sociale e il movimento sindacale».

Quelle lettere dal buio
Su questo scenario di un governo che scherza col fuoco scatta la macchinazione contro Cofferati. In modo misterioso arrivano alla redazione di Zero in condotta, un settimanale di sinistra di Bologna, le copie di cinque lettere scritte da Marco Biagi, il professore di diritto del lavoro, consulente del ministro Maroni, assassinato dalle Br il 19 marzo scorso. Il settimanale si accorda con Repubblica per la contemporanea pubblicazione. Le lettere sono indirizzate al presidente della Camera Casini, al ministro del Lavoro Maroni, al sottosegretario Sacconi, al direttore della Confindustria Stefano Parisi e al prefetto di Bologna. In tutte Biagi esprime l'angoscia di sentirsi nel mirino delle Br, denuncia telefonate minatorie, è giustamente preoccupato dal fatto che chi gli rivolge le minacce dimostra di essere informatissimo sui suoi movimenti e sulla mancanza della scorta. La novità, rispetto alle cose che sapevamo sulle gravi responsabilità degli apparati dello Stato, sono i riferimenti a Cofferati. Se ne parla in due lettere: quella al presidente della Camera e quella inviata per e-mail a Parisi. Nella prima Biagi dice di essere preoccupato perché la sua figura è criminalizzata dai suoi «avversari (Cofferati in primo luogo)». Nella seconda dice: «Non vorrei che le minacce di Cofferati (riferitemi da persona assolutamente attendibile) nei miei confronti venissero strumentalizzate da qualche criminale».

Gli omissis
Il fatto strano è che nel testo arrivato al giornale di Bologna sono omessi il nome del segretario della Cgil e l'inciso in cui si fa cenno alla misteriosa e «assolutamente attendibile» fonte che ha parlato a Biagi delle minacce di Cofferati. Ha ragione Cofferati: «Questo è il lato più oscuro di tutta la vicenda». Qualcuno, strumentalizzando le paure di Biagi, gli fa credere che il segretario della Cgil ha pronunciato delle minacce nei suoi confronti. Biagi è così allarmato che decide di informare sia Casini che Parisi. "Gola profonda" non ha alcuna intenzione di far scoprire il suo ruolo di provocatore. Quell'accenno fatto nella lettera di Biagi a Parisi non gli piace. Chi se non lui stesso poteva avere interesse a cancellare il riferimento alla fonte «assolutamente attendibile»? E chi, se non lui, può avere mandato il testo contenente l'omissione, insieme con le copie delle altre lettere, al giornale Zero in condotta? E qui si apre un nuovo capitolo dei misteri d'Italia. I magistrati della procura della repubblica di Bologna hanno detto di essere in possesso solo di tre lettere di Biagi: quella al prefetto, quella a Maroni e quella a Casini. Ma hanno precisato che il testo di quella indirizzata al presidente della Camera è diverso da quello fatto pervenire a Zero in condotta e non contiene nessun riferimento a Cofferati. A conoscenza di tutte le lettere, compreso quelle sconosciute ai magistrati, possono essere solo i servizi segreti e tramite loro il Governo. In questi paraggi alloggia l'agente provocatore. La macchinazione contro Cofferati è sofisticata: solo un servizio segreto può architettare una trama così sottile. A Bologna c'è il fulcro delle indagini sull'omicidio Biagi. Si sono fatti passi avanti, ma ancora c'è una fitta oscurità sulle strategie e sull'identità delle nuove Br. Il marchingegno di strumentalizzare piccoli giornali di sinistra per campagne di intossicazione del clima politico è stato usato spesso dai servizi segreti di molti Paesi. Il risultato che voleva ottenere "Gola profonda" era solo di gettare ombre sul segretario della Cgil, di discreditare il capo del sindacato contrario a compromessi sull'articolo 18?

Perché senza scorta?
Sono avvenute delle cose strane prima dell'omicidio Biagi. Il settimanale Panorama ha pubblicato un documento proveniente dai servizi segreti in cui si preannunciavano attentati contro sindacalisti ed esperti di diritto del lavoro che partecipavano alle trattative sull'articolo 18. E' stupefacente che anche dopo quel documento Biagi sia stato lasciato senza scorta. Le Br hanno speculato sul clima creato da quel documento e hanno compiuto l'omicidio a ridosso della manifestazione del 23 marzo. Oggi si è creato di nuovo un clima torbido. I servizi antiterrorismo del Viminale sono in grande allarme. Le Br si risvegliano sempre nei momenti in cui sulla scena politica intervengono fattori di provocazione. Chi manovra questi fattori mette in conto gli input che dà alle Br? E' un interrogativo molto inquietante.


G8, 40MILA EURO AL MINUTO

di Sabina Morandi

da "Liberazione" del 26.06.02

Quarantamila euro al minuto, ovvero 70 milioni di dollari, pasti esclusi. E' quanto costerà, solo per quanto riguarda la sicurezza, uno dei vertici più brevi della storia dei G8. Appena 30 ore durante le quali i governanti dei sette paesi più ricchi del mondo, cui si è aggiunta la Russia, si riuniranno a Kananaskis, località sciistica sulle montagne canadesi immersa nelle foreste dichiarate off limits, per motivi di sicurezza, perfino agli orsi. Trenta ore per celebrare quello che George Monbiot del Guardian ha chiamato "il culto messianico dell'impero" ovvero il solenne impegno dei leader dei paesi G8 a "liberare il mondo dal male" proponendo "soluzioni dall'alto, senza prendersi alcuna responsabilità".

I padroni del mondo
Ottomila uomini, elicotteri d'attacco CH-146, caccia F-18 e sistema di difesa antiaerea con lanciamissili e supercommandos Jft-2, è questo il costoso arsenale chiamato a proteggere i padroni del mondo, nel primo G8 dopo l'11 settembre. Ci saranno Berlusconi, Bush, Putin, Chirac e Blair, più il presidente giapponese Junichiro Koizumi e il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder. Padrone di casa il primo ministro canadese, Jean Chretien. Tutti chiamati a discutere, in appena 30 ore, della guerra al terrorismo, della crescita economica globale, dello sviluppo sostenibile, della lotta alla povertà e del Nepad, ovvero il New Partnership for Africa's Development, il piano d'azione per il continente nero fortemente sponsorizzato dal premier canadese. Nell'ambito della lotta alla povertà verrà rilanciato il progetto Hipc, presentato a Colonia nel 1999, che mira a ridurre il debito dei cosiddetti Paesi poveri altamente indebitati (Hipc, appunto). Un piano di cui hanno beneficiato 26 Stati ottenendo una riduzione del debito di circa il 60%, Stati che comunque non avrebbero mai avuto alcuna possibilità di saldare i conti, come dicono i critici. Il progetto Hipc fa parte della obbligatoria dose di retorica buonista e patinata che deve fare da corollario a ogni vertice che si rispetti, così come i due progetti presentati da Berlusconi: quello sul modello informatizzato e digitalizzato di governo globale attraverso internet e la legge sulla De-tax - un po' una specialità dell'Azienda Italia - che permetterà a ogni cittadino di devolvere l'1 per cento del prezzo di vendita di beni e servizi agli aiuti per i paesi poveri. Infine si farà rapporto sulla Task Force per l'istruzione istituita a Genova per l'alfabetizzazione di tutti i bambini entro il 2015, così come sui risultati ottenuti al vertice Fao di Roma, cioè nessuno.

La torta africana
Di ben altro spessore è il piano per l'Africa, ovvero il Nepad, portato in dono da alcuni capi di Stato africani: il senegalese Wade, il nigeriano Obasanjo, il sudafricano Mbeki, l'algerino Bouteflika e l'egiziano Moubarak. Confezionato su misura per incontrare i favori della dirigenza occidentale, e presentato da leader la cui democraticità è quantomeno dubbia, il Nepad è destinato a completare il lavoro lasciato a metà dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale in cambio di qualche riduzione del debito e qualche spicciolo in aiuti. Ovvero, diventare il volano per un'altra massiccia iniezione di capitali stranieri e di privatizzazioni. Resta da capire quanto ancora da arraffare visto che in alcuni paesi già denutriti, come il Malawi, il Fondo Monetario ha costretto a privatizzare perfino le riserve di grano. Ma si sa, gratta gratta, qualcosa si trova sempre. Ma il Nepad è particolarmente gradito ai leader dei paesi ricchi anche dal punto di vista propagandistico in quanto contiene un'implicita assoluzione su qualsiasi colpa occidentale. La condizione disastrosa del continente è solo colpa dei precedenti governi africani, avidi "cleptocrati" incapaci di pianificare una corretta gestione manageriale dei loro paesi. Non un cenno sulle responsabilità dei paesi ricchi, che hanno utilizzato il sistema del debito per garantirsi il controllo economico su tutti i paesi poveri. Non un cenno nemmeno al fatto che il sistema in sé deve avere qualche problema se alla fine sono tutti indebitati, i paesi poveri come i ricchi Stati Uniti, il cui debito quasi equivale a quello di tutti i paesi in via di sviluppo messi insieme. Sullo sviluppo agricolo - settore ben caldo, come abbiamo visto nel vertice di Roma - il Nepad osa sperare in una "rimozione di un certo numero di impedimenti strutturali". Si parla della disparità delle tariffe doganali o dei sussidi alle produzioni dei paesi ricchi, che consentono di invadere i mercati africani sbaragliando la concorrenza? Niente affatto. L'unico impedimento strutturale che viene menzionato è "l'incertezza climatica" del continente, che non si capisce davvero come potrebbe venire rimossa.

Economia di guerra
Delle situazioni più incandescenti del momento, come la crisi in Medio Oriente, la situazione in Afghanistan e la questione del Kashmir, si parlerà durante la cena. A parte il dubbio gusto di parlare di morti ammazzati mentre si banchetta, questo la dice lunga sulla volontà politica di mettere davvero mano ai problemi più seri. Ciò di cui probabilmente si discuterà sul serio durante i colloqui veri e propri, è la montagna di soldi richiesta da Putin per evitare che l'arsenale batteriologico e nucleare finisca nelle mani dei terroristi islamici. I colloqui con il presidente russo e, soprattutto, i conti che Bush presenterà ai leader europei per "un maggiore impegno contro il terrorismo", sono il vero oggetto del contendere. L'America è pronta a spendere 10 miliardi di dollari per neutralizzare i vecchi arsenali sovietici e per rafforzare la sicurezza via terra, aria e mare, e vuole che gli europei facciano altrettanto. Resta da vedere se gli altri leader sono disposti a spendere soldi a scatola chiusa per finanziare piani strategici che, per motivi di segretezza, sono destinati a rimanere sul vago e, soprattutto, per una guerra tutta a conduzione americana.


AL VICOLO CIECO

di Vincenzo Andraous

Carcere di Pavia e tutor educatore Comunità "Casa del Giovane" di Pavia.

Qualche tempo addietro scrissi alcune riflessioni sul carcere, sostenendo che esso è sempre più costretto a vivere del suo, è sempre più "obbligato" a mancare alle auspicate attese della collettività, nell'impossibilità quindi di partorire giustizia e speranza. Scrissi dei tanti suicidi e dei troppi silenzi. Ricordo che fui accusato di falsare i dati, di stravolgere la realtà, di mistificare la verità. Fui indicato come uno scrittore che non sapeva dare conto della propria scrittura, cioè del valore delle parole. Con sorpresa, alcuni giorni dopo, un grande giornale pubblicò un servizio che confermava le mie tesi, i suicidi in carcere sono effettivamente aumentati drammaticamente. Soprattutto, ribadisco io, si è deteriorata quella solidarietà e partecipazione costruttiva tra il dentro e il fuori. Quel collante-riabilitante a fatica edificato negli ultimi anni. Solidarietà che non è un sentimento pietistico né parente lontana di un'assistenzialismo passivo, bensì è un preciso interesse collettivo, affinché alla giusta condanna del colpevole si affianchi quella prevenzione-accompagnamento che consente di combattere la recidiva dilagante. Nel silenzio e nell'indifferenza colpevole, spesso mi sono chiesto qual'è il volto nascosto dietro le righe di una notizia. Qual'è il volto e la storia dell'ultimo uomo scivolato in "SCACCO MATTO" in un carcere. Quanto quest'ennesimo suicidio risarcisce in termini di umanità, al di là della mera notizia? Per quanto concerne il carcere penso che non tutto ciò che accade nell'ambiente penitenziario è arbitrario, illegale, ingiusto, forse è solo il risultato del nulla prodotto, appunto, per mancanza di un preciso interesse collettivo o meglio della sua comprensione sensibile. Perciò a nulla vale il nuovo Ordinamento Penitenziario, il rafforzamento degli Agenti di Polizia Penitenziaria, e di contro la negazione di ogni pietà attraverso la concessione di un indulto o di una amnistia. Se non interverrà un vero ripensamento-intervento culturale, c'è il rischio di precipitare all'indietro: in una proiezione dell'ombra che non accetta né consente spazi di ravvedimento. Non è il caso di avvitarsi nel pessimismo, di arrendersi non se ne parla, perché come ha detto Don Franco Tassone Responsabile della Comunità Casa del Giovane di Pavia: "occorre vincere l'ultima battaglia". Infatti sono convinto che anche fra le mura di un carcere ci sono uomini consapevoli dell'esistenza di leggi morali, oltre che scritte. Ci sono uomini che possono riconoscere le leggi dell'armonia sociale, quelle leggi che ad un certo punto si è pensato di poter dimenticare. Però penso anche a quell'uomo, l'ultimo della serie che s'è impiccato. A quel volto, a quel cappio al collo, e intravedo l'importanza di demolire i ghetti mentali, di per sè espressione di quello spirito umano… spesso incatenato. Penso allora a questa vita, che è tutta da vivere sempre e comunque, proprio perché è un 'avventura incerta, e incerta significa che si patisce, si soffre, si cade, e si arriva alla coscienza della poca conoscenza, dei tanti motivi che sfuggono. Non conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà dell'accettazione del dolore, il che in una parola sottenderebbe assenza di saggezza. So bene quant'è difficile agguantarne l'orma, e quanto a volte ciò sembri lontano, sebbene così straordinariamente vicino, al punto da non vederne neppure l'ombra. In un carcere è difficile perforare quella superficialità che è corazza a difesa, il "muro di niente" contro cui cozziamo e moriamo. E' davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome interiorità, navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per arrivare a quell'essenza che può dirci di cosa siamo capaci, e addirittura svelarci il significato da dare alla vita. Qualcuno ben più illuminato di me ha detto che, forse, il significato della vita, propriamente, non va cercato: dobbiamo solo aiutarlo a rivelarsi e quindi accoglierlo. Fuggire da noi stessi, dalla realtà stretta di una cella, annullando il significato della propria esistenza, non giustifica la colpa, né le ragioni che ci inducono a farla finita. Tanto meno indurrà la società a chiedersi se questo ultimo gesto è lecito, e se è morale. Ancor meno spingerà a domandarsi se per caso Dio non sia morto proprio dentro la cella di un carcere, ipocritamente descritto come un luogo di speranza, mentre permane un luogo di morte. Forse sarebbe il caso di ripensare davvero alla possibilità di un carcere a misura di uomo, anche dell'ultimo degli uomini. Di come il detenuto, oltre alla propria condanna, sconti una ulteriore sanzione, quella di morire a tempo determinato. Perché in carcere, oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni e umiliazioni, va di moda la flessibilità, non quella del lavoro né della pena: umana, dignitosa, condivisa. Si tratta di flessibilità nel risolvere i problemi endemici che soffocano l' Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi come la nostra evoluta società, che cresce, si educa, si realizza pari passo con l'imbarbarimento dei sentimenti e dei valori, scambiati per medaglie e successi da conseguire a tutti i costi. Io sono un detenuto, lo sono da trent'anni. Scrivo, leggo, lavoro, ascolto e penso, ho gratitudine sincera per chi mi ha aiutato ad essere ciò che sono oggi, sono consapevole delle difficoltà in cui vive il carcere, e ancor di più quelle in cui sopravvive l'uomo detenuto. Sono conscio che le utopie, la pietistica, fanno solo male a entrambi. E' urgente smetterla con le solite frasi fatte, luoghi comuni, e fredde didascalie. In carcere non si muore solamente per le strutture vecchie e malandate, né per l'assenza cronica di Operatori. In galera ci si perde per sempre, perché è un luogo separato davvero, da una società che corre all'impazzata al supermercato delle suggestioni, degli ideali venduti a buon prezzo, della fede che non è amore che libera, ma fatica di pochi momenti. In carcere è morto un altro uomo? I mass-media hanno sparato a zero sul sistema, hanno detto che si è suicidato, per l'invivibilità della prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine imposta….. Ma ecco che le parole assumono la cantilena di un nuovo e altrettanto inaccettabile epitaffio, perché anche negli Istituti di più recente costruzione, dove ci sono pochi detenuti, più operatori, e spazi di vivibilità umana in abbondanza, un altro detenuto si è tolto la vita. Non c'è bisogno di richiamare per forza una fratellanza allargata, di ripetere "mio Dio…", penso piuttosto che occorre ritornare a una coerenza che non è spendibile con le sole parole. Una coerenza che riporta al centro l'essere umano, con l'attenzione vera per chi subisce il dolore dell'offesa tragica, e con l'attenzione sensibile che non è accudente, né giustificante, ma un preciso interesse collettivo, affinché l'uomo possa migliorare e trasformarsi. Bisogna bandire le ciance, e chiamare per nome le mancanze, le assenze, gli incitamenti che inducono a non pensare a chi cade, ma spronano a seguire chi ben cammina…. poco importa se calpestando chi arranca. Eppure non tutto viene per nuocere, infatti questa epidemia di suicidi e di numeri a scalare forse risolveranno il problema asfissiante del sovraffollamento, e, perché no, anche quello della spesa pubblica: e per mantenerne uno in meno, e per non costruire altri penitenziari………. pardon, "molok" nelle nebbie transilvane. >


EUSKADI NELLA SPIRALE DELLA GUERRA

di Guido Caldiron

da "Liberazione" del 28.08.02

In Euskadi negli ultimi anni in molti si sono detti che se solo fosse esistita una forte comunità basca negli Stati Uniti, allora anche la situazione drammatica di questa fetta d'Europa insanguinata si sarebbe avviata verso una soluzione di pace, come è accaduto per l'Ulster. Se a Boston o Chicago, dove da sempre le varie "fratellanze" irlandesi hanno raccolto una buona parte dei fondi destinati a sostenere sia lo Sinn Fein che lo stesso Esercito Repubblicano Irlandese, ci fossero stati comitati che ricordavano l'emigrazione dell'Ottocento dai dipartimenti baschi della Vizcaya o della Guipuzcoa, forse le cose nella regione avrebbero preso negli ultimi tempi una strada ben diversa. Questo senza considerare che perfino il presidente che ha sostenuto il processo di pace in Irlanda del Nord, Bill Clinton, poteva contare degli avi nelle sei contee dell'Ulster, anche se nel campo protestante. Se era successo a Belfast, insomma, tra le tragedie accumulate da un conflitto ancora più terribile, perché una possibilità alla pace e alla convivenza non poteva essere offerta anche a Bilbao o San Sebastian? E invece no. I baschi sono rimasti soli, da soli si sono confrontati con le scelte sempre più dure del governo di Madrid e si sono isolati nelle loro rivendicazioni come nella deriva violenta di una parte della loro stessa comunità. Al punto che oggi considerazioni come queste non sono più nemmeno proponibili. Oggi che anche il più timido spiraglio per il dialogo, per l'apertura di una trattativa, appare davvero impossibile. La scelta della magistratura spagnola e del parlamento di Madrid di mettere al bando "Batasuna", l'erede di "Herri Batasuna" (Unità Popolare), il partito che rappresenta da oltre trent'anni quella che in Euskadi è definita come sinistra abertzale, sinistra indipendentista, chiude un ciclo della storia basca proiettando solo ombre oscure sul futuro di questa terra. Perché, quale che sia il giudizio che si dà del movimento politico basco dichiarato illegale, la scelta di costringerlo nei fatti alla clandestinità non fa che alimentare quella logica di guerra di cui già si nutre la strategia omicida del terrorismo. Senza contare che in nessun modo si può ridurre la pluralità di soggetti sociali che da sempre si muovono nella sinistra basca, dai sindacati ai collettivi femministi, alla sola "Batasuna" e meno che mai alla sola Eta. Le scelte fatte dal governo di Aznar appaiono però in questo senso molto chiare. Già nel 1998-99, di fronte prima all'accordo di Lizarra tra le diverse componenti dei partiti nazionalisti baschi in favore di una soluzione negoziata del conflitto (che prendeva a esplicito modello proprio il processo di pace nordirlandese), quindi alla tregua unilaterale dichiarata da Eta, la destra di Madrid non ha offerto alcun segnale di distensione preferendo continuare a considerare la "questione basca" come un semplice problema di ordine pubblico o di lotta al terrorismo. Al contempo, la ulteriore spinta repressiva imposta dal Partido Popular dopo il suo arrivo al governo, culminata prima delle decisoni di questi giorni con l'arresto dell'intera leadership di HB, che faceva seguito alla politica della "guerra sporca" dei Gal che era stata condotta dal Psoe di Felipe Gonzales, ha contribuito ad alimentare il clima di isolamento degli ambienti più radicali dell'indipendentismo. Con il risultato che se si guarda ora all'età di quelli che sono indicati dalla stampa spagnola come i membri della "cupola" di Eta, ci si accorge che si tratta di giovani che di rado hanno superato i trent'anni: un dato che da solo indica nitidamente la deriva suicida che attraversa una parte della comunità basca, prigioniera di una macchina terroristica che si alimenta di una cultura della guerra e il cui violento circolo vizioso appare senza una possibile fine. Eppure la condanna più ferma della violenza non può impedire di scorgere nella situazione del Paese basco una dimensione che supera la sua pericolosa riduzione alla logica della guerra. Una dimensione che per decenni a sinistra si è letta con il vocabolario dell'autoderminazione dei popoli e che oggi, con maggiore realismo e serenità, si dovrebbe perlomeno considerare alla luce da un lato della crisi dello Stato-nazione prodotta dai processi di globalizzazione in atto sull'intero pianeta, e dall'altro, più modestamente ma con estrema concretezza, tenendo conto della centralità che il dibattito sull'autonomia delle diverse regioni ha assunto nella società spagnola. Da questo punto di vista un dato appare in particolare non più aggirabile nel dibattito su Euskadi. Al di là del diverso sviluppo storico seguito dai movimenti politici nelle tre regioni, quanto accade oggi nel Paese basco va infatti letto anche alla luce di quanto sta avvenendo in Catalogna e in Galizia, gli altri due territori attraversati da tempo da forti istanze di autonomia. L'intera politica spagnola del dopo transizione, vale a dire da dopo la morte di Franco e il ritorno alla democrazia del paese, si caratterizza proprio per il dibattito che gli spagnoli chiamano "autonomico" e che ha per oggetto ultimo proprio la piena trasformazione del vecchio stato unitario. Lo storico delle minoranze Yves Lacoste, fondatore e direttore della rivista "Hérodote", è arrivato a definire la Spagna come un vero "stato plurinazionale", pronosticandone una sorta di implosione pacifica. Solo che su questo terreno, mentre il fenomeno catalano di Pujol assomiglia a quel modello di federalismo di destra che piace non solo a Aznar ma anche al nostro Polo (non solo alla Lega), sia i movimenti sorti in Galizia, a forte impronta operaia e sindacale, che in Euskadi, rappresentano, almeno nelle proprie origini, una esplicita minaccia politica, prima ancora che violenta. Posto che si tratti fino in fondo di una simile prospettiva, è evidente che una possibile "uscita da sinistra" dalla situazione delle comunità di Spagna, darebbe una spallata notevole al sistema Aznar che, come si è visto anche in occasione del recente conflitto con il Marocco, quanto a richiami al nazionalismo patrio non intende essere secondo a nessuno. I problemi che si pongono oggi in Euskadi attraversano perciò, in tema di autogoverno e di partecipazione alla democrazia, un dibattito ben più ampio e articolato. Un dibattito che però continuerà ad essere celato fino a che sarranno la cultura della guerra e le sue rappresentazioni sanguinarie ad avere il sopravvento.








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